Elogio del jazz impuro

Un lungo saggio che propone numerosi argomenti di riflessione e di discussione, corredato da una scelta delle splendide fotografie di Roberto Polillo

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Jazz a uso dell’ascoltatore sensibile

Tanto jazz chiamato al suo tempo «moderno» e che oggi sarebbe da chiamare «classico» – spostando l’appellativo dalla generazione Swing a un blocco di generazioni successive – è musica che continuiamo a macinare nel presente senza pensarla storica. Ascoltando un qualsiasi brano da «Kind of Blue» di Miles Davis, per esempio, non pensiamo a che cos’era il mondo nel 1959. Ascoltiamo musica dalle forme ricche e al tempo stesso molto rappresentativa della musica nelle sue proprietà globali, delle quali fa parte la facoltà di suscitare emozioni pronte ad abitare il magico della vita quotidiana.

In questo senso possiamo affermare che il jazz sia una musica adatta a svolgere la complessa funzione di un pop «alto», cioè di musica dalla cui ricchezza formale si ottiene godimento pratico e che pertanto induce l’ascoltatore ad esserne «consumatore» anziché «spettatore» (concetto prelevato dall’indispensabile Guy Debord). È una condizione che l’ascoltatore sensibile, incline a interiorizzare la musica ben più di quello specializzato, raramente incontra nella musica accademica, assoggettata a deontologie estetiche sempre condizionanti il messaggio emozionale, se si vuole, da Bach a Arvo Pärt.

Ma non tutto il jazz può occupare una postazione così importante nella dinamica del fenomeno musicale. Non il jazz dai suoni, gli accenti, le melodie che rimandano tassativamente a un tempo e un luogo, che si tratti di jazz «verace» (New Orleans) o già «corrotto» (lo Swing), ma neppure quello che ha guadagnato «modernità» subordinando eccessivamente le sue forme all’esaltazione dei suoi processi: e qui parliamo sia del free con i suoi postumi, di cui non è un tratto secondario l’inversione di priorità tra musica e comportamento, che di tutto quel bop o post-bop in cui l’azione solistica polarizza l’informazione musicale specializzandola, pertanto assottigliandola. L’elemento processuale, eventualmente comportamentale, è un valore arbitrario, di dubbia autonomia, ma che la particolarissima società del discorso suscitata dal jazz (settaria e moralistica, probabilmente per legame al razziale) ha sempre voluto sovraesporre, e sempre più da quando il jazz ha cominciato a rappresentare anche un’arte sovversiva. Lungi però dall’essere ciò che avrebbe fatto del jazz una musica «necessaria». Perché a una musica «necessaria» non può corrispondere un messaggio emozionale specializzato come nel jazz quello della mera passionalità, il solo garantito da un jazz fondato sull’azione. «Necessaria» – sempre considerando l’ascoltatore sensibile il destinatario ideale – è una musica emotivamente «prensile», quindi intelligibile a qualsiasi livello di complessità e capace di suscitare emozioni articolate a qualsiasi livello di godibilità.

Il punto è accettare che la musica costituisca un valore per le sue proprietà globali – alle quali quelle estetiche sarebbero subordinate – e che il jazz sia musica prima di ogni altra cosa. Accettata questa coppia di concetti, appare logico che il jazz sia tanto più musica «necessaria» quanto più la sua preziosa chimica opera in autonomia dal fine di «rappresentazione» della radice afro-americana, funzionando pertanto da mezzo e non da fine: ovvero, quanto più lo strumentismo soggettivo, l’improvvisazione e la libera uscita dal mondo tonale costituiscono incrementi di espressione di una musica organizzata, intelligibile e catturante benché complessa, se non grazie alla sua complessità. Il che ci fa anche constatare che il jazz «necessario» è di principio opera del musicista «completo», del leader che possiede una propria idea globale di musica, e non dello strumentista eletto a leader per doti solistiche; non il solista di strumento a fiato condizionato da un fine ultimo di musica monodica.

Naturalmente, per come funziona il jazz, la distinzione tra le due categorie non è sempre netta; ammette anzi eccezioni clamorose e per motivi spesso ineffabili. Puro magnetismo. Si può tutt’al più rilevare che di jazz dal messaggio emozionale più articolato della mera passionalità ne sarebbe provenuto più da leader trombettisti che non sassofonisti. Primo Miles Davis, il cui magnetismo di strumentista colonizza particolarmente la regia delle esecuzioni, seguito dall’Art Farmer del delicato quartetto con chitarra (Jim Hall), dalle atmosfere inconfondibili, e semmai da Clifford Brown, benché puro hard-bopper – ferma restante la completa statura autoriale di Booker Little. Mentre fra i sassofonisti l’eccezione certa rischia di ridursi a Coltrane, il Coltrane pre-mistico o pre-free, al quale bastavano il suono del suo sax tenore e una frase con certi tipici intervalli a fissare uno stato della musica, e che questa grandezza la possedeva da leader appena strutturato (il periodo Atlantic) come da sideman (di Miles, Monk, Mal Waldron…). Un Sonny Rollins o un Eric Dolphy, entrambi compositori più connotati di Coltrane, impersonano – ai massimi livelli – l’improvvisatore creativo trascinato dalla sua stessa dote alla performance autoreferenziale e in questi termini invasore dell’esecuzione: Dolphy arriva a produrre esecuzioni strutturate e perciò anche di atmosfera soltanto in «Out To Lunch», suo ultimo disco in studio. Questo tipo di solista improvvisatore contribuisce alla specificità di un’esecuzione piuttosto quando è sideman di un compositore che si distingue per scritture poco condizionate dalle inflessioni ritmiche del solismo jazzistico, magari affermate da preziose note lunghe – esempio storico, Joe Henderson e John Gilmore nei quartetti di Pete La Roca; poi, Dewey Redman e Jan Garbarek in quelli di Keith Jarrett, Michael Brecker in quelli di Mike Nock e di Chick Corea… Neppure Wayne Shorter, da leader come da star sideman di Miles, si sarebbe preoccupato più di tanto di valorizzare nell’esecuzione le sue geniali composizioni. Il solo leader sassofonista sfuggito alla trappola è paradossalmente Ornette Coleman, l’Ornette delle composizioni espressionistiche e meta-jazzistiche (il filone di Lorraine, Lonely Woman, Peace, Beauty Is a Rare Thing, Broken Shadows, Street Woman…). Ci ha dato prova di come in un’esecuzione vivificata dai segni del tema si possa innestare persino dell’informalità free.

Ma riconoscere l’importanza di questo tipo di composizione e dei suoi effetti sull’esecuzione ci fa scorgere ancora più mediata la relazione tra «dono» del jazz alla musica e radice afro-americana. Ci fa scoprire luccicanti anelli della catena – finalmente! – uno Stan Kenton, un Gil Evans, un Jimmy Giuffre, musicisti persino avvantaggiati dal non essere afro-americani nel trattare il jazz da epicentro della moderna immaginazione musicale: con buona pace del politicamente corretto. A pari status di musicista completo, se l’afro-americano è stato l’artefice del jazz dalla classicità senza data (i geni Monk e Miles in testa), il non afro-americano lo è stato delle eresie, le visionarie aperture del jazz a questo o quel mondo di forme sostenuto per poetica individuale; la condizione che oggi più sembra promettere al jazz sopravvivenza. 

Osservando la produzione catalogata come jazz degli ultimi cinquant’anni, vediamo infatti che il jazz più vivificato da reali differenze poetiche, e che probabilmente per questo vediamo sia reggere al tempo sia continuamente rinnovarsi, non è afro-americano. Ha anzi per protagonisti soprattutto autori legati, chi più a lungo e chi meno, all’etichetta ECM di Manfred Eicher, europea ed eclettica: Paul Motian, Gary Burton, Eberhard Weber, Jan Garbarek, Ralph Towner, Bill Frisell… Eppure è dalle esperienze di questi autori tra loro diversissimi, insieme a quelle di alcuni pianisti e assolutamente anche della compianta Carla Bley (che ci ha lasciati lo scorso 17 ottobre), figura in tutto autonoma, che si combina l’alleanza più articolata tra ingegneria del jazz e proprietà globali della musica. La conquista comune è quella di un romanticismo prismatico, ubiquo, astorico, che non conosce fratture tra colto e popolare, presente e passato, avventura e memoria, complessità e semplicità. Una conquista di coscienza postmoderna, ma per la musica profondamente naturale. Di musiche ad uso dell’ascoltatore sensibile non potremmo più immaginarne con altre caratteristiche.

Diversamente, il black musician attivo in questi stessi cinquant’anni, da erede almeno generazionale dell’esperienza free, non avrebbe mostrato interesse a emancipare il jazz dalla specialità. Si è mosso tra l’onda lunga della free improvisation e la retorica della tradizione, quando non si è accampato su una sola delle due sponde, e di nuovo respiro non ne avrebbe neppure riscattato se non risucchiando in questa o quella forma di jazz autoctono frammenti di altra artisticità afro-americana (rap, poesia, comunque testi). Unica sintesi nuova, propositiva, la musica di Henry Threadgill con il suo Sextett degli anni Ottanta: afro-americana ma di un sincretismo tutto postmoderno, caustica ma traboccante di evocazioni e nuova anche nella dialettica tra scrittura e stesure delle esecuzioni. Peccato che con i gruppi successivi Threadgill abbia diretto le sue forze verso un’informazione musicale alquanto inclinata verso quella estetica.

La riduzione del complesso fenomeno musicale a linguaggio estetico è un concetto che la società del discorso del jazz ha prelevato dalla cultura delle avanguardie occidentali nella seconda metà degli anni Sessanta e rispeso a sostegno della free improvisation radicale di musicisti sia neri che bianchi. Probabilmente perché al tempo nessuna società del discorso coinvolta avrebbe speculato su implicazioni della musica possibilmente in conflitto con il culto del puro sperimentare. Era un orpello per tutta la cosiddetta cultura.

 

  1. Rilievi a volo d’uccello sul jazz «classico»

2.1. Bebop

Nelle mani di Charlie Parker, di Dizzy Gillespie o di un qualsiasi leader solista di strumento a fiato, il bebop suona come una magnificazione frenetica della gioia di stare al mondo, semmai «nonostante» l’ingiustizia del mondo: rigenera l’eccitazione dello Swing mediante un filtro afro-americano che essenzialmente la esaspera. A parte rare eccezioni (Blues for Alice, per esempio), Parker componeva temi molto semplici, basati su camuffamenti di standard o sul blues e quasi sempre in tonalità maggiore, sui quali improvvisava invece utilizzando cromatismi e armonie di passaggio sulla scia di Lester Young, ma spesso bruciando nella velocità della frase le risonanze musicali e quindi emozionali che da quegli spiragli infettivi sapeva derivare il più anziano sassofonista. Bruciava così anche il lirismo vibrante che pure gli apparteneva (pensiamo al leggendario Lover Man del 1946) e di cui non riascoltiamo gli echi che nelle note lunghe delle sue versioni «with strings» di standard pop lasciati al naturale.

La velocità e la frase ritmica implicano invece un messaggio diverso in Bud Powell, avvantaggiato dall’essere pianista, nonché un pianista armonico, e un personalissimo compositore, ma soprattutto un musicista dalla singolare indole drammatica. Nella sua produzione più distintiva, realizzata in trio con puntate in solo (e in particolare tra il 1949 e il 1953), troviamo poca »alta velocità» che non si traduca pura suspense, il bagliore di A Night in Tunisia (instant classic gillespiano) smorzato da una tensione sorda e cupa, non pochi standard romantici riacquisiti in chiave armonica e/o senza sincopato e, al tempo stesso, il gesto boppistico usato da incremento drammaturgico al pezzo originale sconfinante in qualche forma di classicismo novecentesco (i ragguardevoli Dusk’n Sandi e Glass Enclosure).

Da uomo del bebop, Powell ci segnala la differenza di profondità emozionale tra il jazz del leader pianista, abituato a ragionare rispetto a uno strumento autosufficiente, e quello patrocinato dal solista di strumento a fiato; differenza che di principio continuerà a sussistere. Ma il concetto importante che ne consegue è che la «profondità emozionale» della musica dipende molto dalla forma. 

2.2 Monk

Più complessa è la posizione di Thelonious Monk, che il linguaggio del bebop lo avrebbe suscitato personalmente da frammenti di Swing e neppure si sarebbe mai sporto fuori dal jazz. Monk è un genio della musica e dell’arte, oltre che del jazz, per aver posto in essere quel linguaggio insieme a una musica uguale soltanto a sé stessa e nella quale si identifica un’unità pianista-compositore come non se ne conoscono altri esempi. Monk è pioniere del jazz cosiddetto moderno anche per aver creato, sembrerebbe negli ultimi anni Trenta, il celebre ‘Round Midnight, icona inossidabile del jazz associato a un romanticismo notturno, pertanto a un’area garantitissima della musica da ascolto emotivo. Ma la musica di Monk che ha preso forma dagli albori del bebop senza poi modificarsi tocca decisamente altre corde e, se si vuole, di romanticismo non ne tocca mai; almeno di romanticismo terreno. È molto psichica, al limite psicotica e di conseguenza antilirica. È lo specchio di un’immaginazione che non dà nulla per scontato e non conosce censure, come quella di un folle, ma per questo anche di una logica compiuta in ogni dettaglio.

L’ascolto di Monk infatti non è un’impresa di studio. Lo studio ci fa mettere a fuoco l’asimmetria, l’originalità armonica, l’audacia delle sue costruzioni, ma il valore di questi dati si situa a monte di una musica che semplicemente li fa funzionare come strategie di atmosfere ineffabili; atmosfere che, per quanto connesse alle forme del jazz, convergono su una qualità autonoma dell’emozione musicale, quindi indipendente anche dal jazz, che potremmo sentire «surreale».

La ballad, la tipologia di composizione più romantica, nelle mani di Monk resta una song scorrevole, per quanto contenente sempre qualche elemento irregolare che ne incrina la superficie lirica. Ferma restante la soggettività dei significati recepiti dall’ascoltatore, questi indizi di ambiguità del sentimento sembrano in ogni caso essere ciò che rende la ballad più intrigante anche sul piano emozionale. Sono forme densamente poetiche di un sentimento tradotto in musica come pura entità psichica, esplorato nelle sue declinazioni più capillari e impreviste.

Di ballads monkiane non ne esistono molte, ma sono proprio due ballads le fonti della formula di esecuzione più rivelatrice di quella «psichicità» e quella «surrealtà»: ovvero, la costruzione lunga non compatibile con parti improvvisate che non siano stretti commenti del tema. Nella tessitura lunga, asimmetrica e ricca di pieghe interne di Crepuscule With Nellie, dedica di Monk alla moglie, si indovina un sentimento romantico scrutato in profondo, vivisezionato, perciò qua e là ombroso, e in quella di Monk’s Mood, basata su blocchi di quattro battute ma che suggerisce l’esecuzione in prevalente out of tempo, un messaggio di riflessione sull’esistenza: onirica, a tratti sognante, mai cosmica e mai idilliaca. In una memorabile versione del 1957, out of tempo da cima a fondo e in cui Monk ha accanto Coltrane e il contrabbassista Wilbur Ware (sollevato da funzione ritmica), riconosciamo uno dei rarissimi casi di «empatia» tra Monk e un solista. Coltrane entra nel particolare spirito del pezzo già da quando improvvisa ad libitum in una breve introduzione in rubato, per poi innalzare la sua poesia dalla più rigorosa osservanza del tema.

Il disco contenente questo Monk’s Mood, intitolato «Thelonious Himself», per il resto è interamente in piano solo, unica altra situazione in cui Monk fa vivere il suo mondo musicale senza bebop. In solitudine le sue creazioni di bebop «diverso» le diserta regolarmente, e in questo disco (dove i suoi ‘Round Midnight e Functional, blues lento e lungo, galleggiano tra cinque standard poco jazzistici), più che mai affronta ogni tema come oggetto di riflessione intima, facendo lievitare le sue dissonanze, le sue apparenti esitazioni, le sue pause, e sulle parti di ritmo scandito riversa il regressivo della sua affezione allo stride di James P. Johnson. Crea anche lui una piano music dal domicilio imprecisato, in fondo, e con la sola risorsa di non sporgersi di un palmo fuori da sé stesso.

Il nodo più problematico si concentra quindi su quella parte preponderante di composizioni monkiane, tipicissime per costruzioni e armonie ma puntualmente ritmiche e che non avrebbero avuto altra destinazione dall’esecuzione bebop con fiati e assolo di rito.

Al di là delle singole costruzioni, che pure talvolta presentano qualche strategia in comune, ognuna di queste composizioni è un’invenzione a sé stante per il rapporto tra forma e tonalità emotiva o presumibile vuoto emotivo. Esiste nel songbook monkiano qualche tema che, per le armonie impiegate, suona inesorabilmente cupo, sinistro (Off Minor, Work), come esistono quello dalla melodia perfettamente infantile e almeno in superficie gioioso (Nutty) e quello simile a una marcetta che rimanderebbe a un comico grottesco (Jackie-ing), ma ciò che ricorre nella molteplicità delle forme partorite dall’immaginazione di Monk è un tema di bebop alterato, trasposto in una luce surreale, appunto, il cui peculiare flusso alchemico per lo più non rimbalza nelle creazioni dei solisti: temi come Epistrophy, Well You Needn’t, Criss Cross, Skippy, Hornin’ In…, poi Brilliant Corners, Evidence, Trinkle Tinkle… Le esecuzioni in quartetto del periodo 1957-1958, prima con Coltrane e poi con Johnny Griffin, sono meraviglie del jazz indubbiamente stimolate dalla musica di Monk, ma non emanazioni della musica di Monk. Non lo sono neppure gli assolo devotamente tematici di Charlie Rouse, membro stabile di tutte le formazioni monkiane dal 1958 in poi.

La proiezione della musica di Monk nell’improvvisazione ha raggiunto vette altissime nelle esecuzioni del duo Steve Lacy-Mal Waldron, già sensibile all’opportunità di ricondurre – monkianamente – l’improvvisazione tematica a una teoria di riflessioni sul tema. Ma sono soprattutto la lettura cameristica e post-moderna di Paul Motian (in trio con Bill Frisell e Joe Lovano e qualche ospite) e quella filosofica di Fred Hersch (in piano solo) a darci la misura di quanto la musica di Monk possa suscitare jazz «oltre il jazz» per propria grandezza.

2.3. Mingus

Sperimentale e sincretica nelle prime tappe, la musica di Mingus assume un’identità definitiva accogliendo in pieno i suoni e i processi del jazz, ma mai rispecchiandone gli stili. È una musica inquieta, impetuosa, pronta a sbottare, e al contempo una musica di composizione, anzi di grandi composizioni, e di esecuzioni di gruppo tanto vivificate da apporti personali quanto motivate dallo spirito della composizione.

In Mingus infatti è «totalità musicale» l’esecuzione in sé, che la composizione intrecci il lessico jazzistico ad altro o che lo esalti, persino nelle sue le radici, e che sia articolata, pluritematica, o che tragga energia da una forma semplice. L’esecuzione mingusiana dà sempre l’impressione di superare la dicotomia tema-improvvisazione tematica, di scorrere in un unico flusso, un unico spirito, dal dato del tessuto composto allo stato di prevalente informalità delle parti improvvisate. È un processo che Mingus «provocava» attraverso una relazione empatica, a volte usurpata, con i suoi collaboratori.

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Esistono composizioni mingusiane che sono forme di un messaggio univocamente passionale e assertivo, un messaggio che stenterebbe a farsi metafora di emozioni dai confini più sfumati. Da una parte, l’apocalittico Pithecanthropus Erectus; dall’altra qualche pezzo di militanza afro-americana, quello barricadero (Haitian Fight Song, Tensions), come quello gospel inspired, festoso (Better Git It in Your Soul) o almeno edificante (Wednesday Night Prayer Meeting). Altre più articolate o pluritematiche, sarebbero invece le più prodighe di meandri emozionali: persino quando ispirate a un preciso soggetto narrativo (come l’intero disco «Tijuana Moods»). È evidente però che questa sperequazione non investe la «forza» dell’esecuzione, che è onnipresente e mai funzione della forma. È forza di suoni, di scontri fra suoni, di avvicendamenti ritmici.

Per questo non esiste in Mingus l’esecuzione di routine, l’esecuzione che non sia inconfondibilmente sua, e per questo sono pochissime le composizioni mingusiane alle quali un altro musicista abbia dato nuova vita. Senza dubbio Goodbye Pork Pie Hat, migrata per la sua persuasività di minor blues elegiaco nei mondi pop, folk, blues, talvolta con testo cantato, e germogliata nella riserva del jazz in esecuzioni puntualmente importanti: dalle più cameristiche (John McLaughlin, Ralph Towner con Gary Burton e in solo, Gil Evans con Steve Lacy) alle più jazzistiche (Carla Bley, Paul Motian). Dopodiché non abbiamo che qualche rara composizione singolarmente pensativa che per questa specifica caratteristica ha suggerito trattamenti cameristici. Essenzialmente Reincarnation of a Lovebird e Orange Was the Color of Her Dress nelle versioni del duo Gil Evans-Steve Lacy, Smooch in quella del duo Steve Lacy-Mal Waldron e un paio di più post-moderne dall’eterogeneo e pretenzioso tribute album mingusiano patrocinato da Hal Willner nel 1992 («Weird Nightmare – Meditations on Mingus»). Si tratta non a caso di Self-Portrait in Three Colors, già poema sinfonico all’origine, qui trasformato in rarefatta miniatura cameristica dal duo Bill Frisell-Don Byron, e di Meditation on Integration, la più articolata e la sola drammaturgica tra le pagine che Mingus destinava a lunghe esecuzioni nella sua tournée europea del 1964, qui riportata all’essenza della composizione in un ombroso arrangiamento di Henry Threadgill per gruppo medio.

In entrambe sentiamo la «grande musica» di Mingus trasformata in altra «grande musica», semmai portatrice di emozioni più filtrate, più precarie, più flessibili. Mentre il trapianto della musica di Mingus in contesti jazzistici resta puntualmente sterile: mostra quanto la musica di Mingus sia una musica «di esecuzione» inalienabile dall’emanazione magnetica del suo creatore. Assolutamente logico che non esistano rivisitazioni propositive di Pithecanthropus Erectus (neppure quella di Motian) e che di tanti altri capolavori mingusiani non ne esistano in larghissima parte. Quasi nessuno ha osato affrontare nella sua interezza The Black Saint and the Sinner Lady, e che Gunther Schuller sia riuscito a ricomporre nel 1988 il ciclopico mosaico orchestrale di Epitaph (opera in progress di cui Mingus stesso non era arrivato a mettere insieme e incidere che pochi frammenti) senza ricavarne una «finestra su Mingus» ha del miracolare. Ascoltando la musica di Epitaph si immagina Mingus lì a darle piglio con il suo contrabbasso e a sorvegliarla, pronto a richiamare all’ordine lo strumentista che sta allentando un po’ la presa.

2.4. Hard bop, «Kind of Blue» e jazz modale

L’hard bop è uno stile indubbiamente più ricco e musicale del bebop: prodigo di composizioni originali che, quando non danno una consistente vitalità al blues, non è detto che derivino da standard, non poche quelle in tonalità minore, e anche di esecuzioni che le valorizzano. Il tipo di gruppo che lo caratterizza è il quintetto con due fiati, come da formula parkeriana, ma di esecuzioni un po’ brulle come spesso quelle del bebop non se ne incontrano più, nonostante l’adeguamento delle loro durate all’invenzione del long playing. Tanto che tra gli ultimi anni Cinquanta e i primi Sessanta l’hard bop provvede alle memorabili colonne sonore dei primi noir informati dall’estetica della nascente Nouvelle Vague. Miles Davis la crea per Ascenseur pour l’échafaud di Louis Malle; Art Blakey, con penna di Benny Golson, per Des femmes disparaissent di Édouard Molinaro. All’hard bop risulta dunque adatto mettere in musica la tensione non superficiale, perché sa farsi crepuscolare, quasi impressionistico, e in ciò pervasivo. Pervasive sono le composizioni melanconiche di Golson stesso (I Remember Clifford, Whisper Not, Along Came Betty…), capaci di innestare piglio riflessivo anche nei tonici gruppi di Blakey, come quelle di Clifford Brown, benché concepite per il più post-parkeriano dei gruppi hard bop (il quintetto Clifford Brown-Max Roach), ed è interessante che lo siano anche quelle di Horace Silver e di Bobby Timmons, i pianisti che hanno impresso nella musica patrocinata da Blakey lo stigma funky, a base di blues e di gospel. Silver, dagli inizi degli anni Sessanta, si sarebbe anche spinto fuori dalla cultura afro-americana creando sintesi originalissime di musiche latine, tropicali, comunque extra-occidentali (i dischi «Song for My Father» e «The Cape Verdean Blues»).

L’hard bop asciutto, scattante, elegante, antivernacolare, del quintetto di Miles Davis con Coltrane è invece il trampolino di lancio del jazz modale, l’apertura del jazz a un sistema armonico più flessibile di quello basato su accordi e propizio all’abbandono pensativo anche su medium tempo. È la direttrice che ha per manifesto l’inossidabile «Kind of Blue» davisiano, di cui Coltrane fa tesoro anche da leader nelle sue appassionanti esecuzioni del biennio 1959-61 (tra cui i capolavori My Favorite Things e Olé), che Booker Little riconfigura nella sua musica assolata e dolorosa e che già dalla prima metà degli anni Sessanta stabilisce un’alternativa «musicale» alla deriva «comportamentale» del free, fissando da allora valori finali della classicità jazzistica in termini di atmosfere delle esecuzioni (prototipo, l’ultimo quintetto acustico di Miles Davis) e di patrimonio compositivo (in pole position i temi di Wayne Shorter e di Herbie Hancock, protagonisti dei repertori davisiani).

C’è solo da precisare che questi valori, inscritti in quel jazz che abita il presente pur mantenendo inequivocabile la sua identità, restano compatibili con la forma chorus e con l’improvvisazione snodata, eventualmente antimelodica. Se nessuno dei cinque pezzi costituenti «Kind of Blue» contiene un assolo di questo tipo, e quello di Coltrane in Blue in Green è anzi così densamente lirico da sembrare scritto, questo accade di rado nelle esecuzioni del successivo quintetto davisiano, malgrado molte delle prevalenti composizioni di Shorter siano più labirintiche che non prettamente jazzistiche. Anomali gli svolgimenti pseudo-sinfonici dei piccoli capolavori Nefertiti e Fall.

3. Trittico eretico

3.1. Stan Kenton

Ricostruendo una storia comparata delle musiche (come finora nessuno avrebbe mai osato scrivere), Stan Kenton risulta l’artefice della prima musica di autentica avventura lessicale nata all’esterno della riserva accademica. L’aveva creata da uomo del jazz, in particolare da leader di orchestra Swing, immaginando profeticamente il jazz come vettore di ogni specie di forma e di espressione. Inseguiva una musica che interpretasse la coscienza moderna, anzi che la suscitasse. Infatti, il fine dei suoi esperimenti, delle sue esplorazioni di armonie più complesse di quelle alla portata del jazz di allora, non era semplicemente formale – come per gli altri leader del coevo movimento progressive, nonché i fautori della successiva Third Stream.

La prima mossa è un suo pezzo originale inciso nel 1943, Artistry in Rhythm, che presenta un tema non solo modale, ma dalla progressione che scala verso il basso; una pillola di crudo disincanto nella musica di svago. Dopodiché nascono pagine sempre più ambiziose e avventurose: soprattutto nel biennio 1946-1947, segnato dalla feconda collaborazione dell’arrangiatore Pete Rugolo, firmatario o co-firmatario di composizioni e arrangiamenti che Kenton, narcisista, megalomane ma genio visionario, immaginava oltre la portata della sua istruzione. Atonalità, politonalità, fusione di colto e popolare fino al dettaglio, partiture strutturate per riff continuamente modificati, masse sonore e fremiti fantasmagorici, superbo sound degli ottoni, sofisticate percussioni afro-latine… Musica immaginifica, perturbante, difficile, ma che al tempo probabilmente rappresentava l’America musicale meglio di ogni altra e per questo riscuoteva anche tanto successo di pubblico. In America il periodo che va dal 1943 (data di Artistry in Rhythm) al 1947 è passato alla storia come «The Kenton Era». Ma il messaggio di inquietudine di pezzi come almeno Artistry in Percussion, Elegy for Alto, Chorale for Brass, Piano and Bongo, Abstraction e Fugue for Rhythm Section potrebbe essere contemporaneo.

elogio del jazz impuro

Questo territorio di avanscoperta perde autonomia quando Kenton, rientrato in scena nel 1949 dopo un anno di pausa, punta ulteriormente al colossal musicale con un’orchestra dotata di sezione di archi (la cosiddetta orchestra delle «Innovations in Modern Music») e l’iper-eclettico compositore Bob Graettinger come nuovo realizzatore di sogni. La sua musica ora sembra entrata in competizione con l’avanguardia accademica, da cui preleva molto più ampiamente la sintassi e anche la retorica del dramma assoluto, ovviamente in chiave iper-spettacolare. La suite City of Glass del 1951, dove la città di vetro è metafora del terrorizzante della civiltà contemporanea, è un’opera sorprendente per la perfetta integrazione concepita da Graettinger tra le funzioni dei fiati e degli archi, ma visibilmente finalizzata a un sequestro emotivo che non ammette sfumature.

È noto che con questo tipo di messaggio musicale Kenton avrebbe perso un po’ di pubblico e che ne avrebbe riconquistato realizzando nel 1952 il disco «New Concept of Artistry in Rhythm», dove si spazia dal pezzo impregnato di swing a una nuova piccola prodezza di Graettinger (un arrangiamento di You Go to My Head con armonie atonali, non più che bizzarro). Le pagine memorabili e che reggono al tempo sembrano essere in ogni caso tre creazioni di Bill Russo situate in territorio intermedio (Portrait of a Count, My Lady e Improvisation). Le più jazzistiche sono d’epoca più di ogni jazz di allora per piccolo gruppo.

3.2. Gil Evans

L’eresia di Gil Evans nasce – durante la stessa «Kenton Era» – dall’invenzione di un sound semi-orchestrale, il cosiddetto French horn/tuba sound, chiamato così per l’inserimento del corno e del basso tuba nella front line addetta in prevalenza alla conduzione delle melodie. Un suono opulento e pastoso, fascinoso anche per una certa cupezza, che Evans sperimenta da arrangiatore della patinata orchestra da ballo di Claude Thornhill, e al quale danno rilievo indubbiamente più i pezzi pop che non i pochi jazzistici inclusi nel repertorio. Questo sound, infatti, valorizza le storiche esecuzioni del nonet di Miles Davis del 1949-50 (il disco «Birth of the Cool», con arrangiamenti anche di Gerry Mulligan, John Lewis e Johnny Carisi) assumendo un’altra funzione strutturale e disperdendo un po’ del suo particolare riflesso emozionale. Diventa jazz illustre, perché all’origine il movimento cool stratifica il suo principio di art pour l’art sullo status quo del bebop. Una sola di queste pregevolissime esecuzioni recupera, anzi esalta, il French horn/tuba sound nella sua intera quota eretica, ed è naturalmente una ballad pop, Moon Dreams, che l’arrangiamento evansiano trasforma in piccola sinfonia cameristica dal clima sottilmente depressivo, sviluppata sul solo tema dall’ensemble, con soltanto brevi raccordi solistici e il basso tuba continuamente partecipe della melodia.

Non possedendo ancora proprie formazioni, Evans rientra in scena soltanto nel 1957 e per realizzare una nuova pietra miliare che lo lega a Miles Davis. È il disco «Miles Ahead», per il quale arrangia pezzi di provenienza jazz, pop e classica per un’orchestra di diciannove elementi e con Miles unico solista, per giunta al pastoso flicorno. È l’occasione in cui le sue strategie si moltiplicano e si articolano ulteriormente, comportando valorizzazioni intuitive di parti dell’orchestra neppure sempre coincidenti con le canoniche sezioni. Il French horn/tuba sound resta un supporto generale, mentre affiorano suggestivi impasti di flauti, passaggi di clarinetto basso, sottolineature su registri alti non dovute soltanto alle trombe, architetture «emozionali» che anticipano quello che sarà il suo distintivo impressionismo di ispirazione ispanica, già maturo nel suggestivo adattamento di una pagina di Léo Delibes, Les filles de Cadix, che qui porta il titolo anglicizzato di The Maids of Cadiz. Sofisticato ma scorrevolissimo, equilibratissimo nella sua forma concertante, «Miles Ahead» è il manifesto di un orizzonte idealmente no genre della big band opposto a quello apocalittico di Kenton e ha tutto il magnetismo del capolavoro di bello musicale ottenuto grazie a sovvertimenti di regole.

Dalla collaborazione di Evans con Davis nascono due altre opere importanti e fortunate: nel 1958 la suite strumentale da Porgy and Bess e nel 1959 «Sketches of Spain», il concept album che Evans ha voluto consacrare alla Spagna ispiratrice della sua vena impressionistica. Due opere più ambiziose di «Miles Ahead», forse anche più «senza tempo», ma che potrebbero apparire un po’ meno fluide. «Porgy and Bess» perché non tutti i segmenti dell’opera gershwiniana presentano piena autonomia dal contenuto narrativo; «Sketches of Spain», comprendente riorchestrazioni di pezzi sia classici (il Concierto de Aranjuez di Joaquín Rodrigo e un estratto da El amor brujo di Manuel de Falla) che folklorici, in quanto omaggio quasi simbiotico a una musica che è fusione esemplare di folklore e drammaturgia – un approccio meno mediato di quelli di Miles stesso in Flamenco Sketches, di Coltrane in Olé e di Booker Little più o meno in tutta la sua musica.

Meraviglie del sound evansiano meno altisonanti provengono invece dal disco «Gil Evans and Ten», ancora del 1957; disco che Evans, per la prima volta leader uninominale, sceglie di realizzare con un organico di soli dieci elementi. La forma concertante, alla quale ora partecipano assolo di sax soprano (strumento ancora inusuale, nelle mani di un giovanissimo Steve Lacy), trombone e tromba, oltre che i suoi interventi pianistici finemente antivirtuosi, funziona da conversione della forma chorus a parte integrante di arrangiamenti più spesso cameristici che non orchestrali, e ovunque punteggiati di geniali dettagli timbrici. L’esperienza con questo gruppo è la più chiara premessa all’uso cameristico che Evans farà di orchestre nuovamente più estese (13-14 elementi) nei dischi «Out of the Cool» del 1961 e «The Individualism of Gil Evans» del 1963-64, manifesti del suo più immaginifico impressionismo, nel quale la stessa modale musica spagnola si fa referente opaco al pari di altri.

In «Out of the Cool» il pezzo dichiaratamente Spanish è La Nevada, in cui l’impronta di un tema è basato su un solo accordo (in minore e maggiore) si trasmette dalla potente enunciazione degli ottoni a una sequenza di assolo (di tromba, trombone basso, sax tenore, contrabbasso e chitarra) che rasenta la forma chorus. Poi il referente iberico investe a stento Sunken Treasure, unico altro originale evansiano presente nel disco, che è una breve pagina concertante per tromba solista (Johnny Coles) con un background condotto da due tromboni e un trombone basso che quasi evocherebbe uno scenario western. Where Flamingos Fly, uscito dalla penna eclettica di John Benson Brooks, è una meditazione per trombone solista (Jimmy Knepper) e orchestra alla quale la base costante di modale minore dà indiscriminata melanconia, e la versione di Bilbao Song di Kurt Weill, dove il tema originale ispira una ri-composizione sinfonica che potrebbe rimandare a ogni sorta di luogo della mente. 

Ma i capolavori più coraggiosi per invenzione coloristica, primato dell’atmosfera e anche mescolanza di referenti si spuntano dall’ampio materiale destinato al disco «The Individualism of Gil Evans» (infatti pubblicato per intero soltanto a partire dall’edizione in cd del 1988). Da una parte abbiamo il camerismo impressionistico di un altro prelievo da Kurt Weil, The Barbara Song, in un’esecuzione traboccante di sottigliezze registiche e timbriche che la rendono continuamente cupa, e l’estasi ispanico-western di El Toreador, nuova miniatura concertante per tromba (ancora Coles) e ensemble, nonché l’inquieta staticità di Proclamation, basato sul susseguirsi scalare o il ripetersi di note lunghe; dall’altra la tensione tutta americana e pop di Las Vegas Tango, blues che vola basso sul colossal hollywoodiano, e di Hotel Me, che prende toni e ritmo da un magma di soul e country fino a mimare un pop quasi sguaiato. 

Le ultime propaggini di questa totalità poetica evansiana si ritrovano tra i cinque arrangiamenti concertanti scritti nello stesso 1964 per il disco «Guitar Forms» del chitarrista Kenny Burrell (già solista in alcune esecuzioni di «Individualism»): sontuoso quello impressionistico di Lotus Land (del compositore inglese Cyril Scott), ma quasi privi di azzardi quelli che sarebbero pop. I voli bassi su generi popolari, o altissimi su generi prensili, tornano dopo una nuova pausa di produzione, durante la quale Evans avrebbe innestato proprie idee nell’humus del nascente jazz-rock – e collaborato nuovamente con Miles Davis da consulente per il disco «Miles in the Sky» e anche da co-autore non accreditato di alcuni pezzi del capolavoro «Filles de Kilimanjaro».

Evans infatti riprende la sua produzione di leader nel 1969 occupando quel territorio da sperimentatore outsider e a debita distanza dal virtuosismo strumentistico, la spettacolarità e la muscolarità che già cominciavano a caratterizzarne alcuni gruppi. Fa addirittura riaffiorare un rinnovato French horn/tuba sound e i suoni sintetici li combina a un pop che ha qualcosa di ritualistico – non di rado interviene il suono ritmico di una campana. È tutt’al più la lunga durata di certe improvvisazioni solistiche a deviarne l’energia.

Il disco «Svengali», ricavato da esecuzioni live del 1973, è in tal senso il più equilibrato del periodo. Se gli assolo più depistanti sono di default quelli sassofonistici, qui possiamo ancora sentire quelli di David Sanborn (sax alto) e di Billy Harper (sax tenore) come libere proiezioni delle orchestrazioni evansiane, inconfondibili anche in veste funky: rigogliosissime e trascinanti nei due pezzi composti da Harper (Thoroughbred e Cry of Hunger), ricche di humour sul Blues in Orbit scritto da George Russell e ispirate a un immaginario gotico in Zee Zee, nuova creazione concertante di Evans, con protagonista la tromba di Hannibal Marvin Peterson.

Ma già nel «There Comes a Time» del 1975, benché registrato in studio, vediamo che orchestrazioni ancora più sofisticate vengono in più casi ridotte a contorni di prolisse per quanto intense improvvisazioni. La lunga esecuzione di The Meaning of the Blues (circa venti minuti apparsi solo nella ristampa su cd; nell’edizione originale su lp ne durava sei) è polarizzata da un assolo sofferto e molto materico di George Adams al sax tenore. E la tendenza che si legge nell’Evans successivo è persino di lasciare sempre più spazio ai solisti assottigliando il segno delle orchestrazioni. La sua ultima opera «magica», oltretutto sua ultima in assoluto, è un raccolto duo con Steve Lacy del 1987 intitolato «Paris Blues». Qui il segno di Evans arrangiatore sembra curiosamente trasposto nelle armonie di Evans pianista, ma il pop «alto» è disertato per uno squisito camerismo.

3.3. Jimmy Giuffre

Forse in sintonia con uno strumentismo antivirtuoso, ma molto poetico, soprattutto al clarinetto, Jimmy Giuffre già nella prima metà degli anni Cinquanta adopera il jazz per fare del camerismo «psichico».

L’idea, in parte profetica, di ottenere questo tipo di musica attraverso l’uso di gruppi dai ruoli equiparati, azzerando la sperequazione tra leading voice e accompagnamento, lo porta in una prima fase a realizzare esecuzioni piuttosto condizionate dalla teoria. Tanto nel disco «The Three» del 1954, condiviso con Shorty Rogers e Shelly Manne, quanto nel suo «Tangents in Jazz» del 1955, troviamo esecuzioni organizzate per brevi segmenti di dialogo fra le tre parti, comprese quelle dello strumento ritmico, che si susseguono o si intrecciano in contrappunto frammentando molto le loro atmosfere – neppure così tensive nei passaggi dominati da armonie extra-tonali. A liberare Giuffre da questa trappola è un interesse alquanto metafisico per il folklore statunitense: bianco, nero, anche nativo-americano, studiato come materiale per una musica ancestrale. È la svolta che matura con il disco «The Jimmy Giuffre Clarinet» del 1956, concept album in cui Giuffre adopera unicamente il clarinetto, lo strumento che più sente, e a ogni pezzo riserva un’apposita formazione, limitando quindi l’uso dello strumento ritmico al pezzo ritmico. Nel blues So Low suona in solo, accompagnato dal battito ritmico del piede; in The Side Pipers ha accanto tre diversi flauti e batteria usata con sole spazzole; in una stralunata versione bucolica di My Funny Valentine galleggia quasi concertisticamente fra tre legni classici e un contrabbasso; nell’altrettanto bucolico The Sheepherder suona a cappella con due altri clarinetti di diverse tonalità; in Fascinatin’ Rhythm, standard gershwiniano, rigenera con i suoi modi cameristici lo storico trio di clarinetto, piano e batteria di Benny Goodman. Sono forme semplici, ancora schematiche, ma immagini diverse di una poesia intima e inquieta, nutrita di tutto il mistero che si nasconde nelle musiche di memoria popolare e che qualche passaggio vagamente extra-tonale quasi attraversa invano.

La distanza che Giuffre avrebbe preso dallo sperimentalismo nel disco «The Jimmy Giuffre Three» dello stesso 1956, in cui torna ad alternare il clarinetto ai sassofoni e utilizza per tutte le esecuzioni un trio con chitarra (il giovane Jim Hall) e contrabbasso, non indica comunque un allontanamento dall’obiettivo di una musica psichica. Le intersezioni tra le parti strumentistiche danno una fluidità esemplare a esecuzioni più che mai raccolte, riflessive, fitte di allusioni. Alcune nascondono questo spessore dietro un’apparente leggerezza: se il celebre The Train and The River è l’immagine di un folklore ritualistico quasi scanzonato, due brevi suite eseguite al clarinetto, Two Kinds of Blues e Crawdad Suite, sono esplorazioni di un blues ascensionale al quale gli spostamenti armonici aggiungono mistero.

Ma l’espressione più mediata, più soggettiva, dello studio sulle musiche di radice popolare Giuffre la concretizza creando nel 1958 un trio pan-melodico: ancia, trombone a pistoni (Bob Brookmeyer) e chitarra (sempre il sensibile Jim Hall). Senza più ritmo scandito dal suono di uno strumento ritmico, la musica torna radicalmente cameristica, ma senza prelievi dal camerismo accademico. In tutti i suoi elementi è pura invenzione di Giuffre; se si vuole, al pari del folklore, dal quale Giuffre non preleva melodie esistenti ma si fa ispirare per crearne di possibili, di ulteriormente misteriose, ora anche di apertamente tese. Piccoli organicissimi capolavori come Pickin’ ‘Em Up and Layin’ ‘Em Down, The Green Country, The Lonely Time e The Swamp People, tratti dal primo disco del gruppo («Trav’lin’ Light»), possono quasi apparire timidi preludi ai capolavori assoluti che sono la Western Suite, in quattro movimenti, e la lunga versione di Topsy (entrambe nel disco «Western Suite»); capolavori di intersezione fra tensione e ascesi.

La stagione folklorica Giuffre la conclude entro lo stesso 1958 per puro bisogno di ricercare ancora. Il trio è riportato alla formula di ancia, chitarra (sempre Jim Hall) e contrabbasso, scelta forse adottata per esclusione, e le esecuzioni, tutte da nuove composizioni originali, non appaiono molto rifinite: hanno in compenso il fascino dell’antispettacolare, un fascino un po’ spleeny. Alcune pur essendo swingate in modo tradizionale, con chitarra e contrabbasso in funzione di accompagnamento; altre riproponendo l’ingegneria cameristica giuffreiana in tessiture meno sorvegliate. Ma questa possibile flessione di idealità, piuttosto degna di un genio inquieto e perennemente insoddisfatto come Giuffre, avrebbe portato alla massima trasparenza il significato di una musica tanto sommessa nei toni quanto per nulla pacifica. Ora il concetto di capolavoro o piccolo capolavoro, tutt’altro che svanito dal discorso, lo riempie un pezzo cupo e depressivo come Princess, eseguito al clarinetto nel disco «7 Pieces», e costituiscono episodi indicativi due brevissimi interludi senza tema e senza centro tonale, pure eseguiti al clarinetto, che fanno parte del successivo «The Easy Way». In più esecuzioni contenute in questi due dischi la parte non scritta prende forma come instant composing correlato al tema principalmente per atmosfera: l’organizzazione emozionale dell’esecuzione precedentemente ottenuta attraverso la gemmazione di più cellule scritte ora è affidata all’improvvisazione. 

L’instant composing è infatti il principio guida della visionaria musica per clarinetto, pianoforte e contrabbasso che Giuffre realizza lungo il 1961 con accanto Paul Bley e un giovanissimo Steve Swallow; musica di introspezione, di silenzi e di empatia che fiancheggia il free nascente in un’evoluzione rapidissima e sempre più orientata alle forme libere, ma senza mai sconfinare nel fattore comportamentale.

Il primo disco, «Fusion», del marzo 1961, è il meno apparentabile al free e il più eminentemente pensativo. Forse per questo anche il più fascinoso. Presenta una musica sempre molto bilanciata tra avventura esecutiva e controllo formale, e potrebbe dirsi composto unicamente di piccoli capolavori determinati dall’azione congiunta di composizione ed esecuzione. A parte due pagine di Carla Bley dalle tessiture lunghe e articolate (il celebre Jesus Maria e In the Mornings Out There), abbiamo temi concisi, alcuni in forma blues, ma dai quali si diramano continui intrecci delle parti strumentali che sono spesso rimbalzi di scorci melodici. La radicalità di questo disco senza simili consiste nell’apparenza scritta di ciò che è improvvisato, la fluidità con cui l’improvvisazione di parti che si alternano fa intrecciare stati armonici ed emozionali, suscitando tensione da sfumature pulviscolari.

Il successivo «Thesis», posteriore di soli cinque mesi, è invece un’opera di tensione incalzante, con strutture composte non più che indicative, trame più fitte di accadimenti e intrecci delle voci che non di rado sfociano in improvvise congestioni. Anche il suono del clarinetto di Giuffre si è fatto più secco e legnoso, mentre Bley ricorre talvolta al cluster e all’intervento sulle corde del piano. Qui infatti è evidente la differenza tra l’esecuzione free «secondo Giuffre», di cui ogni passaggio fa risuonare un’intesa, ogni intesa, e quella del free «d’azione» di Ornette Coleman e Cecil Taylor, dove la variante alla tradizionale forma chorus consiste nell’ampio margine di cecità del caso che informa la preponderante improvvisazione: spesso, infatti, compensato dal ricorrere di ripetizioni.

Con il disco «Free Fall» del 1962 Giuffre accentua la sua distanza dal free, nonché dal jazz, per esplorare forme di improvvisazione ispirate piuttosto dalla grammatica post-weberniana, e in gran parte per solo clarinetto. Eppure il suo muoversi in solitudine in questo libero pantonalismo suona come una conseguenza estrema della sua attitudine ascensionale, cioè di tutta la sua precedente esperienza. Un messaggio squisitamente individuale che vince sul cliché della nevrosi contemporanea.

È poi che Giuffre si fa più permeabile alla free improvisation comune, lasciandoci soltanto tracce isolate del suo magnetismo: indubbiamente il pezzo in solo Clarinet del 1974 e non pochi dal cd «Fly Away, Little Bird» del 1992, unico prodotto della riunione con Bley e Swallow in cui la free improvisation non regni sovrana.

 

  1. Piano jazz vs Piano music

Tra gli elementi che hanno spinto il jazz verso un centro della musica, il mondo del pianoforte ne costituisce uno indipendente, determinato dallo strumento in sé, almeno da quando non è più stata essenziale la sua funzione ritmica. Anzitutto come strumento vocazionato al romanticismo – se si vuole, accademico e no. Ma anche come strumento autosufficiente al fine della creazione musicale. Se la chitarra non lo eguaglia fino alla comparsa di John McLaughlin e di Ralph Towner, il vibrafono non avrebbe mai potuto senza Gary Burton. Mentre di pezzi pianistici che trascendono il jazz per caratteri formali e range emozionale ne esistono già di James P. Johnson e di Art Tatum, senza dimenticare l’impressionistico In a Mist di Bix Beiderbecke, pianista per un giorno. Ne esistono di Monk e di Powell, come abbiamo visto, quindi di Lennie Tristano, Dave Brubeck, Dick Twardzik…, e una piano music tanto più individualistica che non jazzistica è già la musica di Mal Waldron intorno alla metà degli anni Sessanta. Nel disco «All Alone» del 1966 Waldron ha già a portata di mano il romanticismo astorico e ubiquo che germoglierà nell’area problematica del jazz contemporaneo.

Ma la traccia che più contraddistingue il contributo del mondo pianistico all’evoluzione no genre del jazz è senza dubbio la fusione di romanticismo e impressionismo. Non avrebbe altro padre da Bill Evans, malgrado repertori popolati più di standard jazzistici che non di composizioni originali concepite in quella direzione. Impressionistici sono i tratti distintivi del suo pianismo, i suoi inconfondibili block chords distesi (di apporto fondamentale anche alle atmosfere del davisiano «Kind of Blue»), e impressionistica l’aura delle sue esecuzioni in trio con contrabbasso e batteria, in cui gli strumenti ritmici sono coinvolti al pari del piano in un dialogo circolare, anziché produrre accompagnamento; la formula codificata dalle sue leggendarie esecuzioni in trio con Scott LaFaro e Paul Motian del 1959-1961.

Si può anzi osservare che, se la fusione di romanticismo e impressionismo in sé assumerà tante forme e assetti sonori a partire dalla prima metà degli anni Settanta, l’influenza evansiana sul costituirsi di una piano music si concretizza in un susseguirsi di stadi che la mostrano sempre meno stilistica. Primo stadio, nei trii di Paul Bley, Denny Zeitlin e Steve Kuhn degli anni Sessanta troviamo la formula trio evansiana ribaltata in espressioni di introspezione inquieta e di tensione, musiche per questo anche dalle armonie più libere e talvolta, soprattutto in Bley, dalle atmosfere più astratte. Secondo stadio, Keith Jarrett, entrato in scena a fine decennio, passa da una formula pianistica Evans+Bley ancora nervosa e fredda a una riveduta e molto più globale, che recupera musicalità prensile dalla fusione di generi (romanticismo storico, pop, rock, persino gospel). Terzo stadio, i dischi in solo incisi per la ECM da Jarrett nel 1971 («Facing You»), Bley nel 1972 («Open, to Love») e Kuhn nel 1974 («Ecstasy») – più chiaramente del coevo «Piano Improvisations» di Chick Corea, dove domina ancora tanta langue del free – conducono all’epifania della piano music originata dal jazz, ma attraverso espressioni di totalità musicali tra loro diversissime. Combinatorio il loro rappresentare la prima generazione dell’ECM-sound pianistico e non più che virtuale la loro discendenza da Evans.

elogio_jazz_impuro

Del resto, la più originale piano music prodotta da allora in poi è opera di pianisti che con Evans non avrebbero alcun debito. Parliamo di Mike Nock, nonostante la sua marcata vocazione impressionistica, di Eric Watson, apostolo unico di un moderno romanticismo passionale, e di Bill Carrothers, interprete singolare di un romanticismo molto ispirato dalla memoria musicale e sociale statunitense. La traccia di Evans interessa la piano music soprattutto come principio registico dell’esecuzione in trio e a patto che la composizione condizioni per proprio spessore e proprio carattere l’esecuzione. Esempio ideale, la piano music che Gary Peacock, contrabbassista, ha realizzato da leader di trii pianistici affidando le sue pagine dense di tensione meta-jazzistica alle leading voices di Masabumi Kikuchi (1971), di Jarrett (1977), di Art Lande (1980) e infine di Marc Copland. Esempio medio, quella del trio di Peter Erskine con John Taylor, che esegue significative composizioni meta-jazzistiche del leader, del pianista, di Vince Mendoza, di Kenny Wheeler…, ma sempre più spesso cedendo, lungo i suoi cinque anni di attività (1992-1997), all’esecuzione aleatoria. Ai trii di Brad Mehldau invece occorre una pop song (sua o altrui) per trascendere il mero aggiornamento tecnico-sintattico della maniera evansiana. A trii di Mehldau come a quelli di Fred Hersch, parlando di grandi nomi. Ed è in questo senso che il fortunatissimo Standards Trio jarrettiano costituisce un caso davvero diffcile da elaborare.

Di composizione identica a quella del precedente trio diretto da Peacock (con Jack DeJohnette batterista), ma consacrato a una presunta vita eterna di standard e classici del jazz, dal 1983 e per circa un quarto di secolo è oggetto di una copiosa discografia ECM, principalmente live. Eicher lo giustifica nel suo mondo – e decisamente a suo modo – qualificandone la musica come «musica da camera… studio su timbri, intensità e ritmi…», cose simili. Ma se pure la sua immensa fortuna commerciale – semmai assecondata dall’uscita di qualche disco di troppo – può farci pensare alla mega-marchetta di un produttore altrimenti intellettuale e rigoroso, qualcosa ci porta anche a considerare l’ipotesi del caso musicale più potente del jazz: semmai richiedente doppie o triple letture con più urgenza che non l’altrettanto fortunato «The Köln Concert». All’ascolto, la resa dei conti, quasi ogni esecuzione dello Standards Trio sembra non far «pesare» la specialità del jazz, neppure quella da pezzo boppistico (come se ne incontrano non pochi) e malgrado Jarrett sia un pianista di fraseggio, non di tocco, ovvero suono. Se il segreto non può essere che nella regia, una regia filosofica e capillare, il punto fallace non può essere che l’assolo di batteria enfatico, prolisso, jazzistico.

Certo è che l’influenza dello Standards Trio è nulla. Chiunque pianista abbia inciso standard jazzistici per piano trio negli anni Ottanta, Novanta, Duemila o dopo non sarebbe sfuggito ai contorni di un mainstream aggiornato. Persino in Steve Kuhn, «maestro del colore», resta sostanziale la differenza tra la ballad riflessiva e il pezzo boppistico evasivo. Così anche in Paul Bley, in Mal Waldron. Mentre l’influenza di Jarrett pianista si somma positivamente a quella del compositore sincretico e persuasivo degli anni Settanta nella piano music dello svedese Esbjörn Svensson con il trio siglato dall’acronimo E.S.T.; musica di un suggestivo romanticismo nordico e pop, soprattutto finché è rimasta delicata e coloristica la sua guarnitura di suoni elettronici, poi trasformatasi in fonte di eccessiva ripetitività, gelo apocalittico, ruvidità rock.

elogio del jazz impuro

Curiosamente, la stagione in tal senso feconda del trio E.S.T. (periodo 1997-2002) si conclude in coincidenza con l’affermarsi del trio statunitense The Bad Plus, al tempo composto dal pianista Ethan Iverson, il contrabbassista Reid Anderson e il batterista Dave King, gruppo che trascende i generi in base a un originalissimo principio di non contraddizione tra iconoclastia e comfort zone musicale. Tra pezzi originali e cover, fa funzionare da musique d’ameublement (detto alla Satie) una fusione calda di pianismo nervoso jazz, durezze rock, seduttività pop, solennità e lirismo da romanticismo storico. È musica trascinante per la sua paradossale omogeneità, la sua superficie qua e là affettiva. A smontarne il senso in quanto piano music, altro paradosso, è l’espressione stereotipata del pianista, pianificata per non essere che una funzione. Iverson per quindici anni l’ha svolta oscurando lo stile che lo contraddistingue in qualsiasi altro contesto, e così il suo successore Orrin Evans, senza far notare sostanziali differenze. Come è noto, il sofisticato progetto del gruppo è dall’origine opera della coppia Anderson-King, e dall’origine ha condizionato il pianista di turno anche negli apporti compositivi.

  1. Sinossi del jazz «oltre il jazz»

5.1. Jazz-rock vs pop «alto»

Posto che il free non impugna la direttrice «autarchica» del jazz ma piuttosto la congestiona, la prima corrente collettiva che da questa direttrice avrebbe tracciato una perpendicolare è il jazz-rock, ma tra importantissime acquisizioni dirette a fare del jazz un pop «alto» e scelte eccessivamente orientate alla spettacolarità.

Miles Davis si fa iniziatore ufficiale del movimento attraverso quattro dischi consecutivi del biennio 1968-69, di cui ognuno costituisce insieme un volto e uno stadio di affermazione. «Miles in the Sky» ritocca il modal jazz del precedente quintetto acustico con l’adozione del piano elettrico in alcuni brani e atmosfere che guadagnano tensione da giochi di ripetitività ritmica e improvvisi colpi di scena.

Il pregevolissimo «Filles de Kilimanjaro», realizzato con collaborazione uncredited di Gil Evans, vede le proprietà dinamiche del piano elettrico già sfruttate come perno di esecuzioni dalle forme e le sfumature emozionali più complesse, esecuzioni che possono apparire come rifinitissime riflessioni musicali su uno stato di dubbio.

«In a Silent Way» presenta il segmento armonico del gruppo dilatato a due piani elettrici (Herbie Hancock e Chick Corea), un organo (Joe Zawinul) e una chitarra acustica (John McLaughlin), sul quale la tromba di Miles adagia melodie piane, proponendo il jazz-rock come musica soprattutto meditativa. «Bitches Brew», infine, è il capolavoro prismatico e dai suoni elettrici spiazzanti (compreso il pedale wah wah applicato alla tromba di Miles) in cui ciascuna esecuzione sfrutta la sua durata, per lo più lunga o medio-lunga, per porsi come un mosaico elencale di situazioni di attesa, ripetizioni e congestioni inerti che evocherebbero il misterioso della vita. L’influenza sulle atmosfere dell’abbondante sezione di percussioni farebbe pensare anche a un misterioso di radice africana, mai invocato da Miles in precedenza.

È in ogni caso l’anima psichedelica e nichilista di questo capolavoro il perno del successivo jazz-rock davisiano, che già dalle registrazioni del 1970 ha il volto di un contundente free-rock dominato dal suono, anzi lo shock sonoro. E a questa scelta possibilmente più culturale e posturale che non dettata da esigenze musicali si allineano, semmai senza uguale radicalità, gli altri leader di spicco del movimento, del resto tutti collaboratori o ex di Miles. Tra chi di loro era stato protagonista significativo di una musica di segno opposto quale quella di In a Silent Way, soltanto Chick Corea, con il gruppo Return to Forever, di forte ispirazione ispanico-latina, di durezze rock non ne avrebbe accolte mai. Mentre è quasi sorprendente come le abbia accolte John McLaughlin, l’anima mistica del movimento, oltre che Joe Zawinul, con piena complicità di Wayne Shorter, nel gruppo Weather Report.

McLaughlin, chitarrista e compositore «spirituale» già dal suo primo disco, che ha fattezze jazzistiche («Extrapolation», del 1969), diventa leader di jazz-rock innestando nel movimento un’ispirazione alla musica classica indiana che non fa mai sfociare nel simbiotico. Ma l’originalità di questa poetica combinatoria, che nel disco interamente acustico «My Goals Beyond» del 1971 (realizzato in parte con un gruppo di otto elementi e in parte in solo) dà vita a un’appassionante musica ascensionale, non sopravvive alla fondazione, nello stesso anno, del gruppo semi-elettrico Mahavishnu Orchestra. E probabilmente non per la conversione alla chitarra elettrica in sé: piuttosto a un modo di intendere la funzione della musica.

Il gruppo Weather Report co-diretto da Shorter e Zawinul, a sua volta, sosta a lungo sul messaggio musicale cinico che emana da suoni freddi, composizioni statiche e ritmi insistenti per quanto articolati (esempio chiave Boogie Woogie Waltz). La sua musica comincia a modificarsi, farsi un po’ meno disincantata nel 1974 (il disco «Mysterious Traveller») e poi man mano più pop, fino a virare verso composizioni articolate e coinvolgenti (un paio del sopraggiunto bassista Jaco Pastorius) nel disco «Heavy Weather» del 1977 – compreso un episodio di pop spudoratamente leggero (Birdland di Zawinul). Il disco frutta giustamente al gruppo la sua vetta di successo commerciale; un caso in cui il successo commerciale, come sosteneva Claude Chabrol riguardo i film, indica cosiddetta qualità. Ma qui è facilmente anche il risultato di una capacità di cogliere ciò che è nell’aria. Potrebbe non essere casuale che la preparazione di «Heavy Weather»  segua l’entrata in scena del fenomeno Pat Metheny con il disco «Bright Size Life», uscito agli inizi del 1976 (e peraltro vetrina per lo stesso Pastorius) e dove si respira un’aria simile, sebbene più asciutta. Metheny, che non nasce nell’humus del jazz-rock, ma sotto l’egida di Gary Burton (dopo una seduta pseudo-sperimentale patrocinata da Paul Bley e comprendente Pastorius), è in fondo il musicista intervenuto al momento giusto e con le giuste risorse per impiantare nella riserva del jazz la categoria pop «alto».

Dall’iniziale «Bright Size Life» Life al primo disco, senza titolo, a nome del Pat Metheny Group (1978) e passando per il più delicato «Watercolors» (1977), Metheny suona e compone una musica di raffinata costruzione armonica e che al tempo stesso valorizza le sue doti di chitarrista elettrico dal suono tondo e gentile e dal melodismo narrativo: ha reinventato l’American sound chitarristico in chiave pensativa e diffusamente allusiva: motivo della sua permanenza in ECM per scarsi dieci anni. Si può sostenere anzi che il posto e la funzione della sua musica non siano cambiati con l’adozione dei sofisticati suoni elettronici, talvolta persino ridondanti, apportati al gruppo dal tastierista Lyle Mays, musicista, se si vuole, dall’indole ancora più sognatrice. Tranne rare eccezioni, il sound elettronico del Pat Metheny Group offusca la percezione delle parti reali per restare inscritto in una musica persuasiva e penetrante, benché frutto di elaborazioni complesse. Mays, nella sua esigua produzione di leader (in particolare il suo primo disco, senza titolo, del 1985), lo avrebbe anche sfrondato degli effetti più spettacolari e integrato con più frequenza al suo etereo pianismo acustico per inscriverlo in un camerismo pop ulteriormente ricco di sfumature.

5.2. Pop «alto», romanticismo prismatico e camerismo ECM

Posto che pop «alto» non possa essere che un tipo di musica e romanticismo prismatico una caratteristica attribuibile a certa musica, queste due espressioni descrivono le due aree di alleanza tra forma ed emozione che, spesso compenetrandosi, ricorrono nel jazz più rappresentativo della musica nelle sue proprietà globali, sia contemporaneo che passato. Pop «alto» può dirsi il jazz che estende il suo impiego di proprietà globali della musica valorizzando con il mezzo «alto» dell’espressione strumentistica la prensilità propria della musica pop, persino a prescindere dalla positività o negatività della tonalità emotiva. Romanticismo prismatico è invece il campo di espressione che il jazz guadagna riorganizzando in un’espressione musicale presente le proprietà allusive/evocative di musiche di qualsiasi epoca e provenienza.

Naturalmente il jazz conosce la condizione di pop «alto» parecchio prima della conquista di romanticismo ubiquo. Pop «alto» è già la versione strumentale della pop song d’autore (la celebre Body and Soul di Coleman Hawkins, per citare un esempio emergente), così come una qualsiasi ballad eseguita da Lester Young con i suoi magici sottintesi armonici. Ma l’assimilarsi a un pop «alto» diventa per il jazz emancipazione da quando la prensilità pop comincia a implicare tonalità emotive articolate, ambigue, interrogative, non semplicemente positive o negative: quel tipo di attitudine romantica dai motivi e i referenti plurimi che, anticipata da isolate eresie (con in testa il Gil Evans di «Out of the Cool» e «Individualism»), non fa tendenza finché nel jazz non attecchisce l’inquietudine generazionale che è già protagonista del pop come del rock, e di conseguenza non si forma un’area di rifiuto dei valori identitari del jazz di cui il free era il custode armato. Originata quindi dall’apertura del jazz al rock, è inizialmente un’area in cui il trionfante jazz-rock di emanazione davisiana domina su quello più delicato e pop del quartetto di Gary Burton e del gruppo The Fourth Way di Mike Nock, ma che presto si sdoppia gemmandone una alla quale la traccia pop di Burton e Nock confluisce insieme all’inedito camerismo no genre del gruppo Oregon, fondato nel 1970 (con Ralph Towner leader di fatto): cioè l’area immediatamente individuata da Eicher come rappresentativa, accanto a quella pianistica, del nascente ECM-sound.

In questo senso la prima concretizzazione dell’ECM-sound – al di là di dello slogan quasi esoterico con cui Eicher amava enunciarne il principio unificatore («il più bel suono dopo il silenzio») – è la prova multipla della necessità del germe jazzistico a una musica in cui l’autore vinca sul genere. Indicativa o no che sia la scelta di Eicher di inaugurare la sua produzione con Mal Waldron (il disco «Free at Last» del 1969), gli autori che più avrebbero contribuito ad assimilarla a una proposta estetica sono titolari ciascuno di un proprio mondo di musicista «completo» in qualche modo suscitato dalla propria risorsa strumentistica, e in tutti la chimica del jazz influenza profondamente le forme date alle interazioni tra generi presenti nelle loro musiche. Cambiano ovviamente dispositivi, ricette e dosaggi.

Gary Burton, pioniere del vibrafono «pianistico» (suonato con quattro bacchette), è il musicista straordinariamente duttile e musicale che nei suoi quartetti con chitarra (prima vetrina per Metheny) dà profondità a suggestioni ritmiche e sonore pop e infonde leggerezza sognante ai suoi duetti impressionistici con Chick Corea e con Ralph Towner. Eberhard Weber, portavoce dell’ECM-sound più sradicato dal jazz, combina la pervasività sonora del suo particolare contrabbasso elettro-acustico (da lui stesso progettato) a scritture anche di ampie campate in cui l’intersezione di jazz, pop e sintassi classica raggiunge vette di organicità inarrivabili. 

Ralph Towner, diviso tra la militanza nel gruppo Oregon (che solo per motivi di contratto non entra in ECM che nel 1983) e una rappresentanza di punta dell’ECM-sound da poeta assoluto della chitarra classica e della dodici corde, è per molti aspetti il musicista che più trascende i generi senza evocarne alcuno; neppure la musica spagnola alla quale la chitarra classica sarebbe legata a doppio filo. Il suo camerismo è apolide e così soggettivamente connotato da «inventare» l’allusività della pagina più inquieta come della più lirica. 

Jan Garbarek, unico leader sassofonista della specie, è un musicista «completo» perché subordina il suo modo di improvvisare alla sua idea di musica e non viceversa; al sax tenore come al soprano coltiva suono tagliente e note lunghe per sonorizzare, più che commentare, composizioni originali ispirate da un folklore che può rimandare alla sua Norvegia come al deserto; melodie spesso dalle orditure semplici, ma sempre immerse in suggestive atmosfere.

In questi quattro musicisti dalle personalità tanto spiccate quanto poliedriche è possibile riconoscere le fonti più individuali dell’ECM-sound più tipico. Ma il mondo ECM è stato il punto d’appoggio almeno transitorio anche per musicisti di altrettanta caratura autoriale che ne sarebbero meno rappresentativi. Per ragioni diverse, tanto Paul Motian quanto Kenny Wheeler, per esempio, lo avrebbero dotato di varianti ad esso indubbiamente meno omogenee – pur senza contraddirlo, come il quartetto Old and New Dreams di Don Cherry o l’Art Ensemble of Chicago. Bill Frisell, al contrario, sarebbe da aggiungere a quella cerchia se in ECM non avesse mosso soltanto i primi passi: la radice statunitense di tanti referenti che si annodano nella sua musica è ubiqua almeno quanto il folklorismo di Garbarek. Frisell potrebbe essere il musicista più originale e più completo che abbiamo oggi a disposizione.

Con tutte altre sembianze, può averlo eguagliato giusto Carla Bley nei suoi abbondanti sessant’anni di carriera. Carla Bley è la figura di musicista totale che più avrebbe stratificato sul jazz la sua creatività: dai temi «patafisici» destinati al free degli anni Sessanta alle formazioni massimaliste dirette dal 1989 in poi al finale trio cameristico, il suo solo assetto musicale eventualmente vicino all’ECM-sound, senza escludere un’opera tanto «espressionista» («A Genuine Tong Funeral»), né gli arrangiamenti Spanish scritti per la Liberation Music Orchestra di Charlie Haden, né qualche memorabile escursione nel rock più scuro. Il respiro «oltre il jazz» di Carla Bley è un fatto che resiste alle comuni spiegazioni: è spettacolarità che si fa evocazione, humour che porta con sé il sentimento, paradossi che esasperano la prensilità della musica. È l’apoteosi dell’originalità più connessa al principio del piacere.

Ciò che la musica cerca è in ogni caso l’originalità tout court, non importa di che specie. L’area del jazz dai confini sfumati si popola progressivamente di nuove presenze, e persino gli studenti dei nostri conservatori tendono ormai a preferirla al cosiddetto jazz, ma lo spazio che il suo non statuto stilistico e sintattico offrirebbe all’originalità non è affatto automatico riempirlo. Il problema si pone soprattutto perché è l’originalità la cifra che porta il musicista a creare atmosfere intense, prensili per propria specifica densità di segni. Le musiche che si assomigliano, anche se al corrente del più aggiornato sincretismo formale, di solito si ricordano se ascoltate in qualche contesto: film, trasmissioni televisive o radiofoniche, e così via.

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