Il 2024 è l’anno degli ottanta per John Surman e il nostro eroe lo affronta alla sua maniera, a sassofono alto, con il vento in faccia, senza riposare sugli allori di una formidabile carriera che dura da più di mezzo secolo. Certo, poi verranno anche celebrazioni e attestati, però prima di tutto c’è un disco nuovo, per la ECM, e un trio di sangue giovane che lo accompagnerà in tour visitando tutta l’Europa. Il disco è un inno all’immaginazione e all’interplay, come spiega il titolo: «Words Unspoken», parole non dette. «Mi ha sempre affascinato come lo stesso pezzo di musica possa suscitare nella gente immagini e messaggi tanto diversi», puntualizza nelle note il venerabile John, «a seconda dell’immaginazione di ciascuno. Capita spesso che la varietà sia proprio notevole, e ciononostante storie e impressioni hanno un senso preciso per chi le prova, per chi le coglie così. Questo spiega una parte del titolo che ho scelto; ma c’è anche un’altra parte, e si riferisce a come volevo che questo gruppo si accostasse alla musica. Io mi sono limitato a portare delle idee ai musicisti, senza stare a discutere chi avrebbe suonato cosa e che forma precisa avrebbero preso i brani. I vari elementi avremmo cercato di combinarli in studio, ascoltandoci l’un l’altro e reagendo di conseguenza».
È un sogno ricorrente, non solo nel mondo jazz, questo dell’ascolto reciproco e della musica che prende forma anche e soprattutto per sintonia e affinità tra chi suona. Il bello di «Words Unspoken» è che questo accade davvero, lungo i dieci brani di un album felice e riuscito come pochi. Non è solo il mood che avvince, un morbido clima di pensieri liquidi con misurati guizzi a increspare le acque, è proprio lo scambio di ruoli tra i musicisti che con naturalezza suonano e tacciono, alzano la voce e la abbassano, si appartano, fanno posto. C’è un brano in cui tutto ciò è evidente, il terzo in scaletta, Graviola, e comunica l’idea che Surman è davvero riuscito nel suo intento di una registrazione creativa, di una fioritura «sul posto». Il vibrafono di Rob Waring inizia con una frase ripetuta, il soprano vi si adagia con sinuosa delicatezza e poi è come se un caleidoscopio girasse, Surman va in sottofondo e Waring si trova a dialogare con Rob Luft, il chitarrista, che sale con bella mano pulita a riempire il discorso di suoni luminosi. Poi il sax torna in primo piano, per affogare infine in un mare di dolci rumori. Questo avvicendarsi di musicisti al proscenio, queste mescole di timbri sempre differenti sono una costante di «Words Unspoken» e fanno la sua bellezza. Merito soprattutto del leader, che firma tutti i brani ma non ha problemi di ego e sa mettersi da parte, acquattarsi se non proprio assentarsi; come in Onich Ceilidh, dove il suo soprano inizia la narrazione con l’elastico sostegno di vibrafono, chitarra e percussioni e poi svanisce un po’ per volta, mentre i tamburi di Thomas Stronen segnano il paesaggio e poi il vibrafono di Waring, e la chitarra che allude. Surman tace e ascolta, per tornare verso la fine con altri ricami, questa volta di clarinetto basso.
Onich Ceilidh ci porta in Scozia, dato che Onich è un villaggio nella contea di Inverness-shire, sulla sponda orientale del Loch Linnhe, su su verso nord, e Ceilidh è un riferimento a un’usanza tipica di quei luoghi, incontri di gente che il più delle volte finiscono in ballo e musica. Surman non è scozzese bensì inglese del sudovest, ma da anni vive in Norvegia e musicalmente è cittadino del mondo; gli sbalzi geografici per lui sono la normalità. Metterei comunque l’accento del brano non tanto sul luogo, Onich, ma sulla festa, sul ballo, su Ceilidh. In vita sua Surman ha suonato di tutto ma viene solitamente associato a una certa musica profonda e cerebrale, oltre che alle tempeste sonore suscitate dal suo baritono. Qui sa stupirci con brani giocosi e leggeri, e più ancora di Onich Ceilidh vale il fantastico inizio di Pebble Dance, ebbra danza con suggestioni mediorientali. John al soprano sembra un invasato muezzin che chiama alla preghiera, come sciogliendo voti per la riuscita del progetto; e se non il vento magico dei musicisti di Jajouka, colgo nel suo incedere l’eco di una lontana world music che ancora non si chiamava così, ai tempi del Paul Winter Consort e degli Oregon.
L’ultimo album di Surman prima di questo era stato «Invisible Threads», 2018, in trio, con il pianista brasiliano Nelson Ayres e il vibrafonista Rob Waring. Nonostante le note di presentazione tendano a farne un antesignano di «Words Unspoken», io rilevo piuttosto le differenze, una certa rigidità formale che lo tiene a distanza dal felice interplay del nuovo album. Vero però che ricorre la presenza di Waring, maestro di una famiglia di strumenti che, a memoria, non ha mai appassionato troppo Surman. Il tipo però è speciale, con una lunghissima carriera fatta più di collaborazioni che di performances come leader, e una grande varietà di situazioni tra acustico ed elettronico. Ha una dozzina d’anni meno di Surman ed è un immigrato in Norvegia anch’egli, dalla natia New York. Norvegese puro è invece Thomas Strønen, batterista cinquantunenne, nome ricorrente da decenni nei cataloghi Rune Grammofon ed ECM. È uno dei musicisti più in vista del jazz nordico, prestigioso sideman e anche compositore, leader, con quattro album a suo nome; l’ultimo in ordine di tempo è «Bayou», 2021, ECM, con Ayumi Tanaka e Marthe Lea.
Il quarto della formazione ma non certo l’ultimo, anzi, volendo, la stella più brillante, è il chitarrista Rob Luft, un ventinovenne dei sobborghi londinesi già da anni sotto i riflettori degli appassionati jazz. Nel 2020 ha esordito per la ECM con «Lost Ships», dove il duo con la cantante albanese Elina Duni si amplia per includere Fred Thomas e Matthieu Michel. Nei mesi scorsi ha pubblicato per la Edition il suo terzo album da leader, «Dahab Days», ispirato da un soggiorno in una remota regione d’Egitto durante il periodo della pandemia. In quel disco suona in quintetto, misurandosi con sax e tastiere, ma la sua chitarra fluente, dalle tinte volentieri acquarellate, ha una grande libertà di confronto. In «Words Unspoken» Luft è una presenza assidua, con vari magic moments; in Graviola la voce tersa delle sue corde può ricordare il McLaughlin giovanissimo, quello di «Extrapolation», mentre il passo circospetto e misterioso di Belay That non può non rimandare al più classico Bill Frisell. Prima di queste sedute in studio, il chitarrista aveva già incontrato Surman in uno dei tanti seminari con i giovani in cui il Nostro è generosamente impegnato. È un impegno che attira e gratifica Surman, in un Paese come la Norvegia che sta investendo molto nell’educazione musicale, con borse di studio e sostegno economico per poter suonare dal vivo, anche all’estero.
«Words Unspoken» è il trentanovesimo album, se conto bene, della discografia di Surman come leader; e se alla lista dovessimo aggiungere collaborazioni e cammei, si arriverebbe facilmente a quota cento. Ma a importare non è la quantità, tutto sommato relativa; le prime registrazioni documentate risalgono al 1967, con Mike Westbrook e con Alexis Korner, quindi al tirar delle somme non sarebbero nemmeno due dischi per anno. Ciò che colpisce è piuttosto la qualità, la capacità di mantenersi ad alto livello nel corso del tempo. C’è un John Surman notevole già subito, con il secondo «How Many Clouds Can You See?» (1970) e poi il doppio epocale «The Trio», e del 1972 è quella meraviglia di «Westering Home», profetica avventura one-man band con ampio spiegamento di strumenti. Gli Ottanta regalano almeno due capolavori con «The Amazing Adventures of Simon Simon», 1981, in duo con Jack DeJohnette, e «Paul Bley Quartet», 1988, con Bley, Frisell e Paul Motian. I Novanta sono anche più generosi, con l’imbarazzo giusto della scelta: i «solo» di «The Road to St. Ives» e «A Biography of Rev. Absalom Dawe», il quartetto deluxe di «Adventure Playground» (con Bley, Gary Peacock, Tony Oxley), il confronto/scontro con un ricco ensemble fiatistico di «The Brass Project», in collaborazione con quel John Warren con cui da giovane Surman aveva già prodotto un disco speciale come «Tales of the Algonquin». Il decennio finisce con il fantastico live di «Invisible Nature», in duo con il consuocero Jack DeJohnette (ancora di recente Surman lo ricordava come una delle pagine che più gli sono care); ma anche nel nuovo millennio fioriscono opere memorabili come «Brewster’s Rooster», in quartetto (John Abercrombie, Drew Gress, DeJohnette), e «Songs About This and That», con la moglie Karin Krog, in cui, ecco, compare un vibrafono, quello di Ivar Kolve.
«Words Unspoken» è solo l’ultima perla di questa lunga collana. Quando Surman compì settant’anni, il critico musicale Duncan Heining preparò per il sito ufficiale una biografia ragionata che si chiudeva con uno sguardo al futuro. Qualunque cosa potesse accadere, scriveva, due cose erano certe: «La musica rifletterà le meraviglie del jazz e la ricca, fertile immaginazione del musicista». La biografia c’è ancora e quelle parole continuano ad avere un senso, ora che altri dieci anni e un album così speciale si sono aggiunti a una storia tanto favolosa.