Ai confini tra Sardegna e Jazz, prima parte

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Burnt Sugar, foto,Luciano Rossetti-Phocus Agency

Sant’Anna Arresi, Piazza del Nuraghe, 31 agosto-2 settembre

Com’è emerso nettamente anche dalle parole di Basilio Sulis – direttore artistico di Ai confini tra Sardegna e Jazz – durante una conferenza stampa di chiusura espressamente convocata, il festival sta segnando il passo tra problemi organizzativi, defezioni dei musicisti n cartellone e conseguenti bruschi cambiamenti di programma, rapporti problematici con le istituzioni e ritardi nell’erogazione dei finanziamenti, progressivo calo delle presenze. Si impongono dunque un complessivo ripensamento e una drastica ridefinizione di una manifestazione che a partire dal 1985 ha sempre fatto del rigore e dell’attenzione alle avanguardie jazzistiche una prerogativa imprescindibile, costruendo un coraggioso avamposto di creatività in un territorio bellissimo ma decentrato quale il Sulcis, proverbialmente definito dallo stesso Sulis «angolo della periferia dell’impero». Un festival che paradossalmente gode di maggior attenzione e miglior considerazione all’estero che in ambito nazionale.

La XXXIV edizione di Ai confini tra Sardegna e Jazz si è aperta all’insegna di due tratti distintivi che ne hanno sempre caratterizzato i contenuti: la forte impronta afroamericana, legata alle avanguardie storiche; la dimensione orchestrale, scevra da scivolamenti nel mainstream. Tema conduttore, Porgy and Bess, di cui sono state proposte delle moderne reinterpretazioni e alcuni accenni nell’arco della rassegna.

Dwight Trible & Kahil El’Zabar, foto di Luciano Rossetti -Phocus Agency

Decisamente indirizzata verso la ricerca delle connessioni tra patrimonio afroamericano e retaggio della Madre Africa risulta l’interazione tra il vocalist Dwight Trible e il percussionista Kahil El’Zabar. Africanismi latenti, memori in qualche misura della stagione del free, emergono dal semplice dialogo tra voce e kalimba (il piano a pollici africano), così come dal modo in cui il chicagoano El’Zabar – membro dell’AACM e fondatore dell’Ethnic Heritage Ensemble – utilizza altre risorse: il cajón per figurazioni sottolineate da mugolii e vocalizzi; la batteria, ora trattata con il suono evocativo prodotto dalle mazze felpate, ora impiegata per furiose progressioni in forma libera. Per parte sua, Trible modula la voce in una maniera che a momenti può apparire persino affettata, ma che viene in realtà plasmata come il fraseggio di un’ancia o di un ottone. Affiorano nettamente il retroterra del blues, la pratica del poetry reading nel recitativo e – nel timbro baritonale – l’influenza di Leon Thomas, con precisi riferimenti al contributo di quest’ultimo a «The Creator Has A Master Plan» di Pharoah Sanders, con cui lo stesso Trible ha poi lavorato. Dunque, una vocalità composita che sfugge nettamente ai parametri convenzionali, pur essendo impregnata di valori squisitamente jazzistici. Lo certifica ulteriormente una stralunata, straniante versione di Summertime, di cui si riconoscono solo i versi.

Protagonista di precedenti edizioni del festival (l’ultima apparizione risale al 2017), la Burnt Sugar The Arkestra Chamber è una scoppiettante formazione diretta da Greg Tate e dedita all’attualizzazione dei vari linguaggi di ambito afroamericano, o ad esso contigui. Non deve dunque stupire che oggetto della prima delle due operazioni inserite nel programma fosse il repertorio di David Bowie. L’analisi di Tate e compagni si è infatti prevalentemente concentrata su un obiettivo specifico: sviscerare dalla produzione del Duca Bianco gli elementi più intrinsecamente riconducibili al soul e al r&b, senza peraltro trascurare l’opportunità di arricchire di tinte nere altri materiali. Un’impostazione ampiamente comprovata dal torrido andamento funk impresso a Fame, Let’s Dance e Stay (quest’ultima trasposta su un indiavolato up tempo) e dal ricco impianto ritmico-armonico: due chitarre (André Lassalle e Ben Tyree) con l’occasionale aggiunta di una terza, quella dello stesso Tate; le tastiere di Leon Gruenbaum; il basso elettrico di Jared Michael Nickerson; le due batterie, fonti di stratificazioni poliritmiche, di LaFrae Sci e Marque Gilmore, più le percussioni in chiave coloristica di Satch Hoyt, all’occorrenza anche flautista. A coronamento del tutto, la sezione fiati composta da Lewis Barnes alla tromba, Jeffrey Smith al tenore e Paula Henderson al baritono. Efficace anche l’introduzione della componente black attraverso la vocalità nelle versioni di tre brani totalmente diversi: Blackstar, nell’interpretazione di Julie Brown, dopo un lento crescendo collettivo informale, quasi alla Gil Evans; Rebel Rebel,  il cui elementare riff rock è impreziosito dall’intervento sanguigno di Mikel Banks; Rock’n’Roll Suicide, ripescato da «The Rise and Fall Of Ziggy Stardust» e trasportato sul versante r&b da Shelley Nicole con una veemenza che ricordava Etta James.

Burnt Sugar The Arkestra Chamber, foto di Luciano Rossetti -Phocus Agency

Dopo il tributo a David Bowie, la Burnt Sugar The Arkestra Chamber si è cimentata in un ben più arduo compito: fornire una (ri)lettura di Porgy And Bess. Il problema di fondo era: come affrontare quelle pagine senza correre il rischio di cadere nello scontato o, nella migliore delle ipotesi, in interpretazioni corrette ma fin troppo rispettose del dettato originale? L’unica soluzione era allontanarsene il più possibile, offrendo appunto una lettura in sintonia coi tempi, ma cercando di individuare e portare alla luce le possibilità in un certo qual modo insite (o meglio, nascoste) in quegli stessi materiali.

Obiettivo centrato in pieno dalla formazione diretta da Greg Tate, a cominciare da una lunga introduzione basata come d’abitudine sulla lenta aggregazione della materia attraverso il passaggio dall’informale a forme sempre più riconoscibili. Il tutto tradotto in una piccola orgia sonora da cui emergeva l’influenza della Sun Ra Arkestra trasposta in chiave elettrica. L’impiego di poliritmi, la sovrapposizione di strutture diverse (ad esempio ska e funk) e più in generale il ricorso a varie espressioni del patrimonio afroamericano contraddistinguono l’operazione condotta dagli strumentisti della Burnt Sugar e finalizzata dalle splendide voci di Shelley Nicole, Julie Brown e Mikel Banks, spesso impegnate in un’azione collettiva in dialettica – e talvolta in conflitto – con le sezioni strumentali. Escluso il trattamento un po’ più convenzionale riservato a I Loves You Porgy, il cui testo è porto da Julie Brown su un morbido slow, si possono citare vari esempi di questo approccio eclettico. Shelley Nicole passa con disinvoltura da un recitativo caratterizzato da inflessioni rap su una ritmica funk a una My Man’s Gone Now di ambientazione modale, sottolineata dalla tastiera di Leon Gruenbaum che simula l’organo e dalla graffiante impronta r&b del tenore di Jeffrey Smith, per approdare a una Summertime fluidamente enunciata su un fitto tessuto poliritmico. Un’altra interessante commistione trapela dall’elegante scansione di It Ain’t Necessarily So, offerta da Mikel Banks su un reggae strascicato ad arte. Anche questo è un esempio di Great Black Music.

Il respiro orchestrale che ha contrassegnato buona parte del festival ha trovato un riscontro altro nell’esibizione della Sardinia Instabile Orchestra diretta da Paolo Carrus, autore degli arrangiamenti. Basato su composizioni del chitarrista Alberto Balia e del sassofonista Sandro Satta, il repertorio tenta di esplorare le possibili connessioni tra il patrimonio folklorico dell’isola e forme jazzistiche. Protagoniste le launeddas di Giuseppe Orrù e Graziano Montisci, inserite in questo contesto con un preciso scopo: rendere omaggio alla memoria di Carlo Mariani. Divenuto specialista dello strumento sotto la guida di Dionigi Burranca, insieme al fratello Alberto aveva poi sperimentato connubi tra tradizione sarda e jazz. Nella circostanza i bordoni e i motivi iterativi creati con la respirazione circolare hanno costituito le basi per costruzioni modali sviluppate tra le sezioni (tre sax alto, due tenori, tromba e trombone) sull’impianto ritmico armonico formato dal piano del leader, chitarra e basso acustici, batteria. Le due anime dell’operazione erano ben rappresentate dagli autori delle composizioni. Da una parte Balia, da sempre impegnato nel recupero e nella attualizzazione delle radici, che nella circostanza si è cimentato anche al canto, allo scacciapensieri e al clarinetto, secondo modalità tipiche della musica balcanica e turca. Dall’altra Satta che, pur nella consapevolezza del proprio retroterra, esibisce al contralto un linguaggio di matrice afroamericana, producendo un fraseggio tagliente, a tratti aguzzo e corrosivo, comunque sempre lucidamente articolato, con possibili riferimenti a Jackie McLean e Julius Hemphill. Nel finale Carrus ha presentato un proprio arrangiamento di I Loves You Porgy, introdotto dalle launeddas e condotto su uno slow dilatato.

Sardinia Instabile Orchestra, foto di Luciano Rossetti-Phocus Agency

Come mai nel cartellone di un festival per sua stessa natura orientato verso le avanguardie afroamericana ed europea fosse stato inserito quasi all’ultimo momento Giovanni Allevi, non è spiegabile se non in virtù di un mero tentativo di coinvolgere un pubblico più ampio. Ma tant’è, si tratta evidentemente di un segno dei tempi, visto che altrove alcune manifestazioni jazzistiche si stanno trasformando in festival di musiche varie. Certo, nel pianismo di Allevi non si ravvisano né lampi di creatività, né tantomeno sforzi di evolvere il linguaggio. Piuttosto, una uniformità armonica e sviluppi melodici fatti di ghirigori rileccati in cui qua e là confluiscono riferimenti al Keith Jarrett più ancorato alle tradizioni popolari, cascami del minimalismo più compromesso commercialmente, qualche contrappunto bachiano, improbabili richiami a Debussy. Un fiume di melassa in cui Allevi rimane invischiato, prigioniero del suo personaggio. Successo assicurato, quasi scontato. Evviva!

Enzo Boddi

(continua)