Bergamo Jazz (seconda parte) – Incroci di culture

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Il quartetto Fairgrounds di Jeff Ballard, foto di Luciano Rossetti/Phocus Agency

Varie sedi, 17-20 marzo

Com’è consono alle sue prerogative di festival internazionale, la 43esima edizione di Bergamo Jazz ha documentato varie tendenze stilistiche, anche in virtù del composito retroterra culturale dei musicisti invitati. Oltre che al Teatro Sociale e al Teatro Donizetti, gli eventi si sono svolti in altri suggestivi spazi della città, richiamando un pubblico numeroso e come sempre entusiasta, ulteriormente incoraggiato dal ritorno alla capienza normale.

Il quartetto di Roberto Gatto, Foto di Luciano Rossetti © Phocus Agency 

Il 17 marzo al Teatro Sociale il quartetto di Roberto Gatto ha dovuto sostenere l’ingrato compito di esibirsi dopo il bellissimo (ma fin troppo lungo) concerto del trio di Vijay Iyer. Una prova affrontata con eleganza, grazie al raffinato interplay e allo squisito senso melodico dei protagonisti, ognuno dei quali ha contribuito con proprie composizioni. Il trombettista Alessandro Presti possiede un fraseggio limpido e scorrevole, dagli accenti lirici. A dimostrazione del processo di maturazione in corso, il pianista Alessandro Lanzoni opera con maggior parsimonia rispetto al recente passato, sviluppando e rifinendo meticolosamente le implicazioni armoniche. Affiancato dallo stile asciutto ma pregnante del contrabbassista Matteo Bortone, Gatto sciorina il suo magistero di batterista dotato di capacità d’ascolto non comune, grande rispetto delle dinamiche e sensibilità melodica, palpabili soprattutto nella sua Satie’s Mood.

Il trio di Jakob Bro, Foto di Luciano Rossetti © Phocus Agency

Il 18 marzo all’Auditorium della Libertà il chitarrista danese Jakob Bro si è presentato insieme ad Arve Henriksen (tromba, pocket trumpet, elettronica e voce) e Jorge Rossy (batteria). In pratica, il trio con cui ha inciso «Uma Elmo» per la ECM. È raro imbattersi in un chitarrista che agisca con tanta discrezione, si direbbe quasi con timidezza. Bro infatti privilegia arpeggi delicati, essenziali e tinte tenui che gli consentono di costruire un clima. Solo occasionalmente si concede graffianti impennate elettriche. Su queste atmosfere sospese e spesso sviluppate su tempo libero, Rossy interviene con figurazioni mutevoli e variazioni dinamiche, lavorando sul ritmo e sul suono alla stregua di uno scultore. In questo contesto Henriksen alimenta e conduce il gioco con la sua ampia gamma di colori. Il suo approccio alla tromba, a tratti abbinata all’elettronica, può talvolta richiamare Jon Hassell o Nils Petter Molvær, ma finisce per brillare di luce propria. L’imboccatura di un sassofono applicata a una seconda tromba ne trasforma i connotati ora in un clarinetto basso, ora in un’ancia mediorientale o perfino in uno shakuhachi giapponese. I suoi vocalizzi si innestano su delle melodie che evocano il patrimonio popolare scandinavo.

Jeff Ballard Fairgrounds, Foto di Luciano Rossetti © Phocus Agency 

La sera del 18 al Donizetti Jeff Ballard ha riproposto a distanza di alcuni anni il proprio progetto Fairgrounds, qui radicalmente trasformato – e in meglio – grazie a una nuova formazione: Logan Richardson (sax alto), Charles Altura (chitarra) e Joe Sanders (contrabbasso). Il quartetto basa la propria poetica su fini equilibri timbrici e dinamici: apprezzabili nelle reinterpretazioni di Chronology di Ornette Coleman e A Lunar Tune di Booker Ervin; ancor più evidenti nelle composizioni di Ballard. Anche sotto questo profilo, infatti, il batterista sembra aver messo a frutto la sua lunga esperienza nel trio di Brad Mehldau. Sia negli up tempo serrati che negli spazi più dilatati spicca la sua maestria nel suggerire stimoli continui ai colleghi e nel valorizzarne i tratti distintivi: i solidi contrafforti di Sanders; il fraseggio misurato e logicamente concatenato di Altura, che nel timbro sembra ripercorrere le strade tracciate da John Abercrombie e Mick Goodrick; il periodare sanguigno e le sinuose linee melodiche di Richardson, caratterizzate da una notevole pulizia.

Il quintetto Inner Hidden di Régis Huby, Foto di Luciano Rossetti © Phocus Agency

Il quintetto Inner Hidden con cui il violinista francese Régis Huby si è esibito il 19 marzo all’Auditorium della Libertà è portatore sano di un’identità profondamente europea e non solo per la provenienza dei componenti: Tom Arthurs (tromba), Eivind Aarset (chitarra, elettronica), Claude Tchamitchian (contrabbasso) e Michele Rabbia (percussioni, elettronica). La lunga suite proposta è infatti ricca di elementi strettamente connessi al patrimonio europeo, a cominciare dalla rigorosa unità formale e dalla netta prevalenza del collettivo. L’azione del trio violino – tromba (con o senza sordina) – contrabbasso con arco segna le tappe iniziale, intermedia e conclusiva dell’esecuzione, cucendone il tessuto. Grazie al progressivo inserimento dell’elettronica, lontani echi barocchi sconfinano gradualmente in territori riconducibili a Berio, Nono e Stockhausen, per poi approdare a un potente squarcio di rock progressivo. Un adagio sottolineato dal pizzicato e disseminato di campionamenti dà luogo a un crescendo lirico destinato quasi a svanire in un vuoto elettronico. Sono alcuni esempi della vasta gamma di soluzioni offerta da un quintetto che impiega l’elettronica in modo discreto e funzionale (cosa tutt’altro che scontata) integrandola nel tessuto delle esecuzioni grazie agli effetti delle pedaliere di Huby e ai dispositivi su cui agiscono Rabbia e Aarset, che come sempre amano operare per sottrazione.

Rob Mazurek e Gabriele Mitelli Star Splitter, Foto Luciano Rossetti © Phocus Agency

Il maestro e l’allievo. Così si potrebbe definire il duo Star Splitter formato da Rob Mazurek e Gabriele Mitelli, di scena la mattina del 20 marzo nella Sala alla Porta Sant’Agostino. I due perseguono – il primo per appartenenza, il secondo per scelta estetica – i possibili sviluppi dell’eredità lasciata negli ultimi sessant’anni dal circuito dell’AACM (Association for the Advancement of Creative Musicians) di Chicago. L’approccio all’improvvisazione è libero, a tratti condotto partendo anche da tabula rasa secondo lo spirito di pionieri come Don Cherry e Leo Smith. Prevale il lavoro sul suono: nei dialoghi tra tromba o pocket trumpet dell’americano e cornetta o sax soprano ricurvo (aspro, abrasivo, senz’altro debitore di Roscoe Mitchell e Anthony Braxton) del bresciano; nell’utilizzo, suggestivo ma non sempre equilibrato, dell’elettronica. Da una parte campanellini, sonagli (con cui Mazurek sembra officiare un rito sciamanico) e mbira, il piano a pollici, dall’altra alcune sequenze iterative richiamano una componente ancestrale africana che l’Art Ensemble of Chicago veicolava, anche scenicamente, come parte integrante della propria rappresentazione. Dietro tutto questo, però, si cela il rischio del già sentito.

Giornale di Bordo, Foto Luciano Rossetti © Phocus Agency

Tre sardi – Antonello Salis (piano, tastiera e fisarmonica), Gavino Murgia (sax soprano e tenore, voce), Paolo Angeli (chitarra e voce) – e il batterista Hamid Drake, peraltro sardo d’adozione, formano il gruppo Giornale di Bordo, protagonista del concerto pomeridiano al Sociale. Sul terreno comune dell’improvvisazione il quartetto compie una gioiosa ricognizione coniugando il retroterra culturale dei componenti con poliritmi di derivazione africana e certi tratti linguistici (fraseggio, pronuncia e timbro) tipici del jazz. Anima del gruppo è senz’altro Salis. Il suo pianismo eterodosso, percussivo, rafforzato dalle preparazioni trova un facondo interlocutore e un efficace contrasto in Drake, prodigo di cangianti costruzioni poliritmiche che diventano fonte di continui stimoli per il processo collettivo. Le sue scorribande alla fisarmonica conferiscono poi alle vibranti esecuzioni ulteriore impulso e linfa creativa. Specialmente al soprano Murgia elabora linee ficcanti che in alcuni tratti timbrici evocano il suono di ance tradizionali. Con la sua versatile chitarra sarda preparata Angeli esegue parti di basso; impiega l’arco per ricavarne sonorità di violoncello e viola; utilizza lo strumento in modalità sia acustica che elettrica con misurate distorsioni. Inoltre, sia Murgia che Angeli sono specialisti di canto tradizionale: il primo del canto a tenore (cantu a tenore in lingua sarda) nel registro di basso gutturale; il secondo del canto a chitarra (cantu a chiterra) tipico della natia Gallura. I loro interventi vocali completano un affresco policromo nel rispetto delle radici, da una parte, e della natura sincretica del jazz, dall’altra.

Michael Mayo con il bassista Nick Campbell, Foto di Luciano Rossetti © Phocus Agency

In apertura della serata finale al Donizetti molta curiosità circondava l’esibizione del 28enne Michael Mayo, descritto come un astro nascente della vocalità afroamericana. Baritono leggero dai toni sfumati e aggraziati, Mayo propende per una miscela stilistica che combina elementi jazzistici, il retaggio della parte più nobile del pop di matrice nera e il soul. In questa sintesi trovano spazio anche interventi in stile scat e porzioni di canto a cappella. L’impronta di Bobby McFerrin è tangibile e ancor più evidente risulta l’influenza di Stevie Wonder nella costruzione e nelle progressioni armoniche. Quasi tutti i brani proposti – eccetto un’ingegnosa versione di Giant Steps di Coltrane – sono originali. Tuttavia, alla fine dei salmi molte canzoni risultano uniformi pur nella piacevolezza dell’ascolto, senza però trasmettere un’identità ben precisa. Corretto, funzionale ma privo di personalità si rivela l’apporto dei membri del gruppo: Andrew Freeman (tastiera), Nick Campbell (basso elettrico) e Robin Baytas (batteria). Come si suol dire, se son rose fioriranno.

Enzo Boddi

(continua)

Foto di Luciano Rossetti, cortesia Fondazione Teatro Donizetti