A trent’anni dalla tragica scomparsa, avvenuta a Montevarchi il 29 marzo 1995 a soli trentanove anni, si può senz’altro ribadire un fondamentale concetto: Luca Flores ha indubbiamente lasciato una forte impronta sulla comunità jazzistica italiana, a dispetto della sua breve parabola artistica. Lo testimoniano il rispetto e l’ammirazione con cui ne parlano tutti i musicisti: non solo quelli che lo avevano conosciuto e che con lui avevano studiato o collaborato, ma anche coloro che semplicemente hanno avuto l’opportunità di ascoltarne i lavori. Certo, non fosse stato per il libro di Walter Veltroni Il disco del mondo (2003) o per il film che ne ricavò poi Riccardo Milani nel 2007 (Piano, solo), probabilmente il suo nome sarebbe caduto nell’oblio, almeno a livello di un pubblico più allargato. Luca Flores era un pianista dotato non solo di una tecnica sopraffina, ma anche e soprattutto di una concezione armonica superiore e di una lungimirante visione compositiva, unite a una profonda conoscenza della storia del jazz e dei suoi linguaggi. Negli anni Ottanta Flores era stato tra i principali animatori della vitale scena musicale di Firenze, la città in cui si era trasferito con la famiglia nel 1972 dopo un’infanzia trascorsa tra la natia Palermo e il Mozambico. Contemporaneamente agli studi al Conservatorio Luigi Cherubini e al conseguente diploma, Flores si era inserito in quel vitale circuito jazzistico locale che faceva capo al C.A.M. (Centro Attività Musicali) Andrea del Sarto. In seguito, si fece apprezzare anche da musicisti del calibro di Lee Konitz, Chet Baker, David Murray e Dave Holland. Chi scrive ha ancora ben impresso il ricordo di due eventi: lo strepitoso duo con Konitz nel 1983 al Teatro Niccolini di Firenze, in cui Flores interagì da par suo con il maestro americano nella rielaborazione di alcuni preziosi standard; lo sguardo sornione di approvazione da parte di Holland dopo un break di piano, pervaso da elegante swing e genuino senso del blues, durante un concerto dell’orchestra del C.A.M. al teatro Aurora di Scandicci (1986), diretto appunto dal contrabbassista inglese. La produzione di Flores – sia come titolare che come membro di altri gruppi – è documentata in modo esauriente dall’etichetta Splasc(h) e merita assolutamente di essere segnalata. Tre sono i dischi in veste di leader: «Sound and Shades of Sound» (in trio, 1990); «Love for Sale» (1991, con varie formazioni); «For Those I Never Knew», struggente piano solo che racchiude incisioni del 1994 e 1995. Di notevole valore anche il suo contributo al Matt Jazz Quintet, comprovato da tre incisioni risalenti al triennio 1984-1987: «Live», «Sharp Blues» e «Where Extremes Meet». La pubblicazione del doppio «Innocence» (Auand, 2019) – contenente materiali inediti per piano solo registrati tra il 1994 e il 1995, e riportati alla luce dal fratello Paolo – richiama giustamente l’attenzione sull’arte di un musicista geniale e sulla personalità di un uomo tanto introverso quanto fragile. Ne abbiamo parlato con altri tre protagonisti storici della scena fiorentina: il batterista Alessandro Fabbri, che con Flores aveva suonato in trio e condiviso l’esperienza del gruppo Streams di Tiziana Ghiglioni; il vibrafonista Alessandro di Puccio, suo amico fraterno e membro del Matt Jazz Quintet; il pianista Francesco Maccianti, che ne ha seguito da par suo le orme.
A distanza di trent’anni dalla morte, come va valutato il ruolo del Luca Flores pianista, compositore e leader di propri gruppi nell’evoluzione del jazz italiano? Quali insegnamenti ha lasciato?
Alessandro Fabbri: Con Alessandro Di Puccio e altri bravi musicisti abbiamo tentato di portare in giro le composizioni di Luca anche nei conservatori di La Spezia e di Firenze. Forse ad accoglierne meglio il messaggio sono proprio alcuni (rari) musicisti tra i più giovani, cioè quelli che hanno conosciuto Luca solo attraverso le sue incisioni e le sue composizioni, sempre troppo poco studiate e divulgate. È come se Flores avesse stabilito un nuovo standard, almeno in Italia: si tratta di capire se vogliamo confrontarci con questo standard, se vogliamo fare sul serio oppure no.
Alessandro Di Puccio: Riascoltando oggi le incisioni di Luca, ritengo che dal punto di vista pianistico – inteso come qualità del fraseggio, tecnica e impatto sonoro – il modo di suonare di Luca Flores sia assolutamente attuale. Aveva una mano destra invidiabile e una sinistra che più «jazzistica» sarebbe difficile trovare. Come compositore, era da tutti considerato molto interessante; per me era geniale. La cosa che mi ha sempre colpito è che, dal punto di vista formale e creativo, Luca era molto attento a rendere sempre collegato il momento composto, cioè l’esecuzione del tema, con il momento dell’improvvisazione. Ciò che componeva era sempre frutto del suo studio volto a sviluppare nuovi percorsi melodici e ritmici mentre improvvisava. Questo l’ha portato a scrivere in maniera sempre più sintetica, arrivando a concentrare un’idea compositiva in poche battute, ma riuscendo poi ad allargarla in maniera uniforme durante l’improvvisazione. Tanto che a volte non riuscivi a distinguere quali fossero le parti scritte da quelle improvvisate. Per quanto riguarda gli insegnamenti che ha lasciato, credo che siano tutti contenuti nella bellezza e nel rigore della sua musica, nella limpidezza delle sue frasi e nell’umanità del suo tocco sul pianoforte. Ascoltarlo resta sempre una bella lezione.
Francesco Maccianti: Luca è stato un pianista pazzesco che univa personalità, sensibilità, tecnica pianistica ineccepibile e grande fantasia a una visione globale, priva di qualsiasi freno o pregiudizio di natura stilistica. Ci siamo sempre trovati bene insieme e abbiamo avuto anche un duo pianistico in cui ho avuto modo di constatare la sua grandissima preparazione teorica sull’armonia e sulla composizione. Ascoltando oggi la sua musica vi si trovano elementi di personalità, insieme al bagaglio culturale e storico di tutti i pianisti e i gruppi che lui aveva studiato con una tenacia e un’abnegazione esemplari. Da ricordare anche il suo pragmatismo nello studio e nell’organizzazione dello stesso, cosa rara nel nostro mondo.
Luca Flores era molto apprezzato anche come didatta. Quali erano le principali caratteristiche che contraddistinguevano il suo approccio?
AF: Luca non ha insegnato molto a lungo, anche per questioni legate alla sua salute. Credo che ponesse l’accento sull’esempio. In realtà, se un allievo vuole veramente apprendere basta che ascolti ed osservi accuratamente il suo insegnante e, non ultimo, «si faccia il mazzo» con lo studio. È solo una questione di obiettivi e di essere onesti con se stessi sul raggiungimento dei risultati. Tra gli appunti di Luca c’è anche una routine, molto impegnativa, di studio quotidiano. Non so se lui la seguisse rigorosamente ma, a giudicare dai risultati, direi proprio di sì.
ADP: In realtà Luca è stato un insegnante molto particolare. Se l’allievo aveva capacità intuitive molto sviluppate ed era già stato in qualche modo instradato verso i primi rudimenti jazzistici, allora sì: Flores era la persona adatta per imparare molte cose. Se l’allievo non aveva tali requisiti, probabilmente con Flores come insegnante non avrebbe fatto un passo. Credo che la persona giusta cui rivolgere questa domanda sia sicuramente Stefano Bollani, visto che per alcuni anni è stato suo allievo.
FM: A questo quesito mi riesce difficile rispondere, dato che non ho mai assistito ad una sua lezione ma – conoscendolo bene e conoscendo la sua riluttanza al colloquio (spesso limitato a monosillabi) – sono portato a pensare che, forse, il contatto con gli studenti non fosse la cosa che più lo interessava.
Cosa ha significato per voi lavorare con Flores?
AF: Oltre a una grande soddisfazione personale, l’occasione di poter collaborare con un musicista vero anche in contesti di gruppi stabili. In generale, è stato sempre di grande stimolo. Confesso che forse all’inizio non ne ero del tutto consapevole, ma col passare del tempo lo sono diventato sempre di più. Non è stato sempre facile. Luca non era una persona facile, anche se alternava slanci di affetto e generosità. Era estremamente intransigente: in primis con se stesso e, giustamente, anche con i colleghi, ma posso dire che ne è sempre valsa la pena. In definitiva, suonare con Luca mi ha insegnato a dare peso e valore ad ogni nota suonata ed ascoltata: nel bene e nel male.
ADP: Ha significato molto, e forse quest’aneddoto lo spiega meglio di altre parole. La prima volta che provammo insieme un suo pezzo, Sharp Blues, chiesi a Luca perché lo aveva pensato e scritto in Fa diesis, tonalità che per la distribuzione dei tasti bianchi e neri sul pianoforte crea notevoli difficoltà tecniche. La sua risposta fu: «Certo, dovendo suonare il blues in maniera tradizionale (in stile bebop con le tensioni tonali classiche) sarebbe molto più complicato. Quello che voglio, però, è suonarlo in modo diverso». Luca è sempre stato di poche parole e quindi ero abituato a leggere i significati verbalmente inespressi che potevano esserci dietro una sua frase. Ovvero: suonando in una tonalità più complicata è più difficile far scorrere bene il fraseggio e per riuscirci occorre molto studio; però si evita di cadere «addormentati» nei soliti cliché che non si allontanano mai dalle loro sicurezze. Dopo tanti anni e tanto lavoro ho anche capito quanto sia importante per un musicista essere curioso, sperimentare, allontanarsi da ciò che ha scoperto e rimettersi in viaggio. Quando scrisse questo pezzo, Luca aveva ventisei anni. Non c’era Internet, non c’erano i computer e stavano nascendo le prime scuole di musica jazz.
FM: La sua visione mi ha aiutato molto a chiarirmi le idee sulla musica che dovevo fare e, dato che lui era culturalmente molto più avanti di me, mi ha insegnato a sfrondare tutto ciò che non era funzionale al pensiero che avrebbe dovuto guidarmi anche negli anni a venire.