«Changing Shapes»: Lorenzo Vitolo

E’ uscito a fine gennaio l’album del debutto discografico del giovane pianista napoletano. Ne parliamo con lui.

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Lorenzo, iniziamo dal tuo disco «Changing Shapes». E’ il tuo debutto discografico e contiene un solo standard – Blue In Green -, il resto sono tutte tue composizioni. Quando è iniziato il processo compositivo di questo album?
Il processo compositivo di questo album è iniziato a settembre 2018 con la scrittura di Unusual Muse, in quel periodo ho sentito il bisogno di sperimentare scrivendo composizioni con forme più lunghe e composte da sezioni contenenti atmosfere diverse. La maggior parte dei brani sono stati composti successivamente, eccetto l’arrangiamento di Blue In Green e Next Stop, che già suonavo da alcuni anni.

Perché hai scelto Blue In Green come standard?
Ho suonato il mio arrangiamento di questo bellissimo brano in molti concerti in trio o anche in piano solo e mi ha sempre soddisfatto. Già da qualche anno volevo registrarlo e pubblicarlo perciò ho voluto inserirlo nel mio primo disco. Il motivo è che ho sentito che se avessi aspettato troppo a registrarlo non lo avrei più pubblicato, il mio evolvermi musicalmente me lo avrebbe reso troppo estraneo.

Che tu non nasca come jazzista si capisce fin da subito. Il tuo fraseggio è classico e vi sono continui richiami alla musica classica, sin da Unusual Muse. Il tuo intento artistico è quello di mettere insieme il linguaggio della musica classica con quello del jazz?
La musica classica ha sicuramente fatto parte della mia prima formazione come pianista e continua sicuramente ad ispirarmi, sotto diversi aspetti. Devo  precisare di non essere nato esclusivamente come pianista classico: come la musica classica anche il jazz ha fatto parte della mia vita musicale quasi sin da subito, in un percorso parallelo, se così si può dire. Ciò che generalmente ammiro di più della musica classica che ascolto, e che vorrei faccia sempre più parte della musica che scrivo, è il rigore, la coerenza e la varietà nello sviluppo compositivo. Tutto ciò non riguarda necessariamente il contenuto musicale melodico, armonico e ritmico. Per questo motivo il mio intento artistico primario non è quello di unire i due linguaggi musicali.

Ci sono richiami al modern mainstream, ma sembra che li allontani subito, come appare in Vicinity. Mi sbaglio?
No non ti sbagli, alcuni brani rientrano sicuramente in questo genere musicale ma altri, come Vicinity ed Unusual Muse ad esempio, se ne allontanano a causa del diverso approccio alla forma ed alla composizione. Sento vicini a me entrambi gli approcci a questa musica, per questo motivo ho voluto rappresentarli entrambi nell’album.

A proposito di Vicinity è costruito sulla forma della suite, con diversi movimenti. Tanto apparire all’ascolto formato da tre differenti brani, forse anche per lo sfumato che si affaccia dopo circa tre minuti. Lo hai concepito come un unico brano o è frutto della fusione di diverse idee?
Ho composto Vicinity in un periodo di circa una settimana e l’ho concepita come un’unica composizione sin dall’inizio. La prima idea che ho avuto per questa composizione è stata però l’idea della sezione centrale, che inizia al terzo minuto circa, quando l’ho sviluppata ho però sentito la mancanza di una sezione che la preparasse, infine ho utilizzato un approccio simile per ritornare al tema finale. Credo che per questo motivo il risultato sia simile ad una suite, o comunque un brano composto da più sezioni quasi indipendenti.

Sei giovane e questo è il tuo primo disco. Pensi che la tua musica possa influenzare la musica della gente che lo ascolta?
C’è bisogno di tempo e almeno un po’ di esposizione affinché un musicista venga influenzato da qualsiasi tipo di musica, tutto ciò solitamente non avviene in poco tempo. Quindi, prima che ciò possa eventualmente accadere, credo che debba passare del tempo e che io debba pubblicare dell’altra musica. Detto ciò, sarei ben felice di sapere in un futuro che la mia musica possa avere dato idee o spunti ad un altro musicista, di qualsiasi tipo essi possano essere.

Parliamo dei tuoi compagni di viaggio: Rafael Abdalla e George Potamianos, rispettivamente provenienti da Brasile e Grecia. Come vi siete incontrati?
A settembre 2018 mi sono trasferito in Olanda per un master in piano jazz a Groningen e lì ho incontrato Rafael e George. Suonando assieme in diverse occasioni, ho notato che condividiamo delle idee ed un gusto musicale simili, che avrebbero reso semplice lo sviluppo del mio progetto. Abbiamo perciò trovato velocemente un linguaggio comune per poter comunicare musicalmente.

Hai un tuo mentore spirituale?
Non ne ho uno in particolare, molte personalità mi ispirano con le loro esistenze. In generale ammiro chi cerca sempre di evolversi in ciò che fa.

La situazione irreale che si è creata con la pandemia del Covid-19 ha bloccato tutte le attività, anche quelle artistiche. E lo scenario non si prospetta dei migliori anche nell’immediato futuro. Quali sono le tue considerazioni in merito? Tu, personalmente, come hai reagito a questa situazione?
Come a tutti gli artisti, molti progetti già programmati sono stati purtroppo annullati o rimandati. Il problema più grande in questi mesi è la quasi impossibilità a fare programmi a medio termine, l’aspetto più negativo è sicuramente che ancora non c’è nessun prospetto di ripresa delle nostre attività, in uno scenario in cui le decisioni cambiano di continuo. In questo periodo sto ultimando il Master qui in Olanda, studiando e dando alcuni esami online. Sto completando la scrittura della mia tesi aspettando una data (ed una modalità) per il mio esame finale. Ho la fortuna di condividere la casa con altri musicisti, per cui ogni giorno ho la possibilità di suonare e studiarci assieme. Stavo cercando di pianificare il mio prossimo futuro nei mesi scorsi, ma ora è tutto piuttosto imprevedibile.

Qual è la situazione in Italia dal punto di vista delle opportunità per i giovani jazzisti?
Come per tanti altri giovani jazzisti come me, c’è difficoltà ad inserirsi nella scena musicale suonando nei club o nei festival. C’è tantissima offerta musicale e purtroppo poco spazio. Soprattutto in questo momento si può solo provare a sviluppare progetti validi e interessanti da proporre.

Vista la crisi del mercato discografico, qual è l’importanza di pubblicare un disco oggigiorno?
Il disco è in questo periodo uno dei mezzi per far conoscere la propria musica.  Anche non essendoci un ritorno economico il più delle volte, serve a farsi riconoscere come musicista con un proprio progetto da presentare. È anche un oggetto che racchiude un’idea artistica sviluppata in un determinato momento della propria maturazione musicale, averlo aiuta a ricordarci cosa si è raggiunto o spinge a voler evolversi verso qualcosa di nuovo.

Quali obiettivi ti sei dato nel medio-lungo periodo?
Cercare di allargare la mia rete di contatti in Europa grazie al mio periodo di studi in Olanda, dove ho conosciuto musicisti con i quali adesso collaboro. Il mio obiettivo è di poter iniziare a suonare maggiormente in altre nazioni europee oltre che in Italia. Infine vorrei poter incominciare un’attività di insegnamento in futuro.

Qual è il tuo artista (non necessariamente musicista) preferito?
In questo periodo sono molto affascinato dalla musica di Art Tatum, ha una densità di informazioni ed una profondità che mi toccano particolarmente.

Che musica ascolti abitualmente?
Le mie abitudini di ascolto cambiano frequentemente. Una delle ragioni per cui i miei ascolti variano è per potermi esprimere meglio nei progetti a cui collaboro, utilizzando un linguaggio più coerente. Spesso prendo spunto da ciò che ascoltano i miei colleghi, come altra fonte di ispirazione. La musica che ascolto per gusto personale varia quindi periodicamente tra musica jazz, classica o sudamericana: ultimamente, ad esempio, ho avuto piacere ad ascoltare la musica del chitarrista peruviano Raúl García Zárate.
Alceste Ayroldi