Le registrazioni che compongono questo set, «Maximum Swing», sono importanti per diversi motivi. Senza dubbio, la musica qui contenuta costituisce alcune delle esecuzioni di Wes Montgomery più estese, elastiche e swinganti mai registrate. La maggior parte di queste esecuzioni è stata originariamente trasmessa alla radio da Alan Grant per il suo programma sulla WABC-FM «Portraits in Jazz». Questo materiale risale all’incirca allo stesso periodo in cui Wes incise il suo leggendario album «Smokin’ at the Half Note», anche se i brani di «Maximum Swing» sono un po’ diversi in quanto sentiamo Wes fare cose che non ha mai fatto altrove, in particolare per quanto riguarda la lunghezza dei suoi assolo, superiore a quella di tutte le sue altre incisioni, anche quelle dal vivo. «Maximum Swing» coglie bene la vivacità dell’esperienza di ascoltare Wes dal vivo in quel periodo.
Un’altra ragione per cui è importante per noi di Resonance pubblicare oggi questo album è che il materiale è rimasto online per molti anni ed stato piratato senza scrupoli su edizioni per le quali la famiglia di Wes non ha mai ricevuto un solo centesimo. Volevamo pubblicare ufficialmente queste registrazioni con una confezione dignitosa e informativa e fare in modo che la famiglia di Wes venisse finalmente ricompensata per questa musica. Per raggiungere l’obiettivo sono stato molto orgoglioso di lavorare con un vecchio amico, Richard Seidel, che mi ha proposto questo progetto nel maggio del 2018. Grazie al nostro rapporto, sapevamo di avere la possibilità di lavorare insieme a questa pubblicazione con la famiglia Montgomery. Così facendo, abbiamo trasformato, come si dice, l’acqua in vino. L’entusiasmo di Richard per questo progetto era contagioso, ma in realtà ci è bastato ascoltare la musica per capire quanto fosse unica e speciale. È una categoria a sé stante rispetto a tutta la musica prodotta da Wes. Quella dell’Half Note è veramente magia in bottiglia.
RON CARTER
Quando Wes Montgomery arrivò a New York, la maggior parte dei musicisti conosceva già il suo nome. Aveva inciso alcuni dischi con Sam Jones al basso e altri con il suo trio d’organo o con i suoi fratelli, dischi che avevano avuto un certo successo. Quando entrai in studio con lui non conoscevo bene i suoi dischi, ma tutti già parlavano di questo tipo di Indianapolis che suonava con il pollice.
Il mio primo contatto personale con Wes avvenne in occasione della seduta prodotta da Orrin Keepnews per il disco poi intitolato «So Much Guitar!» C’erano anche Hank Jones al piano, Lex Humphries alla batteria e Ray Barretto alle percussioni. All’epoca non frequentavo molto Wes. Stavo tirando su una famiglia, proprio come lui, lavoravo da freelance come meglio potevo, e in più Wes era molto timido. Si stava ancora abituando al consenso generale, che si meritava tutto, quindi non avevamo una vita sociale al di fuori dello studio di registrazione. La mia prima esibizione pubblica con lui fu quando sostituii Paul Chambers nel live all’Half Note, lo stesso che è riprodotto su questo album. Paul non era disponibile perché ammalato, così ricevetti una telefonata da Orrin Keepnews per fare una diretta radiofonica dall’Half Note, presentata da Alan Grant, in cui Wes Montgomery era accompagnato dal trio di Wynton Kelly. Accettai, e feci tre serate con loro. Se ben ricordo, divisi quella settimana con Larry Ridley che, come Wes, è di Indianapolis.
Wes era pieno di grandi idee. Aveva una chiara concezione dello sviluppo di un assolo, con un inizio, uno svolgimento e una fine. E quando terminava il suo assolo, gli ascoltatori sapevano che era finito davvero. Quando arrivai a New York, trombettisti e sassofonisti facevano assolo di un’ora ciascuno, e la gente non capiva che avevano finito se non quando quelli mettevano giù lo strumento. Wes, invece, possedeva il senso innato di come costruire un assolo, da capo a fondo. Era una dote che ammiravo. Fu la prima volta che venni in contatto con qualcuno che aveva il pieno controllo della struttura del suo assolo in rapporto agli ascoltatori.
Ciò che distingueva Wes era, prima di tutto, il suono che riusciva a estrarre dal suo strumento, diverso da quello di chiunque altro. Poi l’uso di accordi alternati, mentre sviluppava il suo assolo. Infilava II-V dappertutto, basati sì sui giri armonici dei brani, ma che funzionavano bene nello svolgimento del suo assolo. La terza cosa è che aveva un bel repertorio. Non si preoccupava di dover suonare per forza brani originali. Conosceva una grande quantità di standard. Sceglieva sempre quelli che poteva suonare alla grande perché li conosceva a menadito. Ammiravo anche questo.
La musica che suonavamo all’Half Note e che adesso è riportata in questo album veniva trasmessa in diretta alla radio. Non avevamo molto tempo per provare. Ricordo che non c’erano leggii e cercavo di capire come fare a tenere sott’occhio gli spartiti dei brani che non conoscevo, ma anche così era una bella sensazione il ritrovarsi sul palco assieme al grande Jimmy Cobb, al favoloso Wynton Kelly e a quel chitarrista straordinario, Wes Montgomery. Sapevo da un pezzo chi fosse Jimmy; anzi, sapevo bene chi erano tutti quanti. Li conoscevo dai dischi e avevo avuto contatti occasionali con loro nel corso di varie serate e di sedute discografiche, ma ritrovarmi sullo stesso palco con tutti loro e suonarci assieme dal vivo era una cosa straordinaria. Avrebbero potuto chiamare chissà chi, per sostituire Paul Chambers, ma scelsero proprio me. E nessuno della band ebbe di che lamentarsi.
I proprietari dell’Half Note si chiamavano Canterino. Madre, padre e una figlia che oggi fa la cantante. Offrivano la cena ai musicisti. Davano una buona paga, si accertavano che il pianoforte fosse accordato e mantenevano il locale a meraviglia. Erano contenti che ci fosse gente che andava da loro ad ascoltare la musica. Sapevano bene chi erano i veri appassionati. La gente sosteneva il club e i Canterino erano ben consapevoli del sostegno che ricevevano dal loro pubblico.
All’epoca c’erano molti importanti jazz club a New York. C’era il Birdland, sulla vecchia 52nd Street, l’Hickory House in cui suonavano Billy Taylor, Marian e Jimmy McPartland, i tipi del Dixieland tra la Seventh Avenue e la 52nd Street. C’erano così tanti posti in cui suonare, a New York, da non poter credere che un club come l’Half Note, giù sul molo –- quasi tra Spring Street e Hudson Square – avesse questo flusso costante di talenti e di pubblico che veniva a sentire i gruppi che tiravano fino alle due del mattino. Questo la dice lunga sull’atmosfera del locale, sulla proprietà e sulla gestione, in mano a persone davvero molto gentili. L’allestimento era insolito. Il palco divideva in due la sala: da un lato il bancone del bar, rivolto verso la metà del locale che ospitava chi voleva bere, dall’altro la sala da pranzo per chi voleva cenare. Il pubblico del bar vedeva solo le spalle dei musicisti, a causa di quella singolare disposizione. I clienti della sala da pranzo (che pagavano di più) vedevano i musicisti in faccia, perché la band era rivolta verso la sala da pranzo. Data l’aria che si respirava intorno alla band, il suono era abbastanza valido. Tuttavia, a volte mi infastidivo perché la batteria sovrastava tutto; riempiva l’intera sala e non c’era molto spazio per chiunque di noi non fosse in grado di gestire il volume del suo strumento. Ma era una sala bella e calda, un bel posto per suonare.
L’esperienza di suonare con Wes all’Half Note è stata molto diversa da quella che ho vissuto in seguito, quando ho registrato con Wes in lavori prodotti da Creed Taylor. Per quei dischi, Wes andava da Creed nel suo ufficio in centro e gli presentava un’idea. Poi sceglievano i brani da registrare, che si trattasse di Tequila, A Day in the Life, Down Here on the Ground o qualsiasi altro pezzo. Dopo di che, si mettevano d’accordo sui tempi di base. Non si tenevano prove, in quel momento. C’erano solo Wes e Creed. Forse l’arrangiatore, Don Sebesky, faceva un salto lì per suonare qualcosa al pianoforte, in modo da far loro capire cosa avese in testa. Più tardi, in studio, Don sarebbe arrivato con i suoi abbozzi da presentare a Wes e alla ritmica, spesso formata da me, Herbie Hancock e Grady Tate.
Imparavamo le melodie lì, su due piedi, visto che nessuno ci aveva detto prima cosa avremmo dovuto suonare, anche se magari certi brani li conoscevamo già grazie alla nostra attività di freelance. Poi facevamo una prima lettura per assicurarci di essere d’accordo sui giri armonici e sulla struttura. Gli abbozzi di Don erano proprio abbozzi, nel senso letterale del termine. Creed e Don ci lasciavano suonare qualsiasi cosa ci venisse in mente. Portavamo il brano dove volevamo noi, il che non sempre corrispondeva agli arrangiamenti originali di Don. Spesso capitava che Don prendesse in considerazione le nostre scelte rispetto ai suoi abbozzi e poi costruisse la sua sovraincisione con l’orchestra d’archi sulla base degli arrangiamenti che avevamo elaborato noi. E per me suonare con Wes all’Half Note rappresentava un approccio diverso. Dal vivo suonavamo nel modo in cui Wes aveva sempre suonato e la musica era più straight-ahead, meno arrangiata.
Wynton Kelly era fantastico. Non sbagliava mai un accordo e suonava ottimi voicings. Inoltre ascoltava i miei suggerimenti, ovvero ciò che mi veniva in mente per rendere diverse le sue linee melodiche, i suoi voicings e i suoi assolo legandoli alla mia scelta di note, alla mia intonazione, al mio beat, alle mie linee di basso da aggiungere alla sua coerenza nel modo di organizzare gli accordi o alla gamma sonora del pianoforte. Wynton aveva uno stile tutto suo, e noialtri abbiamo lavorato sodo per trovare l’essenza di quello stile, così da poterci inserire al meglio.
Wes era sempre una persona piacevole con cui sedersi a parlare. Mi dispiace di non aver avuto con lui una vita sociale più intensa, ma entrambi cercavamo di lavorare il più possibile. All’epoca io suonavo con Miles, e Wes stava iniziando a diventare popolarissimo sulla scena internazionale. Quando ricevi certe chiamate, ovviamente non smetti mai di rispondere. E poi lui era molto timido. Non sapeva come dire di no, quindi dava l’impressione di non smettere mai di lavorare.
Per come la vedo io, è un peccato che Wes non abbia avuto la possibilità di svilupparsi ulteriormente. Ovvio, è perché è morto così giovane. Dava l’impressione di essere arrivato a New York senza sapere di preciso cosa fare. Credo che non abbia avuto la possibilità di evolversi secondo i suoi ritmi perché è morto giovane ed era sempre così impegnato. Non si è mai preso una pausa. Era un chitarrista famoso, un pezzo grosso. Faceva un sacco di cose. Sarebbe stato bello che avesse potuto permettersi di fermarsi un attimo e dire: «Adesso non suono per un mese. A che punto sono con questa storia della chitarra? Certo, sto suonando eccome. Ma a cosa serve? Che effetto fa?».
Io la vedo così perché, oltre a essere un bassista, sono uno che si fa delle domande. «Come vanno le cose? Come mai stasera vanno meglio di ieri sera? Cosa non dovrei fare – o cosa dovrei fare di più -– per migliorare la mia presenza in questa band o nella musica che sto suonando adesso?»
Wes ha avuto – e ha tuttora – un’enorme influenza sulla scena musicale, soprattutto tra i chitarristi. Non c’è chitarrista al mondo che non provi a fare ciò che ha fatto Wes. Non importa dove vivano, se suonino l’ukulele o qualsiasi altra cosa. Ogni chitarrista cerca di fare come Wes, cerca di suonare block chords e tutto quel che faceva lui. Mi dispiace solo che sia uscito di scena così presto, che non abbia potuto prendersela calma e riflettere su ciò che stava facendo e su ciò che avrebbe potuto fare, senza sentirsi in obbligo di uscire di casa per l’ennesimo ingaggio o l’ennesimo disco.
HERBIE HANCOCK
La prima volta che sentii parlare di Wes Montgomery mi venne la smania di vedere come suonava questo tizio di cui tutti andavano matti. Così scoprii che se ne andavano matti, era a ragion veduta. Wes era incredibile. Ho fatto molte esperienze con lui: ci ho inciso alcuni dischi assieme, l’ho sentito spesso alla radio sulle stazioni jazz e l’ho visto suonare le cose magiche che suonava e che tutti, da lì in avanti, hanno preso in prestito da lui. Wes ha cambiato il volto della chitarra elettrica nel jazz.
Aveva un bellissimo modo di suonare a seconda dei contesti, che si trattasse di piccoli gruppi, quartetti o quintetti, o di cose su larga scala con accompagnamento orchestrale. Wes ha inciso svariati dischi con grandi ensemble ed è stato in grado di colmare il divario tra due diverse visioni di ciò che può essere considerato jazz. Una era più legata al lato pop del jazz e l’altra al jazz più hardcore. Sapeva esattamente cosa fare a seconda del contesto. E pensare che non aveva mai studiato lo strumento! Era un autodidatta. Non leggeva la musica ma aveva un orecchio straordinario, dita straordinarie e una passione straordinaria.
Wes era noto per la capacità di suonare le sue improvvisazioni e/o le sue melodie in ottave. Una tecnica che, a quanto so, ha inventato lui: prima del suo arrivo, nessuno sapeva farlo. Molti chitarristi hanno cercato di copiare ciò che faceva lui, ma la maggior parte ha gettato la spugna. George Benson è riuscito a ottenere qualcosa di simile. Conoscendo George, direbbe di sicuro che Wes è stato un mentore per lui e per il suo stile. In effetti, quando Benson si affacciò per la prima volta sulla scena jazzistica suonando con Jack McDuff, l’organista, tutti dicevano: «Oh, questo ragazzino» – all’epoca era giovanissimo – «questo ragazzino è il nuovo Wes Montgomery». Alle mie orecchie sembrava proprio che George seguisse le orme di Wes Montgomery, ma credo che gli altri chitarristi abbiano rinunciato ben presto all’idea di suonare a ottave come lo faceva Wes. Lo ritenevano impossibile. Forse ci hanno pure provato, chissà. Anzi, sono sicuro che tutti ci hanno provato ma si sono arresi.
Non ho frequentato molto Wes, fuori dal lavoro. Quando lo vedevo nei club, di solito era perché si esibiva lì, e soltanto durante le registrazioni che ho fatto con lui negli studi di Rudy Van Gelder ho avuto modo di trascorrere del tempo con lui. Poca roba, perché eravamo più concentrati sulla musica che dovevamo fare questo o quel giorno, ma Wes era una persona molto affabile, piena di quella passione umana che ci si aspetta da chi suona con tanta passione artistica. Certi musicisti possono essere difficili, o il loro ego può essere d’intralcio. Spesso e volentieri il problema è proprio l’ego. Ma Wes non era così. Aveva una grande umiltà e un grande rispetto per tutti gli altri musicisti. Non l’ho mai visto litigare o confrontarsi a muso duro con qualcuno. E questo è un altro motivo per cui i musicisti lo rispettavano così tanto. Non solo per il suo talento di straordinario chitarrista, ma anche come essere umano. Non cercava mai di mettere in ombra i colleghi. Suonava semplicemente così come’era fatto, ed era sempre fantastico.
Quando Creed Taylor ha iniziato a produrre Wes, è avvenuto un cambiamento nello stile di quest’ultimo, almeno su disco. Nei dischi di Creed, molto spesso c’era uno sfondo orchestrale. Non era una cosa frequente, prima di allora, nelle registrazioni jazz. Forse era già capitato in precedenza, ma si trattava di occasioni isolate e molto distanti tra loro, mentre le orchestrazioni sui dischi di Creed erano moderne per quell’epoca, gli anni Sessanta e Settanta. Nell’approccio di Creed c’era un legame con la musica pop. Non sto parlando di rock and roll, ma più della musica pop che discendeva dal Great American Songbook, e alcune delle canzoni sui dischi prodotti da Creed provenivano proprio dal Great American Songbook, lo stile degli anni Venti e Trenta e dei primi anni Quaranta. Erano temi davvero belli, anche se c’era una piccola controversia tra i musicisti sull’approccio di Creed. Molti jazzisti erano molto protettivi nei confronti dello stile nato sulla scia di Charlie Parker e Dizzy Gillespie, una musica molto veloce e stupefacente dal punto di vista tecnico. Il bop era una musica straordinaria in sé, ma anche avanzata dal punto di vista tecnico, mentre i dischi fatti da Creed con Wes erano considerati da molti jazzisti come musica easy listening.
Ma il pubblico e/o i musicisti di jazz cambiarono rapidamente le impressioni negative dei primi momenti perché dovettero arrendersi all’evitenza. Da quanto era ben fatta, quella musica, nessuno poteva contrastarla più di tanto. Molti musicisti non solo cominciarono ad ammirare quell’approccio ma vollero anche fare loro stessi dischi del genere. Quando abbiamo registrato i dischi per Creed, abbiamo sempre iniziato con Wes che suonava dal vivo in studio con la ritmica: l’orchestra veniva sovraincisa in un secondo momento. La prassi è sempre stata questa. All’epoca, Creed ingaggiava di solito una sezione ritmica che era considerata di riferimento, un po’ come quelle che usavano alla Blue Note. Spesso c’erano Ron Carter al contrabbasso e Grady Tate alla batteria. All’inizio non ero io la prima scelta, ma alla fine ho suonato su tutti o su gran parte di cinque tra i dischi fatti da Wes per Creed. Quando suonava nei club e in concerto, Wes sembrava tornare a ciò che suonava all’inizio, cioè un jazz più straight-ahead, come si può sentire in queste registrazioni. Wynton Kelly era il partner perfetto per Wes. Wes e Wynton suonavano il blues jazzistico alla grande. Il risultato era sì funky, ma in equilibrio tra il lato tecnico del jazz e l’armonizzazione sofisticata. Wes ha registrato diversi dischi con Wynton Kelly. Si trovavano benissimo assieme, erano praticamente due anime in un nocciolo. Erano entrambi più vecchi di me. Non di molto, ma di qualche anno sì. Wynton veniva dall’epoca precedente alla mia. Il mio approccio armonico al jazz era un po’ più avanzato rispetto allo stile di Wynton, più simile a quello influenzato da Bill Evans, e quindi nei dischi orchestrali che Wes ha fatto con Creed Taylor, ho suonato in uno stile probabilmente più vicino quel che richiedevano gli arrangiamenti di Don Sebesky. Io e Wynton avevamo due stili diversi. Non erano opposti l’uno all’altro, ma certamente diversi. Il mio si basava su un’impostazione funky legata all’essere nato in un quartiere nero di Chicago, che è una vera e propria città del blues, e su armonie derivate da compositori come Maurice Ravel, che ascoltavo molto, e da altri compositori moderni come Stravinsky. Wynton non aveva questa inclinazione. Il suo stile era in un certo senso più concreto, più terreno; e, forse, io a questa concretezza sono arrivato dopo.
Quando Wes arrivò sulla scena divenne il centro dell’attenzione di tutti, e di lui si è continuato a parlare per anni perché il suo stile strumentale si modificava a seconda dei contesti, man mano che la struttura armonica e il focus delle registrazioni jazz cominciavano a espandersi nell’area pop pur mantenendo le loro radici jazzistiche, il che era una novità a quel tempo. I dischi che Wes incise in questo modo furono davvero pionieristici in tal senso, e i musicisti jazz li accolsero con entusiasmo perché aprivano loro una porta attraverso la quale potevano entrare in contatto con un pubblico più vasto, cui vendere più dischi e con cui riuscire a comunicare.
Come musicisti, all’epoca eravamo più interessati alla musica che ai soldi. Se ti preoccupavi dei soldi, non eri un musicista di jazz. Non erano i soldi che ci stavano a cuore bensì la musica, ed era la musica ciò che volevamo condividere. Del resto, questa è la vera essenza del jazz, e Wes Montgomery ne è parte integrante.
Bill Frisell
Per me, parlare di Wes Montgomery ha ancora un’importanza smisurata, travolgente.
In quarta elementare ho iniziato a suonare il clarinetto nel corso di musica della scuola. Era il 1959 o giù di lì. Poco dopo, comunque, già mi ero messo in testa di volere una chitarra. Nell’estate del 1965 avevo messo da parte abbastanza soldi per comprarmene una elettrica. Avevo da poco visto i Beatles in tv all’Ed Sullivan Show, e poi i Rolling Stones, e da allora iniziai ad appassionarmi al blues.
Nell’autunno del 1967 suonavo la chitarra per lo più a orecchio e soltanto con i miei amici, cercando di suonare brani di blues e tutto ciò che andava di moda. A scuola suonavo il clarinetto nell’orchestra di fiati. Al liceo organizzavano un talent show per tutti gli studenti e delle ragazze stavano preparando un numero di ballo su Bumpin’ on Sunset di Wes Montgomery, dall’album «Tequila». Fu il direttore dell’orchestra di fiati a darmi il disco. Mi conosceva come clarinettista, ma sapeva anche che suonavo la chitarra in un gruppo. Mi disse: «Pensi di riuscire a farcela a imparare questo brano?». Così le prime note che sentii suonare da Wes furono proprio quelle di Bumpin’ on Sunset.
Mi portai il disco a casa. Per fortuna non mi aveva dato «Smokin’ at the Half Note»! Fu il momento cruciale della mia esistenza. Fu il collegamento tra ciò che potevo capire e ciò in cui stavo per entrare e che avrei passato il resto della vita a cercare di capire. Accadde al momento giusto. Stringi stringi, capii che potevo cavarmela con Bumpin’ on Sunset e la suonai allo show della scuola con i miei amici. Fu un grande successo. È così che sono diventato un fan di Wes. Poi ho iniziato a comprare i suoi album e ad andare in visibilio.
Sono cresciuto a Denver, e nel 1968 Wes doveva suonare all’anfiteatro di Red Rocks con lo show itinerante del festival di Newport, organizzato da George Wein. Erano previsti Cannonball Adderley, Dionne Warwick, Gary Burton, Thelonious Monk e Wes. Sapevo chi fosse Dionne Warwick, ma degli altri non avevo mai sentito parlare. Mio padre ci aveva comprato i biglietti proprio perché c’era Wes, che però purtroppo morì poche settimane prima di quel concerto e che quindi non ho mai potuto vedere dal vivo.
Wes ha un’enorme importanza per me. Credo che non sia la prima persona che viene in mente nell’ascoltare la musica che suono ora, ma io penso sempre a lui. E poi, ascoltando queste registrazioni, vado fuori di testa perché si tratta di un mistero è infinito. Mi chiedo sempre come sia possibile che Wes abbia fatto ciò che ha fatto.
La musica di Wes è talmente accessibile. Ha tanta gioia, ma anche tanta profondità. È come se avesse inventato tutto lui. È questo che mi ispira: la maniera in cui ha preso tutto ciò che lo circondava per costruirsi il suo mondo. Poi è riuscito a mostrarcelo con chiarezza sconvolgente. Un qualcosa che non si può descrivere, ma di cui si percepisce la meraviglia. Queste registrazioni, a riascoltarle, sono piene di spontaneità, di estasi. È come se lo stesso Wes facesse autentiche scoperte nel momento in cui suona. Certo, dietro a tutto questo ci sono innumerevoli ore e notti passate a suonare, ma è chiaro che allo stesso tempo c’è una ricerca costante. Non c’è niente di prevedibile. È lui, in una frazione di secondo. È inconfondibile, ed è così vivo. Per me, Wes è il modello delle mie aspirazioni, anche se è impossibile arrivarci. Si può solo guardarlo dal basso.
Oggi sono disponibili molti più suoi video rispetto a venti o trent’anni fa. Solo l’idea di poterlo vedere suscita reazioni del tipo: «Eh? Ma queste sono cose impossibili». Il lato tecnico è straordinario, ma alla fine non è quello che emerge maggiormente. Per me a trasparire sono più lo spirito, la gioia. Quando ero bambino, mio fratello suonava la tromba e aveva un disco di Miles Davis, «Miles Davis at Carnegie Hall», quello del 1961 con Gil Evans. È il primo vero disco di jazz che ho ascoltato in vita mia. La sezione ritmica era composta da Wynton Kelly, Paul Chambers e Jimmy Cobb. Ascoltando il sound di quella sezione ritmica del 1961 e poi di questa con Wes nel 1965, mi accorgo che c’è qualcosa che mi è entrato nel sangue, qualcosa che mi riporta ai miei primi giorni nella musica.
Il lascito jazzistico di Wes è grande. Ne sono affascinato. Ho letto libri su di lui. Non l’ho mai visto suonare e non l’ho mai incontrato. Il mio insegnante di chitarra ai tempi del liceo, Dale Bruning, conosceva Wes, e l’unica cosa che mi ha detto su di lui è che era una gran bella persona. Credo che questo filtri dalla sua musica. Era così umile e dava l’impressione di essere un tipo incredibilmente gentile. Si capisce da come suona. Wes ha un modo spontaneo e compositivo di suonare che non c’entra molto con la velocità e con la tecnica. È un modo intuitivo di strutturare le cose. Qualche anno fa, la Verve ha pubblicato un cofanetto con l’integrale delle sedute di registrazione di Wes per la Verve, comprese le versioni scartate. Ce n’era una di Bumpin’ on Sunset, registrata prima di quella poi pubblicata sul disco, che era l’ultima take. Ascoltandole entrambe, mi sono reso conto che il successo riscosso da quel brano era fondamentalmente legato alla linea melodica improvvisata da Wes. Una creazione istantanea, una melodia che gli era venuta in mente in quel preciso istante. Nella take rimasta inedita c’era una melodia completamente diversa! Ascoltando queste registrazioni, come Impressions o Four on Six, si sentono queste strutture più ampie che sono così uniche.
Per quanto riguarda il suo lascito, ovvero quel livello di musicalità, Wes ha alzato l’asticella parecchio in alto per il resto di noi. Ma ha anche dato l’esempio, creando praticamente da solo un intero universo musicale. È questo che devo sempre ricordare a me stesso. Non posso fare ciò che ha fatto lui. Devo trovare la mia strada. Wes ha preso quel che sapeva fare e lo ha trasformato nel suo mondo. Credo che tutti dobbiamo fare così. Queste registrazioni sono un vero tesoro. Danno un’idea di come l’immaginazione di Wes, la sua creatività, fosse sempre al massimo. Ci affezioniamo alle sue registrazioni perché queste abbiamo, e perché sono diventate qualcosa di tangibile. Ma poi, come in questo caso, quando si ascoltano altre registrazioni degli stessi brani in contesti diversi, ci si rende conto che l’incisione che avevamo consacrato come testo sacro era solo un momento della vita di Wes. La verità è che per tutta la vita Wes non ha fatto altro che andare avanti.
Mi ispira molto, nella mia musica, cercare di progredire in questo modo o tentare di infilarmi in una situazione nella quale tu stesso ignori cosa stia per succedere, ma dove hai comunque il modo di portare il pubblico con te. O, quantomeno, di sperare che il pubblico sia disposto a seguirti. È come se tu mostrassi loro qualcosa che ti dà gioia. Amare ciò che si sta facendo, e poi mostrarlo a qualcun altro, non significa certo svendersi. E secondo me Wes ha sempre fatto così.
MIKE STERN
«Smokin’ at the Half Note»? È diverso. È clamoroso. Bellissimo. Wes era il migliore, il più grande. E conoscendo «Smokin’ at the Half Note», è stato incredibile ascoltare la musica di questo nuovo album. È tutto fantastico.
Wes era un autentico compositore; quando suonava, componeva istantaneamente, quasi come se stesse creando su due piedi un arrangiamento per big band. I suoi assolo erano così ben organizzati. Suonava linee melodiche, poi passava alle ottave e infine agli accordi e si agganciava sempre al batterista. Il suo tempo era incredibile, ovviamente. Nessuno suonava come lui. E faceva tutto con il pollice! Era incredibile, solo il suono e il calore che proveniva dal suo modo di suonare, la musica dentro di lui. Veniva fuori dalla chitarra. Incredibile!
Anche prima di iniziare a suonare la chitarra, avevo già sentito parlare di Wes. Avevo ascoltato un paio di suoi dischi che mia madre metteva spesso. Ho iniziato a suonare la chitarra a dodici anni. Ascoltavo Wes, certo, ma ero abituato a sentirlo sui dischi che metteva mia madre. Era bella musica, ma non era come dire: «Ehi, senti che tipo». Negli anni Sessanta era piuttosto popolare. Quando ancora non pensavo da chitarrista, la sua musica non mi sconvolgeva, ma faceva un bell’effetto. Il guaio è che non sapevo nemmeno cosa fosse. Una volta che ho iniziato a suonare la chitarra e mi sono concentrato maggiormente sul bebop e sul jazz, mi è saltato subito agli occhi che il tipo giusto era lui. Uno di quelli giusti, in ogni caso; uno dei pochissimi che amavo senza condizioni.
Ciò che davvero mi stupiva – non l’ho mai visto dal vivo – era il fatto che suonasse con il pollice e che sapesse tirar fuori tutta quella grande musica. Nei suoi assolo tutto era organizzatissimo da un punto di vista compositivo, eppure continuava a essere spontaneo. Wes suonava sempre in modo diverso. Aveva un suo stile. Sapeva di tutto e di più. Ogni sera se ne usciva con cose diverse. E anche se usava ottave, accordi e linee melodiche, era incredibile quanto potesse spingersi avanti. Ogni sera suonava nuovo. Questi dischi lo dimostrano. È ovvio che aveva un repertorio immenso, ma suonava comunque come se stesse improvvisando una cosa da big band.
Mi piace l’idea che in queste registrazioni si possa sentire Wes suonare a lungo. Non ha potuto farlo nei suoi dischi in studio e nemmeno in quelli dal vivo, come l’originale «Smokin’ at the Half Note». È incredibile quanto riesca a mantenere vivo l’interesse di chi ascolta. Non molla mai la presa. Ogni assolo è così. E, non si sa come, riesce a mantenere questa tensione anche su certe ballads. Forse non sunoandoci sopra così a lungo, ma quando si trattava di blues o di swingare su qualcosa, che so, su All the Things You Are, Wesnon faceva prigionieri. E in questo disco è micidiale. È pazzesco quanto suoni bene in queste registrazioni. Assolo davvero straordinari. Un buon assolo può avere tante ispirazioni, ma l’importante è che tu stia raccontando una storia. Wes lo ha fatto a modo suo e in maniera fantastica. Si capisce che era influenzato dai pianisti. Qui c’è Wynton Kelly. Wes si faceva influenzare dagli accordi usati dai pianisti. Quando arriva allo shout chorus riesce a ottenere la reazione della sezione ritmica. Lo faceva spesso e lo fa anche in questi dischi. Forse l’aveva imparato ai tempi in cui suonava nella big band di Lionel Hampton. Quando Wynton, Paul Chambers e Jimmy lasciarono Miles, formarono il Wynton Kelly Trio. Era il massimo, a quei tempi. Erano il miglior trio. Dei veri maestri del groove. E Wes assieme al trio di Wynton era una combinazione naturale.
Wes mi ha influenzato molto come chitarrista. Anche se può sembrare che siamo distanti, perché io sono arrivato all’inizio degli anni Sessanta. Quando avevo dodici anni c’erano Jimi Hendrix e un sacco di altre cose interessanti sulla chitarra. Ma per me Wes era già lì, da qualche parte. Ricordo di essermi portato in camera i dischi di Wes e di aver cercato di imparare a suonare quella musica proprio come stavo imparando il blues dai dischi di B.B. King, di rock e di Jimi Hendrix. Mi sono perso subito. Era più complicato di tutto ciò che avevo suonato prima. Era musica complicata. Quando suonavo sopra i dischi di Wes, era incredibile la quantità di musica che c’era là dentro, roba davvero difficile da suonare con un plettro. Ed è rimasta difficile. È stata difficile anche dopo che mi sono avvicinato al jazz. Oggi è ancora difficile il solo tentare di riprodurre un assolo di Wes.
Per quanto riguarda la chitarra jazz, Wes è uno dei più grandi, da sempre e per sempre, un pilastro di quel genere. L’ha inventata lui, praticamente… beh, sì, certo non l’ha inventata lui, ma c’è Charlie Christian e c’è lui. Wes Montgomery è stato uno dei più grandi musicisti jazz di ogni tempo. Ho sentito dire, da gente che lo conosceva, che amava suonare con altri musicisti. Ho anche sentito dire che gli piaceva sempre suonare con gli altri chitarristi, invitandoli a salire sul palco, e che probabilmente li faceva a fettine. Ma era soltanto una persona dolce, un autentico tesoro, e l’unica cosa che gli interessava era suonare. Questo nuovo album diventerà sicuramente uno dei miei preferiti perché è pieno di roba. Adoro i dischi dal vivo come questo, perché fanno sempre saltar fuori cose che non si riescono a catturare in studio. I dischi in studio di Wes sono fantastici, ma questo fa davvero fuoco e fiamme ed è con quel grande trio.
MARCUS MILLER
parla di Wynton Kelly
Wynton Kelly era cugino di primo grado di mio padre, e di conseguenza mio cugino di secondo grado. Era figlio della sorella di mio nonno, quindi lui e mio padre sono cresciuti insieme. Erano entrambi pianisti. In realtà, il padre di mio padre era un pastore della African Orthodox Episcopal Church, legata alla comunità degli immigrati dalle Indie Occidentali e fondata da Marcus Garvey. Mio nonno era un collega di Marcus Garvey. Marcus fondò la chiesa e mio nonno ne divenne uno dei vescovi. Mio padre suonava alla funzione della domenica, e la domenica successiva toccava a Wynton: i due si alternavano all’organo.
Mio padre mi ha raccontato che alla fine Wynton cominciò a saltare le sue domeniche, perché il sabato sera era impegnato in qualche ingaggio. Chiamava mio padre e gli diceva: «Ehi, Bill, non è che puoi sostituirmi?» Così, quando io avevo sette o otto anni, di tanto in tanto Wynton si presentava alle funzioni della domenica. Dopo di che, l’intera famiglia scendeva giù nel seminterrato e passavamo tutti assieme il resto della giornata, mangiando e suonando. Era una famiglia molto musicale. A parte Wynton che faceva il pianista di mestiere, le sorelle di mio padre cantavano tutte. Un’altra cugina, Clarice Callender, è stata una splendida cantante di jazz. La musica rappresentava una parte importante della famiglia.
Anche mio nonno suonava il pianoforte, oltre a fare il vescovo. In aggiunta alla musica per le funzioni religiose, sapeva suonare benissimo anche il calypso. La famiglia era originaria di Trinidad e la generazione di mio nonno fu quella che si trasferì a Brooklyn. Tutto si svolgeva da quelle parti. La chiesa era a Brooklyn e la maggior parte della famiglia viveva a Brooklyn. Per molto tempo è girata voce che Wynton fosse originario della Giamaica, nelle Indie Occidentali, ma la verità è che era nato a Brooklyn. Credo che sua madre fosse di Trinidad.
In giovane età non sapevo molto del jazz. Sapevo solo che Wynton era un pianista professionista e che di tanto in tanto si presentava in chiesa. Mi mettevo accanto a lui al pianoforte e aggiungevo i miei acuti vocali da bambino di sette anni a qualsiasi cosa lui suonasse. Era sempre un grande. Mia madre mi raccontava che Wynton veniva a prendermi, da bambino, e mi riportava a casa più tardi (troppo tardi per i gusti di mia madre). Non ricordo dove mi portava, ero troppo piccolo. Così mi sono inventato delle storie su chi mi portava a trovare. Ho deciso che mi portò a conoscere Wes Montgomery e Paul Chambers e Jimmy Cobb e forse Miles.
Ho frequentato la High School of Music and Art, che fa parte della LaGuardia School. Si trovava a Harlem, tra la 135th West e Convent Avenue. Anche mio padre ha frequentato quella scuola, e pure Wynton per qualche tempo. Non so se Wynton l’avesse terminata o no, ma di sicuro aveva studiato lì, quindi mi sentivo orgoglioso di far parte di quella tradizione. Al liceo ho conosciuto Kenny Washington. Kenny è un batterista che ha suonato con tutti. Insegna jazz alla Juilliard. Era mio compagno di classe al liceo. Mi ha incoraggiato lui a iniziare ad appassionarmi al jazz. Kenny viveva fuori mano, a Staten Island. Mi disse che suo padre teneva un laboratorio di jazz la domenica pomeriggio, da quelle parti, così iniziai a prendere l’autobus, il treno, il traghetto e un altro autobus la domenica pomeriggio per andare a trovare Kenny e partecipare al laboratorio di suo padre. E poi andavo a casa di Kenny, dove lui aveva un’incredibile collezione di dischi, circa tremila, iniziata ed ereditata da suo padre. Kenny era un tipo pazzesco perché conosceva tutta la storia del jazz e mi raccontava aneddoti su tutti i musicisti di jazz. Fu lui a farmi passare da Louis Armstrong a Chick Corea. Mi raccontò tutta la storia del jazz in un paio di settimane. Un giorno gli dissi: «Sai, ho un cugino che forse era un musicista di jazz. Si chiamava Wynton Kelly. Ne hai mai sentito parlare?». Kenny rimase letteralmente a bocca aperta e disse: «Wynton è tuo cugino?». Risposi: «Beh, sì, è il cugino di mio padre». Così lui andò a frugare tra i dischi e tirò fuori tutta una serie di album con Wynton. Me li fece ascoltare tutti quanti e poi me li registrò su cassetta. Dovevo avere suppergiù quattordici anni.
A quel punto – eravamo nel 1973 – Wynton era già morto da due anni. Così mi portai a casa tutte quelle registrazioni e le studiai, le studiai senza sosta. Mi sentivo molto legato a lui e mi innamorai della sua musica. Mi innamorai del suo modo di suonare, del suo swing. Sono diventato un esperto di Wynton Kelly. Mi sentivo un po’ come Ravi Coltrane. Suo padre è morto quando lui era giovanissimo, ma Ravi ha continuato a studiarne la musica anche se John non c’era più. Ha molta, molta familiarità con tutto ciò che suo padre aveva fatto. Per me è stata la stessa cosa con Wynton Kelly. Ho seguito la sua carriera e ho amato la sua musica. Quindi, ecco il legame.
Dopo essere diventato un musicista professionista, ho conosciuto Sam Jones. Suonavo con un violinista fusion di nome Michał Urbaniak. Michał teneva concerti per tutta New York. Suonavamo nei club. Ogni tanto andavamo nel New Jersey, dall’altra parte del fiume, e suonavamo pure lì. Un giorno, per l’appunto, stavamo lavorando in un jazz club del New Jersey. Durante l’ultimo set, nel locale era rimasta una sola persona, seduta ad ascoltare la musica. Io guardavo quell’unico tizio in platea e mi dicevo: «Ehi, ma quello è Sam Jones». Alla fine del set andai al suo tavolo e gli chiesi: «Mi scusi, ma lei è Sam Jones?». Lui mi rispose di sì. Ero così felice di conoscerlo, perché tra i miei sacri testi c’era una serie di dischi incisi da Wes Montgomery con musicisti del calibro di Nat Adderley, Harold Land, Milt Jackson. In quei dischi suonava spessissimo Sam Jones. Anche Wynton ha suonato qua e là in quei dischi. Rimasi lì a sedere per un’altra ora e mezza, facendo fare tardi a Sam Jones, parlando di Wes Montgomery e di com’era suonarci assieme. Gli facevo domande su ogni registrazione. Sam Sack, il disco Riverside su cui Jones ha suonato con Wes e Milt Jackson, era una delle mie preferite.
Fu buffo, perché Sam mi rispose: «Sai, all’epoca ero giovane e non sapevo bene cosa stessi facendo». E io dissi: «Beh, forse non lo sapevi con precisione, ma in un modo o mell’altro dovevi rendertene conto, visto che suonavi roba incredibile e c’era sempre un grande swing». Poi Sam mi disse che gli piaceva quel che facevo. Il miglior complimento che uno come lui – Sam Jones o Ron Carter – potesse farmi era: «Non mi piace il basso elettrico, ma mi piace come lo suoni tu», quindi fu una situazione devvero gratificante.
Anche mia zia Grace, la sorella di mio padre, che è morta un paio di anni fa, era un’esperta di Wynton Kelly. Era solita tenere conferenze su Wynton al Lincoln Center durante il loro corso di studi sul jazz. Di tanto in tanto organizzava omaggi a Wynton. Una volta mi invitò alla Saint Peter’s Church su Lexington Avenue, la chiesa che organizzava funzioni jazz. Uno degli omaggi a Wynton si tenne proprio alla Saint Peter’s. Ebbi modo di partecipare e di suonare con Jimmy Cobb. Un altro mio sogno. Raccontai a Jimmy della mia parentela con Wynton e lui mi disse di essere stato molto intimo di mio cugino. Mi raccontò un sacco di cose su Wynton. Mi disse che Wynton soffriva di epilessia e che morì proprio per questo, in conseguenza di un attacco epilettico a Toronto nel 1971. Credo che Jimmy fosse lì con lui in quel momento.
Dopo aver suonato con Miles in quell’incredibile gruppo con Jimmy Cobb, Paul Chambers e Wynton, quando Miles passò alla sua fase successiva, Wynton, Jimmy e Paul si misero in proprio. Suonavano spesso all’Half Note e a volte facevano da spalla a Wes Montgomery, quindi Jimmy e Wynton erano praticamente culo e camicia. Jimmy voleva un gran bene a Wynton. Fu bello entrare in contatto con Jimmy e sentirlo parlare di mio cugino, che io veneravo ma con il quale non avevo mai avuto la possibilità di parlare di musica, poiché era morto prima che io diventassi professionista.
Jimmy mi disse che all’epoca, tra i pianisti o i musicisti jazz, Wynton non era considerato quanto avrebbe dovuto perché quando suonava, teneva il mignolo destro, e forse l’anulare, a mezz’aria. Credo che questa non sia una tecnica corretta. Secondo Jimmy non c’era alcuna differenza, perché Wynton suonava come un matto. Ma, a suo dire, per qualche motivo questo non era visto di buon occhio.
Tutti quelli con cui ho parlato di Wynton Kelly mi hanno detto che non c’era accompagnatore migliore di lui. Ha suonato con Dinah Washington per molti anni. Mi sono sentito raccontare che il modo in cui Wynton accompagnava era come quello di un sarto che ti cuce un vestito su misura e che l’effetto era quello di indossare un abito che ti cade alla perfezione. Era così che ci si sentiva quando c’era Wynton ad accompagnarti. Ovviamente tutti parlano di quanto fosse gioioso il suo modo di suonare. Il suo modo di swingare era davvero gioioso. Mi sento legato a lui anche perché aveva un ampio background r&b. Ha suonato in alcuni dischi di successo, e forse è lì che ha imparato molto sul groove, e questo si sente nel suo stile pianistico. Trovava sempre il modo di inserire il blues. E ha sempre trovato il modo di renderlo swingante, ma sul serio. Wynton era mancino, quindi accompagnava, anche quando usciva in assolo, con la mano più forte. Era sordo da un orecchio, proprio come me, quindi mi sento molto legato a lui. Probabilmente do sui nervi alla gente perché ricordo sempre che Wynton era mio cugino. È solo che mi piaceva moltissimo il suo modo di suonare.
Quando suono il basso, in particolare quando faccio swing straight-ahead, lo suono come se al pianoforte ci fosse Wynton. E anche quando suono il piano, perché di tanto in tanto vado a suonare il piano con qualche gruppo e riesco a cavarmela molto bene nello stile di Wynton. La gente ne è entusiasta. Alcuni dei tipi con cui mi sono ritrovato a suonare dicono: «Ehi, Marcus suona proprio come Wynton». Naturalmente lo faccio a livello molto elementare, ma riesco a ottenere qualcosa del suo feeling. Ma, a un livello più profondo, sono molto preso dall’idea di accompagnare altri musicisti e di poter fornire loro proprio ciò di cui hanno bisogno. Questo funziona nel r&b, ma anche nel jazz. È sempre stato molto importante, per me: trovare sempre un modo per inserire lo swing, ovunque sia possibile farlo, e cercare di farlo con gusto. In questo, Wynton era un genio.
A ventun anni mi chiamarono a suonare con Miles. Fu Miles in persona a telefonarmi. Era stato Bill Evans, il sassofonista, a raccomandarmi a Miles come bassista della band con cui lo stesso Miles voleva tornare sulla scena perché era il 1981 e lui si era preso una lunga pausa. Potete immaginare cosa significasse quella chiamata per chiunque la riceveva. Ero supereccitato. Dopo la prima prova andai a trovare Miles a casa sua e lui mi chiese di far parte della sua band. Ero gasatissimo. Salii in macchina per tornare a casa e accesi la radio proprio mentre passavano Someday My Prince Will Come di Miles, con Wynton che suonava una fantastica parte di pianoforte. Fu come se il cugino Wynton mi stesse dicendo: «OK, questa è la tua occasione. Non mandare tutto a puttane». Non dimenticherò mai quel momento.
La prima volta che incontrai Miles gli dissi: «Sono il cugino di Wynton», e lui rispose: «Ah, bene». Più avanti, quando ebbi preso un po’ più di confidenza con Miles, gli chiesi di parlarmi di Wynton, e lui mi disse soltanto: «Aveva un tocco straordinario». L’unica cosa di cui Miles era disposto a parlare ea proposito di Wynton era il suo tocco al pianoforte. Non mi ero mai soffermato sul tocco dei pianisti, ma è proprio così che ti appropri dello strumento. L’unico modo di agire sulle note del pianoforte è quello in cui si premono i tasti, e Wynton sapeva assolutamente come fare, possedeva un certo tocco sul pianoforte che era assai personale.
Ho sempre cercato di capire come si distinguono i pianisti l’uno dall’altro. Suonano tutti lo stesso identico strumento. Non è uno strumento che si portano dietro. Devono suonare il pianoforte che si trovano davanti. Ma i grandi riescono comunque a identificarsi e credo che per Wynton sia stato il suo modo di swingare. Aveva un bellissimo equilibrio nello swing e nel tocco. Doveva essere questo a distinguerlo.
Che cosa ci ha lasciato Wynton? Io mi sento molto gratificato dalla recente generazione di pianisti, che parla di lui molto più di quanto ne parlasse la generazione precedente. È come se Wynton Kelly stesse avendo un rinascimento. I pianisti lo stanno studiando sul serio. Ne ho avuti un paio nella mia band, in particolare Kris Bowers, un pianista straordinario che negli ultimi anni si è dedicato alle colonne sonore e anche alla regia di documentari. Kris mi diceva sempre quanto fosse importante Wynton Kelly per lui, e tanti altri pianisti di oggi mi dicono quanto sia importante Wynton per loro. È buffa, questa cosa: impossibile sapere come il futuro si comporterà con ciò che hai fatto. Certi pianisti erano davvero al top della scena jazzistica, nella loro epoca; e poi, all’improvviso, passano vent’anni e nessuno ne parla più. A volte succede il contrario. Tipi che non erano certo considerati i leader del movimento jazzistico in un certo periodo, d’un tratto vengono riscoperti dai giovani musicisti parecchi anni dopo. Wynton era conosciuto soprattutto come sideman, ma molti ragazzi di oggi lo hanno appena scoperto e cercano di inserire un po’ delle sue caratteristiche nel loro modo di suonare. È davvero gratificante vedere tutto questo. Kris ha swing, Benny Green ha swing. Cyrus Chestnut ha swing.
Il gruppo con Wes Montgomery, Wynton, Paul Chambers e Jimmy Cobb era semplicemente straordinario, e il loro disco «Smokin’ at the Half Note» è semplicemente incredibile. Quel disco è rimasto sul mio giradischi per un paio d’anni. Certo, ascoltavo altri dischi, ma l’album dell’Half Note non se n’è mai andato dal piatto del mio giradischi. Quando volevo sentire altri dischi li mettevo sopra a quello dell’Half Note, che era un po’ come il mio libro di testo: quei quattro suonavano così bene! Si completavano a vicenda. Si capiva che era un gruppo stabile, non una cosa raccogliticcia.
Finalmente sono riuscito a vedere una foto dell’Half Note e sono rimasto scioccato nel vedere quanto fosse piccolo il locale. A quanto pare, nel mezzo c’era il bancone del bar e il palco della band era dietro il bar in una piccola alcova del muro, una cosa pazzesca. I musicisti non potevano guardare in avanti. Dovevano guardarsi di traverso! Ma la musica era semplicemente incredibile. Four on Six – quattro dita su sei corde, questo significa – è incredibile.
Molti pianisti, durante il loro assolo, pensano: «Bene, ora faccio una sezione swing e poi passo ad altro. Dopo di che, torno alla sezione swing». Il punto di forza di Wes e Wynton stava nel fatto che, qualsiasi cosa decidessero di fare, lo swing era sempre presente. E Jimmy Cobb era il batterista perfetto per quel gruppo, perché teneva tutto insieme e si assicurava di spingere la musica in avanti. Naturalmente, Paul Chambers era il mio eroe al contrabbasso. Lui e Ron Carter sono i miei eroi. Mi piacerebbe davvero avere la possibilità di frequentarli. Ma sono felice che ci siano queste registrazioni.
Una volta ho ascoltato alcune registrazioni di Miles Davis, alcune false partenze di Freddie Freeloader, che mi hanno entusiasmato. Suonavano 16 battute e Miles fischiava per fermare il nastro perché voleva che l’ultimo accordo del giro spiccasse un po’ più chiaramente, o qualcosa del genere. Ma puoi sentire benissimo Wynton che inizia il suo assolo tre o quattro volte, e in ogni occasione è semplicemente micidiale. E pensi: «Certo che se fossero arrivati in fondo alla take, questo è un assolo che avrei imparato a memoria nota per nota», perché tutti conosciamo l’assolo di Wynton su Freddie Freeloader nota per nota.
Credo che Wynton avrebbe avuto forti difficoltà quando la musica ha iniziato a cambiare, soprattutto con gli strumenti elettrici. Secondo me avrebbe pensato: «Ma che roba è questa? Troppo casino». A quel che so, quando Trane stava arrivando alla fine del suo sodalizio con Miles, si sentì chiedere da Miles di fare un ultimo tour. Trane accettò, anche se a quanto pare aveva già un piede fuori dalla porta. Erano in Europa e Trane suovava assolo chilometrici. Stava entrando nella sua nuova fase, e ne veniva fuori una musica pazzesca. Se ascoltate il recente box «Miles Davis & John Coltrane: The Final Tour», sentite bene la reazione del pubblico europeo di fronte a un Coltrane che suona molti più chorus di quelli suonati dagli altri. È lì che esplora i suoi famosi «sheets of sound», come li definì un critico, passando in rassegna tutte le scale del mondo e cercando di metterci dentro un milione di idee in una volta sola. A un certo punto si sente Wynton che si ferma durante l’assolo di Trane, come per dire: «OK, ho capito. Credo di non sapere più come accompagnarti», e poi riprende un po’ più avanti. Alla fine fu proprio Wynton a dire a Miles: «Ehi, ‘sto tipo non può suonare così a lungo, vedi di farlo smettere». Così Miles andò da Trane e gli chiese: «Ma perché suoni così tanto?” e Trane rispose: «Sai, Miles, ho la testa piena di idee e mi arrivano tutte nello stesso momento. È come un imbuto che le lascia passare tutte, queste idee, e non riesco a trovare il modo di fermarmi». E Miles: «Beh, prova a toglierti il sassofono dalla bocca».
Wynton era un autentico prodotto degli anni Sessanta, un’epoca che ha attraversato con gioia. Un sacco di musicisti suonavano con tutt’altre emozioni verso la fine degli anni Sessanta, ma nel modo di suonare di Wynton c’erano sempre un’elasticità e un senso di speranza ai quali mi sento molto legato.
[traduzione e adattamento di Luca Conti]