Artemis «Arboresque»: parla Renée Rosnes

Uno dei più forti gruppi in circolazione – adesso diventato un quintetto – torna con un nuovo, eccezionale album per Blue Note. Ne parliamo con Renée Rosnes, ormai habituée di queste pagine.

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Occorrerebbe tornare al 1964, quando due biologi australiani argomentarono scientificamente su Nature il fenomeno dell’odore della pioggia e lo chiamarono «petricore», lemma che da allora è entrato a pieno titolo nei dizionari comuni. In soldoni, nei periodi di caldo e di siccità, l’argilla alla base delle piante raccoglie alcuni oli che alla prima pioggia sprigionano un intenso profumo balsamico e poetico, fragile e potente insieme, capace di costruire una grammatica condivisa di un’esperienza umana tanto personale da diventare, per molti, motore d’evocazione dei ricordi, madeleine proustiana e déjà-vu. 

Renee Rosnes si stupisce quasi che anche in Italia esista la traduzione di Petrichor, che è il quarto degli otto brani di «Arboresque», il nuovissimo album delle sue Artemis per Blue Note che, stavolta in quintetto, tornano dopo poco più di un anno dal premiato e celebrato «In Real Time» con un album che, come da titolo, ha una specie di centro di gravità nelle possibilità rigenerative della natura, trasfigurate in musica con la capacità di raccontare propria di chi condivide visioni e possibilità. 

A voler, poi, dilatare il senso del petricore, gioverà ricordare che etimologicamente si può descrivere come il sangue degli dèi che promana dalle rocce, una estasi fieramente ostile a chi, come il Pascal di Pirandello, decretava con la follia di «estrarre la logica dal caso, come dire il sangue dalle pietre» la preclusione all’incanto come buona prassi dell’agire. E cosa, se non la condivisione della musica quando è maiuscola, può combattere i presenti tempi di siccità, reale e figurata, con una proiezione puntata dritta al cuore? La trasformazione è la chiave per decodificare i limiti di ciò che si assume statuito. 

Lo sa bene Rosnes che ha saputo far fiorire nel corso dell’anno passato e in quello appena iniziato una pluralità di progetti, con una rara capacità di energia rinnovabile che scaturisce dal bisogno reale di fare musica, di affermare la bellezza del momento con un lavoro costante su sé stessi e sui suoni che si raccolgono dal passato e mutano nei linguaggi presenti, come gli aromi trattenuti e mai dimenticati dell’argilla tra le radici delle piante. Se il jazz è (anche) un continuo swing tra conoscenza dei padri e avanzamento per intuizioni in territori inesplorati (come suggerisce Dave Holland), in un ininterrotto dialogo tra passato e presente, Renee nel suo anno d’oro ne ha dimostrato le percorribilità. D’altronde, raccontò in una intervista a Don Was, a differenza della fotografia o della scultura che hanno connaturata l’idea di congelare l’attimo, la musica ha una vocazione a costruirsi da dentro il tempo, restando contemporaneamente effimera e definitiva. 

A scorrere la sua agenda di concerti e sessioni degli ultimi tempi, si fa una gran fatica a seguirne le tracce: dai concerti allo Smoke col sestetto di Steve Davis a Newport con Christian McBride, dal tour con Artemis agli appuntamenti al Village Vanguard col suo vecchio amico e mentore Ron Carter, dai duo con Chris Potter fino alle tappe al Birdland col marito e splendido pianista Bill Charlap con il quale continua a presentare e far evolvere «Double Portrait», un pluripremiato album datato 2010 (Blue Note) e che aveva in copertina il dipinto di Chagall, Oltre la città, a testimonianza di una vocazione incline a superare, nell’ispirazione all’oltremondo, il contingente. Del resto, le sue pagine social sono ricche di foto dei paesaggi infiniti e suggestivi del nord ovest tra Canada (suo Paese d’origine), Portland e la British Columbia, dove – come conferma lei stessa a Musica Jazz – ama trovare la propria dimensione di quiete. Che non deve poi essere molta se, tra una data e l’altra, ha trovato il trovato il modo di scrivere, arrangiare e presentare a distanza di poche settimane non uno, ma due album. Oltre ad «Arboresque» con Artemis, infatti, che è l’ultimo arrivato e ha dato modo di poterla nuovamente incontrare sul nostro giornale, ha virato latitudini sul Brasile con «Crossing Paths» (Smoke Session), per il quale ha scelto compagni di primissimo ordine: Chris Potter, John Patitucci, Steve Davis e monumenti come Edu Lobo, Joyce Moreno o Chico Pinheiro. Un album, uscito agli sgoccioli del 2024, del quale è particolarmente fiera, anche per il mai nascosto amore per le armonie e le sonorità brasiliane meno note al grande pubblico. 

Adusa ai lamé da serate ai Grammy’s, per ben due consecutivi anni vincitrice del Downbeat Readers Poll con le Artemis elette miglior gruppo jazz dell’anno, Rosnes con questa doppietta discografica conferma di essere, al di là dell’espressione pianistica, una delle voci assolute nell’arte dell’arrangiamento e della composizione. Complice, anche, l’aver per tanti anni collaborato con Wayne Shorter, Joe Henderson, J.J. Johnson, Phil Woods e in generale con l’inner circle del jazz americano degli ultimi trentacinque anni (quando uscì su Blue Note nel 1990, per la prima volta con un album a proprio nome). 

La grazia ferma, elegante e ritrosa con la quale si racconta sono la migliore garanzia dell’esprit de finesse che ne descrive la vulcanica generosità creativa. 

Bentornata, Renee, su Musica Jazz. È sorprendente la quantità di cose fatte nell’ultimo anno e nonostante questo è arrivato anche un nuovo album con Artemis, «Arboresque». Quali sono le novità di questo progetto? 

Contenta di essere di nuovo qui, in primo luogo! Sai, abbiamo lavorato moltissimo insieme in questi mesi ed eravamo contente di definire un nuovo album che rendesse giustizia dell’energia intercettata tra di noi. Rispetto a «In Real Time» qui suoniamo in quintetto e questa formazione ha favorito un nuovo tipo di energia positiva che spero si percepisca nella musica. In generale, in quintetto hai un maggior senso di elasticità, puoi essere sciolto e annodato nello stesso tempo, per così dire. 

Ascoltando i brani pare che ci sia una attenzione rinnovata all’arrangiamento, che è stato sempre importante nei vostri album ma che qui sembra ancora maggiore. 

Ho arrangiato molti dei brani, ma ciascuna di noi ha contribuito anche con composizioni originali sulle quali lavorare. Non sono convinta che si possa parlare di una attenzione maggiore, almeno a livello conscio. Semplicemente ci siamo accostate a un materiale nuovo e abbiamo cercato di capire di cosa avesse bisogno la musica, perché è la musica a suggerire la propria forma migliore, è lei che ci guida e ci insegna a trovare le risposte. In questo senso, ci avviciniamo all’arrangiamento prima provandolo insieme e poi discutendo ciò che il materiale esige venga fatto. Per fare questa operazione serve un grande feeling tra di noi, essere spregiudicate da un lato, attente dall’altro. 

«Arboresque» si apre con una versione completamente nuova del brano di Donald Brown The Smile of the Snake. C’è un’atmosfera più misteriosa, alle volte ambigua, rispetto all’originale. Cosa ti piace della musica di Brown? 

Oh, mamma mia, non saprei proprio da dove iniziare! Intanto Donald è un gigante del pianoforte ed è anche un maestro di composizione. Ascolto e amo la sua musica da moltissimo tempo, credo di averlo sentito suonare la prima volta all’inizio degli anni Ottanta con Art Blakey e i Jazz Messengers. Anche nel mio album di esordio per Blue Note nel 1990, «Somethin’ Else», ho suonato un suo pezzo che si chiama Playground for the Birds. The Smile of the Snake, invece, è estratta da un suo album, «Cause and Effect», che è semplicemente fenomenale (se non lo conosci, ascoltalo!) e ci suonano maestri come Ron Carter, Joe Henderson, James Spaulding, Carl Allen, Steve Nelson, Kenny Washington… Non riesco ad immaginare una varietà così composita di ospiti, persone che sanno parlare e cantare allo stesso tempo. Ma tutto il disco è una spanna sopra il resto proprio per il tipo di scrittura, e così ho provato a prelevarne un brano per Artemis, con l’idea di non farla suonare come l’originale. Ho tentato in un primo momento di scriverci su qualcosa, di arrangiarlo… Lo abbiamo amato tutte all’istante, appena provato. È un brano molto bello, perché si predispone ad andare in direzioni diverse mentre lo suoni, cambia ogni sera sia nella parte degli assolo sia in quella collettiva. Poi mi piace il senso del titolo, che si riferisce alle persone su cui hai contato e che hai amato, ma che finiscono per deluderti. Ora che ci penso, Donald non l’ha ancora sentito: devo mandarglielo presto! 

Renee Rosnes
Renee Rosnes

Nel nostro ultimo incontro, hai rievocato la volta in cui Shorter ti fece vedere con lui Alien e, all’apparire del mostro dalla pancia, mise in pausa, spiegandoti che era quello che si aspettava dai suoi musicisti. In questo disco porti una versione completamente nuova della sua Footprints, l’alien era al lavoro? 

Con Wayne c’è sempre un alien nascosto da qualche parte! Per quanto riguarda Footprints, mi sono andata a risentire una parte di arrangiamento che aveva utilizzato quando la suonavo con lui. C’è un momento, in particolare, in cui quella scrittura riflette perfettamente il momento in cui eravamo ed è stato bello riscoprirlo. Quello è un brano allo stesso tempo molto semplice ma di grandissima profondità. Puoi girarci e rigirarci in ogni direzione, sopra e sotto, e sempre troverai un modo diverso di accostarlo e di suonarlo. Sul disco ha una durata inferiore rispetto a quando lo presentiamo dal vivo, dove estendiamo la parte solistica, ma resta una lunga introduzione al pezzo, credo sia la sua particolarità, anche perché mostra al meglio le possibilità che abbiamo come gruppo. 

C’è dentro anche un notevole obbligato con un sapore pentatonico, che suona quasi come una sfida a superare il cliché dello standard pirotecnico.

È vero, proprio così, però lo abbiamo portato da minore a maggiore, perché ci sembrava avesse una forza espressiva più intensa e ci siamo divertite a farlo. 

I brani di questo album si connotano tutti per avere una grande impronta melodica, spesso evocativa di atmosfere degli anni Sessanta e Settanta: le armonie si muovono molto, ma il centro resta fisso nella capacità melodica di saper raccontare una storia

Sì, credo sia in assoluto la cosa più importante. Quello che dobbiamo realizzare è far viaggiare qualcuno e non solo suonare note buttate lì solo perché ci stanno bene. La musica, per come la vedo, è solo e soltanto questo: creare una connessione umana tra le persone, trovare un punto di congiunzione. Per esempio, c’è un brano nel disco, Petrichor, che ha scritto Nicole Glover e la cui bellezza sta proprio nel suo saper scorrere sotto le dita, creare immediatamente un filo tra di noi e credo abbia una forza melodica di grande impatto, rende bene l’idea del titolo… Sai cosa significa? 

Artemis Arboresque

Abbiamo lo stesso termine anche in italiano, e mi veniva in mente che ci raccontasti di quanto fosse importante per te, quando sei nella tua Portland, passeggiare nella natura. 

È una cosa così bella… Tre di noi vengono dal Pacifico nordoccidentale, io e Ingrid siamo della British Columbia, Nicole è cresciuta a Portland in Oregon e tutte condividiamo questa passione per la natura, per l’esterno e ci manca sempre quella parte di mondo quando siamo in tour. Quando mi ritrovo da sola lì, tiro dei respiri profondissimi, devo sentire entrare dentro quell’energia e non ho mai voglia di distaccarmene. Viaggiare in modo continuo alle volte è faticoso, condividere quella percezione alimenta il nostro legame e ci restituisce un senso complessivo di benessere, che fa da carburante anche alla nostra musica. Appena possiamo, ci piace stare all’aperto. Oltre a Petrichore, per dire, c’è anche Sights Unseen, che è un brano di Ingrid Jensen, che ha un bel groove elettronico, e che ci ha descritto come un «richiamo alla nostra immaginazione collettiva, una riflessione sul saper sognare ciò di cui abbiamo esperienza e vederlo, ascoltarlo con la stessa innocenza di un bambino»; lo stesso potrei dire per Little Cranberry che è di Allison Miller e chiude l’album: prende il nome da una deliziosa isoletta del Maine. 

La natura ha indubbiamente un suo fascino evocativo, poi però quando giriamo per le nostre città o sfogliamo i giornali ci rendiamo conto di quanto complessa sia la nostra attualità. Che ruolo può svolgere la musica in un momento così difficile? 

Non mi viene difficile rispondere, perché quello che sento è che io e gli altri musicisti nel mondo sappiamo bene di essere stati messi su questo pianeta per fare quello che facciamo. Il nostro contributo alla società è quello di provare a creare momenti di gioia per le persone. Voglio dire, non nego che i nostri tempi siano difficili, chi può dire cosa accadrà da qui a quattro anni? Ma noi siamo quelli che portiamo luminosità, nella speranza che qualcuno per qualche momento possa perdersi nella bellezza della musica, dimenticandosi per un po’ le angustie del mondo. Non credo che ci riguardi fare una ricognizione dei problemi in campo, ma consentire piuttosto alla gente di trovare un senso di serenità e di pace dentro la musica. 

Vivi in una famiglia con tanti musicisti, oltre a tuo marito Bill Charlap: tuo figlio è un talentuoso chitarrista, tua suocera, Sandy Stewart, una brillante cantante che finì nel 1953 su Downbeat, rivista che ti ha recentemente dedicato una copertina. Quanto è stimolante o difficile vivere in un ambiente familiare del genere? 

È bello il fatto che siamo di ispirazione uno per l’altro in famiglia, ma è la nostra normalità, è così che siamo e non potremmo essere diversi, capisci? È splendido avere una suocera che capisce la musica e capisce soprattutto la vita dei musicisti. Lei è stata in tour con Benny Goodman, ha partecipato per tanti anni al Perry Como Show, ha avuto una nomination al Grammy quando aveva solo diciannove anni per una canzone intitolata My Coloring Book…

Ha registrato anche con suo figlio/tuo marito Bill…

Assolutamente sì! E più di un album; tra l’altro li trovo molto belli. 

Tra l’altro Bill Charlap ha dichiarato qualche settimana fa che, pur avendo capacità compositive, la vera compositrice a casa sei tu. Che voleva dire, secondo te? 

Credo si tratti solo di una scelta. Bill non ha l’urgenza di comporre, fa altro, è interessato ad altri aspetti della musica. Non ho dubbi, però, che se avesse voglia di approfondire quell’aspetto musicale, avrebbe risultati eccellenti. 

Poche settimane prima di «Arboresque» con Blue Note è uscito per la Smoke Session «Crossing Paths». È un lavoro diverso, il tuo, se si tratta di una etichetta indipendente o di una grande realtà come Blue Note? 

Questo credo sia il mio quarto per la Smoke Session, ma insomma… Certamente avere il marchio Blue Note è essenziale. Ha una storia talmente imponente e solida che non posso che essere orgogliosa di essere parte di quella famiglia di così alto lignaggio. Però ti dico anche chequando entri in studiol’ultima cosa alla quale pensi è l’etichetta per cui stai suonando, c’è solo la musica che hai dentro. Mi piace far parte di entrambe quelle realtà. Alla Smoke Session sono molto appassionati del loro lavoro, si prendono una grande cura della musica che producono, cosa che naturalmente avviene anche alla Blue Note. Alla fine, pensandoci bene, si tratta solo della diversa eredità tradotta in un nome e dalla storia che ha alle spalle. 

«Crossing Paths» è un grande atto d’amore alla musica brasiliana, alla quale – almeno così ho letto – ti sei accostata, ancora una volta, grazie a «Native Dancer» di Wayne Shorter. Cosa ti affascina di quel linguaggio? 

Lo adoro da sempre, in realtà. L’ho scoperto la prima volta quando ero solo una ragazzina attraverso Jobim e poi certamente con Wayne e Milton Nascimento, poi sono seguiti molti altri ascolti. Se vuoi qualche nome: Leny Andrade, Sérgio Mendes, Chico Buarque, Caetano Veloso, Egberto Gismonti. Potrei andare avanti a lungo, ma per farla breve è una musica che tocca molto nel profondo la mia anima. Mi dispiace di non parlare portoghese, ma sento in modo molto intimo le storie delle canzoni prima ancora di tradurle e difficilmente sbaglio la percezione del loro senso. Questo è un album che volevo realizzare (o meglio, sognavo di registrare) da oltre trent’anni, e quindi mi sono detta: «Cos’hai ancora da aspettare? Fallo e basta!» 

Hai chiamato per questo progetto a raccolta musicisti straordinari e molto diversi: da Joyce Moreno a Chris Potter, da Edu Lobo a John Patitucci fino a Chico Pinheiro, chitarrista straordinario

Sì, è stato divertentissimo farlo. Mi sono sentita semplicemente euforica quando sono entrata in studio a registrare, il fatto sorprendente è stato come la musica venisse fuori da sola in modo tanto bello, al punto che pensavo che avrei potuto fare altri quattro o cinque brani brasiliani, il materiale disponibile era molto e fantastico. Posso dirti, per stringere un po’ il campo, che alla fine quello che c’è in questo album è un risultato parziale: ho avuto l’impressione di aver solo raschiato la superficie di un fenomeno musicale immenso, ma in questa occasione devo dire di essere la prima ad amare molto il risultato finale. 

Come hai scelto i brani? Perché non sono esattamente gli standard più noti al pubblico.

Esattamente. Non volevo registrare qualcosa che fosse già molto conosciuto, avevo bisogno di uscire in qualche modo da sentieri già battuti e virare su materiale diverso. Ovviamente è una questione di prospettiva, perché la maggior parte delle canzoni che ascolti nell’album sono classici della tradizione molto conosciuti in Brasile, ma non altrettanto famosi in America o Nord America. E poi, mi piaceva l’idea di rappresentare una varietà di compositori, anche perché avevo con me musicisti molto flessibili come Joyce Moreno o Edu Lobo (sono impazzita di felicità quando ho scoperto che si sarebbe unito a noi), per non dire di Chris Potter, che è uno di quelli che può suonare qualunque cosa in modo perfettamente coerente. Detto questo, non era certo la prima volta che mi accostavo alla musica brasiliana, in molti dei miei album nel corso del tempo ho incluso qualche pezzo; ad esempio, solo perché è venuto fuori il nome di Chris, nel 1996 abbiamo suonato (su «Ancestors») un mio arrangiamento su un pezzo di Edu Lobo, Upa Neguinho, così come nel 1999 ho incluso nell’album «Art & Soul» (sempre Blue Note) un brano di Egberto Gismonti – un altro compositore che adoro – che si intitola Sanfona. 

Non sorprende che chiunque sia felice di partecipare a un tuo progetto. Più di vent’anni fa sei stata tra quelli che hanno contribuito a fondare l’SF Jazz Collective, una specie di all-stars ancora in piena attività con i migliori compositori e musicisti che rappresentano la scena attuale del jazz. Sei orgogliosa di essere parte di questa storia?

Assolutamente sì. Mi sento una musicista molto, molto fortunata. Certo, ho lavorato sodo, non lo nego, ma c’è anche una componente di fortuna nel poter confrontarsi con esperienze straordinarie e tanti musicisti diversi nel corso della carriera. Adesso con Artemis sono fiera del fatto che riusciamo a trovare un modo per espandere la musica in un modo più profondo, più spirituale. C’è qualcosa di più «concettuale» in questo album, spero che si senta, ma SF è stata una delle esperienze cruciali, per non menzionare il fatto che lavoro ancora nel quartetto di un grande maestro come Ron Carter. 

Artemis
Artemis

Dici «concettuale», però l’impressione è che la musica di «Arboresque» non diventi mai «intellettuale», resti cioè in possesso di un largo senso di divertimento e apertura.

Grazie! In effetti credo sia dovuto al fatto che abbiamo sviluppato una maggior fiducia tra di noi a livello non solo musicale ma anche umano, familiare. E così, probabilmente, questa relazione filtra attraverso la musica; in fondo, non credo che riuscirei mai a produrre una cosa troppo «cerebrale» perché, non essendolo come persona, non potrei esserlo come musicista, e quando improvvisi è inevitabile raccontarsi per come si è davvero. 

Presenterete l’album anche in Italia nei prossimi tempi?

Mi piacerebbe molto, vediamo se d’estate riusciremo ad inserirla nel tour, come vorrei. Intanto la presentazione sarà al Village Vanguard per una settimana a marzo. Ma sai che mi ha sorpreso scoprire che nessuna delle Artemis avesse mai suonato lì? Alla fine, diciamolo, il jazz è «it’s a man’s world», resta un mondo un po’ troppo al maschile; siamo tutte molto contente di questa inversione di rotta e felici di poter salpare proprio da lì con questo progetto. 

Per concludere con una curiosità, ho trovato molto bella e particolare la copertina scelta per «Arboresque».

Sono contento che ti siano piaciuti gli alberi viola! Sai, cercavamo una immagine particolare e questa è una stampa giapponese dei primi del Novecento. Volevamo in qualche modo trovare degli alberi da cui partissero molti rami, anche perché i pezzi hanno titoli che, pur non riferendosi direttamente agli alberi, hanno a che fare con l’aria aperta. Ce n’è uno mio che si chiama Olive Branch, ma Noriko Ueda ha scritto Komorebi, che è una parola giapponese che traduce l’effetto dei raggi del sole quando filtrano attraverso le foglie. Bello, no?

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