Che New York sia la capitale mondiale del jazz, e da parecchi decenni a questa parte, è un fatto decisamente assodato. Da New Orleans in poi, passando per Chicago, Kansas City e con leggere propaggini californiane, il jazz infine ha trovato nella Big Apple la sua dimora incontestabile, fino a ora definitiva. Ogni cultore, studioso o semplicemente appassionato sa bene che in questa grande metropoli nascono, si sviluppano e a volte muoiono tutte le direzioni stilistiche più importanti della storia del jazz moderno e contemporaneo. Un altro aspetto di grande rilievo è quello che riguarda la tradizione dei musical di Broadway, da sempre fucina delle attività dei famosi songwriters: coloro i quali hanno forgiato ciò che comunemente viene definito come «The Great American Songbook», l’interminabile «albo d’oro» delle canzoni che tutti i jazzisti conoscono e amano affrontare con i più diversi arrangiamenti. Newyorkesi erano George Gershwin, Jerome Kern, Richard Rodgers, Lorenz Hart o lo sarebbero ben presto diventati, come Irving Berlin, Johnny Mercer e Cole Porter, giusto per nominarne alcuni fra i più importanti. Lo stesso avviene tutt’oggi per ogni musicista che desideri farsi un nome, imparare qualcosa in più, raffinare il proprio stile o semplicemente confrontarsi con gli altri in una piacevole competizione, come succede ogni sera nella miriade di locali che costellano l’intera area della città, da Manhattan a Brooklyn, dal Bronx al Queens, fino a «trasbordare» di là dal fiume Hudson, nello stato del New Jersey. Di conseguenza camminare la sera per le strade di New York è come attraversare uno sconfinato festival di jazz per tutti i gusti: oltre ai grandi locali totalmente devoti a questa musica, anche i ristoranti, i bar, persino gli atri di certi alberghi offrono ai clienti dei concerti, non solo di giovani, ma anche di musicisti affermati. Ricordo personalmente di aver visto suonare una sera di anni fa, in un chiassoso ristorante del centro, di solito avulso a qualsivoglia performance dal vivo, un trio composto da Joe Locke, Lew Soloff e François Moutin: musicisti di gran classe, che però facevano fatica a farsi ascoltare. Tutt’oggi al Cellar Dog (che un tempo si chiamava Fat Cat) del Greenwich Village i concerti si svolgono in quella che è una grande sala di biliardi, ping pong e giochi vari: il palco è proprio lì, un po’ scostato e i giocatori ci fanno poco caso. Ma New York è così: impertinente e calorosa, cinica e allo stesso tempo emozionante, rispettosa e indifferente. Eppure indispensabile per chi ama certa musica: non teme paragoni con nessun’altra città al mondo. L’arrivo della pandemia, però, è stato come un tornado silenzioso che ha fatto le sue vittime e ha lasciato segni imperituri. Alcuni locali di alto valore e storici, come il 55 Bar e il Jazz Standard, luoghi diversissimi ma vitali, di fama acclarata, hanno purtroppo chiuso i battenti per sempre. In seguito altri ne sono nati, ma dovranno faticare a lungo per acquisire lo charme di certi club blasonati. Al 55 Bar si poteva ascoltare Uri Caine seduti accanto a Cecil Taylor (che amava molto frequentare quel posto e, da accanito fumatore, andava periodicamente fuori per farsi una sigaretta), mentre al Jazz Standard ci si poteva intrattenere amabilmente con Michael Cuscuna, noto produttore, o con Bruce Lundvall, direttore della Blue Note, e nemmeno loro due oggi sono più fra noi. Il tempo passa, lascia le sue tracce e queste vengono ricoperte nello spazio di uno schiocco di dita. Una cosa che sorprende e s’impara ben presto a New York è che la vernice nuova non viene passata scrostando prima quella vecchia, bensì spennellandoci sopra. Da sempre è così, sia realmente sia metaforicamente. Comunque si diceva degli anni del Covid: andiamo a vedere da vicino come è cambiato lo scenario dei jazz club subito dopo la fine della pandemia, ad uso e consumo di chi voglia visitare la città o per chi la ricorda com’era d’antan. Innanzi tutto c’è da dire che, una volta finita l’emergenza, il ritorno del pubblico è stato massiccio, ed è aumentato sempre più: oggi nei locali più noti può essere difficile trovare posto se non lo si è prenotato con largo anticipo. I prezzi, come del resto in tutte le altre attività commerciali, sono aumentati vertiginosamente: per accedere in uno dei club importanti ormai il costo si aggira sui 40/60 dollari e anche più, cui bisogna aggiungere la consumazione obbligatoria. Diciamo che con un drink + mancia non si spendono meno di 60 dollari, che diventano 120 con la cena. Di solito i set serali sono due, a volte tre, quindi gli ingressi sono rigidamente regolati con probabili file d’attesa (estenuanti d’inverno). Lo scopo principale di questo articolo è comunque quello di verificare quali sono i posti in cui si può ascoltare il nuovo jazz, cioè dove si possono vedere in azione i musicisti emergenti o anche gli stili più sperimentali, i locali per appassionati e intenditori alla fin fine. Allora, volendo mettere da parte i club universalmente più affermati e consolidati, che sono essenzialmente quattro, il Village Vanguard, il Blue Note, il Birdland e il Dizzy’s Club del Jazz at Lincoln Center, e con essi i bar, i ristoranti o gli altri locali minori (che pur sempre meritano una visita), i luoghi «topici» per seguire da vicino le new waves jazzistiche sono cinque (e non me ne vogliano gli altri, visto che questa è una selezione del tutto personale): la Jazz Gallery, Smalls, Mezzrow, Smoke e il Roulette di Brooklyn. Volendo si potrebbe aggiungere anche il «perennemente rinato» Minton’s Playhouse di Harlem, nel senso che, a dispetto del nome leggendario che ci riporta agli anni fulgidi di Monk e del bebop, quel luogo ha cambiato gestione e proprietari talmente tante volte che si fa fatica a pensare a una sua stabilità, oltre che a una programmazione d’eccellenza. Per ora vive in un «limbo» in attesa di una sua consacrazione definitiva: una visita non nuoce certo, anche perché oltre ai vari esordienti si può respirare l’aria di un tempo e a volte assistere a qualche buona performance. Non è così, per restare a Harlem, per il Cotton Club, che del tempo che fu conserva solo il nome e nient’altro, e per il Lenox Lounge, che dopo anni faticosi è stato persino demolito di recente. E dire che lì, fino a qualche anno fa, ci si poteva sedere nel divanetto preferito da Billie Holiday, com’è capitato al sottoscritto. La legge «non scritta» di New York, oramai lo sappiamo, può essere implacabile. Tornando al presente, con i best five sopra menzionati, sarà utile cominciare con quello più rinomato e forse sui generis: Jazz Gallery. Questo club, piccolo ma molto grazioso, si trova in centro, sulla 27ma strada fra Broadway e la Fifth Avenue. Situato su due piani, di cui uno riservato solo alla reception, ai drink e a qualche evento speciale, accoglie circa un centinaio di persone, con la sala divisa a metà: tavolini riservati e sedie. Si sale al quinto piano da un ingresso piuttosto anonimo, ma all’arrivo si capisce subito che ci si trova in un luogo dove l’arte è di casa. Jazz Gallery ha due peculiarità molto importanti che lo distinguono fra tutti gli altri locali dedicati al jazz: gode di sovvenzioni statali, dal National Endowment of the Arts, dallo Stato e dal Municipio di New York; poi ha la possibilità di elargire dei grant (donazioni in denaro per incentivare la produzione creativa ai musicisti). La direzione artistica è a cura di una donna giapponese, Rio Sakairi, che si è trasferita in America più di due decenni fa. Chiediamo proprio a lei di descriverci l’attività del club.

La programmazione del Jazz Gallery si distingue per l’alta qualità artistica dei progetti e per la diversità stilistica delle proposte: jazz contemporaneo, musica d’avanguardia, giovani musicisti. E ciò avviene più o meno ogni giorno, quindi il pubblico ha la possibilità di scegliere fra un ampio ventaglio di concerti. Quando è iniziato tutto ciò?
Jazz Gallery esiste dal 1995, quindi presto festeggeremo trent’anni di attività. Il club ha la caratteristica di essere un’associazione non profit, quindi con sostegno governativo e anche di privati, ed è stata fondata da Dale Fitzgerald, che purtroppo ci ha lasciati nel 2015, dopo anni di una lunga malattia. Dale è stato un personaggio importante per la scena jazzistica di New York: il suo contributo umano e produttivo è stato fondamentale. Il nucleo del suo pensiero era quello di inquadrare il jazz in una prospettiva artistica totale, quindi non solo musicale, ma anche in riferimento alle altre arti, visive e letterarie. Io ho iniziato a lavorare lì nel 2000 e a quel tempo la situazione economica del club era molto critica, al punto che le risorse erano quasi azzerate. Mi sono adoperata in ogni modo per trovare soluzioni che potessero sostenere la nostra attività. Il jazz ha la caratteristica di essere una musica aperta a molte influenze e democratica nella sua essenza: per essere un bravo musicista devi prima di tutto essere un bravo ascoltatore, quindi lo stimolo artistico e culturale è di per sé assolutamente vitale.
I giapponesi come te hanno un culto molto ben radicato per il jazz: lo si può constatare anche dal pubblico, che qui a New York nei club è in buona parte formato da gente proveniente dalla tua patria. È stata questa anche per te la ragione del tuo interesse a lavorare in questo settore?
È vero che di solito i giapponesi sono molto appassionati di jazz, ma devo dire che per gran parte il loro interesse è rivolto al jazz più tradizionale, se vuoi moderno, ma non troppo avventuristico. Sai, quando sono arrivata a New York avevo solo diciotto anni e in realtà volevo studiare psicologia. Credo che sia stato il destino a portarmi verso il jazz: non pensavo di vedermi come direttore artistico di un club, quale ormai sono da parecchi anni a questa parte.

Jazz Gallery, caso più unico che raro a New York, elargisce periodicamente dei grants in denaro a giovani musicisti per incentivare la loro produzione. C’è anche un bravo sassofonista italiano, Nicola Caminiti, tra i vostri beneficiari. Vuoi spiegarci meglio come funziona questa attività di sostegno?
Abbiamo iniziato a elargire grants nel 2000, e tra i primi a riceverne uno ci furono Jason Moran, Dafnis Prieto, Rudresh Mahanthappa, Jason Lindner e altri. L’idea era quella di stimolare la creatività di certi musicisti dando loro la possibilità di essere più avventurosi nella produzione artistica. I soldi possono essere di grande aiuto per gli artisti di valore all’inizio della loro carriera. In questo senso non accettiamo proposte: scegliamo noi, dopo averne verificato il livello artistico. Di solito questo avviene dopo un paio di anni di loro concerti qui al club: la decisione si forma per via di una consultazione collettiva con il mio staff. Ogni grant attualmente è di diecimila dollari e il musicista può usare quei soldi nel modo che preferisce. L’importante è che poi crei una composizione, o una serie, di circa un’ora e che sia assolutamente inedita. Deve in qualche modo essere una sfida per loro: l’ideazione di nuova musica da proporre al pubblico.
Altri jazz club producono anche dischi, dal vivo e non. E Jazz Gallery?
No, non lo facciamo. Preferiamo elargire del denaro per incentivare la produzione dei musicisti. Però registriamo ogni concerto e su richiesta dell’artista ne diamo una copia. Se poi lo vogliono pubblicare, noi chiediamo solamente che sia scritto in evidenza «Live at Jazz Gallery». Nient’altro.
Come avviene la scelta dei musicisti da invitare a suonare al club?
In vari modi: a volte ci inviano dei dischi, dei video, si propongono loro stessi o magari li abbiamo già visti suonare altrove. Non c’è una regola di base.
So che qui fate anche delle attività collaterali ai concerti: ad esempio delle sedute di ascolto di dischi e di discussione con i musicisti.
Sì, lo facciamo da un paio di anni. Le sedute di ascolto si svolgono una volta alla settimana nel pomeriggio, e di solito sono piene di pubblico. La gente prova molto interesse a sentire un musicista parlare della propria musica, e anche di quella di altri, soprattutto dei maestri che hanno influenzato il loro stile. E poi si raccontano anche storie e aneddoti che stimolano la curiosità generale.
I musicisti qui si trovano come a casa loro, e si sa anche che vengono retribuiti decentemente per i concerti e il resto.
Sì, il rispetto per la musica e i musicisti è condizione primaria per noi. Il lavoro artistico va retribuito, ma è chiaro che i soldi non bastano mai, quindi oltre alle sovvenzioni pubbliche abbiamo sempre bisogno di donazioni private e degli introiti che vengono dalla membership che abbiamo istituito, alla quale si può accedere a vari livelli. Un membro, una volta iscritto, gode di varie agevolazioni: costi ridotti dei biglietti, posti riservati ai concerti e tanta altre cose. Poi per gli studenti c’è pure una membership ridotta, con la quale possono pagare appena dieci dollari per i biglietti. Tutto ciò rientra nella nostra logica di promozione culturale, che per noi è decisamente importante.

Jazz Gallery, con la guida di Rio Sakairi, sta dunque diventando sempre più il punto di riferimento dei giovani musicisti e del jazz stilisticamente più ricercato a New York. Il suo contraltare, che si è configurato nel tempo con simili peculiarità si trova di là dal ponte, a Brooklyn, e si chiama Roulette Intermedium. Il Roulette è in verità un teatro di media grandezza, ma le sue origini sono quelle del club, che un tempo si trovava nel quartiere di Soho a Manhattan. Difficoltà economiche e necessità di trovare uno spazio adeguato e stabile per gli intenti culturali del locale hanno favorito – una volta tanto – un trasloco che in breve tempo si è trasformato in una mossa vincente. Infatti il teatro-club si trova nell’area più acculturata e spettacolare di Brooklyn, quella dove risiede il grande centro polivalente della BAM (Brooklyn Academy of Music), con i suoi bellissimi teatri e spazi dove si svolgono concerti, opere teatrali, danza, film e tante altre forme di quelle che vanno sotto il nome globale di «performing arts». Un luogo così bello e attivo da fare invidia a qualsiasi altro a Manhattan, escluso ovviamente il celeberrimo Lincoln Center. Accanto alla BAM c’è anche un’imponente arena al coperto da ventimila posti inaugurata ne 2012: il Barclays Center, dove si svolgono incontri di basket, boxe e concerti pop e rock. A circa trecento metri di distanza, lungo il grande viale dell’Atlantic Avenue, il Roulette fa la sua piccola-grande figura nell’accogliere concerti di jazz contemporaneo e d’avanguardia, oltre a performance di musica classica e di ricerca sperimentale. I nostri lettori più attenti sanno bene che al Roulette si volge ormai annualmente il Vision Festival, dedicato prevalentemente al free jazz, mentre alla BAM e dintorni il Long Play Festival di musica contemporanea a cura del noto gruppo di compositori che va sotto il nome di Bang on a Can. Queste due rassegne, fiore all’occhiello dell’avanguardia musicale polivalente di New York sono puntualmente da noi seguite ogni anno. Il Roulette, oltre al Vision, è il luogo dove avvengono i concerti dei musicisti più visionari del nostro tempo. John Zorn e Henry Threadgill sono di casa con le loro straordinarie performance, e così anche Bill Frisell, Mary Halvorson, l’ensemble di Philip Glass e altri che creano le musiche più avvincenti di oggi. Un polo catalizzatore indispensabile, dunque. Oltretutto facilissimo da raggiungere in metrò da Manhattan. Allora lì, nel cuore della grande isola newyorkese, torniamo per trasferirci in alto, sulla Upper West Side, dove si trova Smoke, il club che oggi è fra i più belli e attivi per il nuovo jazz. Siamo su Broadway all’angolo con la 106th Street, in una zona tranquilla, poco affollata, decisamente insospettabile come sede di un jazz club che nei weekend prolunga le sue attività fino a notte tarda. Smoke ha passato varie vicissitudini, tra cui un incendio e la chiusura per il Covid, ma è rinato nel miglior modo possibile, cioè raddoppiando il suo spazio e abbellendo l’interno, oltre a offrire un menù di ottima qualità. Ce ne parla il suo proprietario, Paul Stache, tedesco d’origine, che con la moglie Molly Sparrow Johnson conduce le attività del club.
Smoke è noto per essere l’unico jazz club d’eccellenza in questa parte di New York, non lontana da Harlem e poco distante dalla Columbia University ma non proprio così vicina da attirarne gli studenti. Scelta avventata, però rivelatasi ben presto vincente: com’è avvenuta?
Smoke è nato nel 1999: ero giovane e un po’ folle, allora. Sai quando pensi di poter fare tutto? La passione per il jazz mi è stata trasmessa da mio padre, grande appassionato. Nato e cresciuto a Berlino, con la casa sempre piena di musica, fin da piccolo giravo con lui per i locali jazz della città. Ho visto Miles, Dizzy, tutti i grandi che venivano a suonare lì. Mi sono poi trasferito a New York nel 1992, e da allora sono sempre andato alla ricerca di un posto dove poter creare un jazz club. Avevo iniziato a lavorare proprio qui, in questo luogo, che un tempo era molto più piccolo e si chiamava Augie’s Jazz Bar. Facevo il barista. Ricordo che il primo giorno c’era Junior Cook a suonare e poi venne anche Cecil Taylor. Insomma, il posto era piccolo e finì per chiudere nel 1998. Decisi allora di fare il gran passo, di ingrandire il locale, farlo più attraente e riaprirlo l’anno dopo con mia moglie Molly, nel 1999.
Come mai lo hai chiamato Smoke?
La storia è un po’ insolita. Ai tempi di Augie uno dei clienti abituali era Paul Auster, lo scrittore. Quindi lo conoscevamo bene. Auster aveva scritto un film che si chiamava proprio Smoke, che è del 1995. Ti confesso che il personaggio principale, che nel film ha un negozio di tabacchi, è proprio modellato sulla personalità piuttosto eccentrica di Augie (nel racconto di Auster e nel film, infatti, si chiama Auggie Wren). Quindi nel riaprire il nuovo locale abbiamo deciso di rendere omaggio a Paul Auster e a Augie, chiamandolo Smoke. Sappi che all’inizio il club, l’Augie Jazz Bar, non era grande neanche un quarto di quello che è oggi. I clienti fumavano, chiacchieravano ad alta voce senza prestare attenzione al jazz e i musicisti comunque suonavano lì, nell’angolo dove oggi c’è quel tavolino. E ci venivano i grandi del jazz a suonare. In fondo l’atmosfera era piacevole e il luogo era diventato mitico. Ho voluto rispettare quella tradizione, che ormai faceva parte della storia della città.
La storia è davvero bella: dunque con Smoke inizia la tua nuova avventura nel jazz. Da allora decidi anche chi chiamare per farlo suonare qui. Come ti orienti per le scelte? Di solito questo club viene considerato come un locale devoto all’hard-bop, ma non è proprio così. Ha avuto un’evoluzione importante nel corso degli anni.
Infatti è così. Io ascolto vari stili di jazz e di conseguenza invito musicisti di tendenze diverse. L’importante è che facciano bella musica, mai di second’ordine. Non sono uno che va dietro alle etichette. Mi piace proporre della musica che sia impegnata e che possa coinvolgere l’attenzione del pubblico. Vijay Iyer, Branford Marsalis, Brad Mehldau hanno suonato qui, assieme a tanti altri. Molti giovani di talento hanno iniziato in questa sala la loro carriera.
Nel 2009 ci fu un incendio e Smoke rischiò di essere distrutto. Come hai ripreso l’attività?
È stata davvero dura anche perché c’era la crisi economica globale. Stavamo per chiudere definitivamente: per fortuna il locale è stato lambito solo in parte dalle fiamme, che provenivano dal piano di sopra. Comunque ne abbiamo approfittato per rinnovarlo e siamo riusciti a riaprirlo dopo qualche mese. Qualcosa di simile, ma più grave, è accaduto con l’arrivo della pandemia. Siamo stati costretti a chiudere per lungo tempo, abbiamo solo potuto fare dei concerti all’aperto nel periodo estivo. Ancora una volta però una coincidenza ci è venuta in aiuto: il proprietario del ristorante accanto a noi aveva deciso di chiudere e vendere il locale, così abbiamo preso l’azzardo al volo per allargarci e includere quella sala per farne un ambiente bar e d’ascolto dei concerti che avvengono nella stanza principale. In questo modo lì la gente può chiacchierare e sentire la musica senza essere di disturbo. Per fare tutto ciò abbiamo anche usufruito del contributo che lo stato dava in aiuto alle attività in crisi durante la pandemia. A pensarci ora è stata una scelta un po’ folle perché non sapevamo certo cosa sarebbe successo dopo il cCvid e quanto sarebbe durata la crisi. L’investimento in risorse economiche e umane è stato forte, ma alla fine siamo stati ripagati dal successo. Il club ha riaperto nell’autunno del 2022 e funziona anche meglio di prima.
Una scommessa riuscita. quindi. Comunque con il rifacimento e l’ingrandimento del club sono cambiate anche le regole: i prezzi sono aumentati, e per chi viene a ascoltare i due set principali c’è l’obbligo di cenare.
È vero, ma come sai i prezzi sono aumentati ovunque in città, e poi abbiamo calcolato che senza la cena non saremmo mai riusciti a ripagare le spese e il costo artistico. In compenso credo che la qualità del cibo sia superiore a molti altri posti, e corrisponde all’alta qualità dell’acustica interna e ovviamente a quella dei musicisti che sono invitati a esibirsi. Mia moglie Molly, che è anche partner economica, fa del suo meglio nel gestire la parte del ristorante e il menu. E poi in questo modo, con i due spazi attigui ma separati non cìè il rischio di sentire il disturbo degli shaker al bar o della gente che si dimentica che c’è un artista che sta suonando e chiacchiera come se nulla fosse! La scelta di separare gli spazi è stata prioritaria proprio per il grande rispetto che abbiamo per la musica. Inoltre, proprio per favorire l’afflusso di giovani e le performance di musicisti in crescita, abbiamo deciso di usare tariffe d’ingresso più flessibili per gli studenti e con musicisti esordienti in giornate speciali.
Qui a Smoke si producono anche dei dischi, che in genere sono molto ben registrati. Com’è nata questa decisione?
È una scelta che risale a circa dieci anni fa. Volevamo dare la possibilità ai musicisti di diffondere la loro musica e a noi di distribuirla. In origine abbiamo prodotto album sia in studio che dal vivo, ma da quando abbiamo riaperto dopo il covid, visto il miglioramento che c’è stato nell’acustica del locale, abbiamo deciso di incidere i concerti live, credo con degli ottimi risultati. Il nostro è sempre un «work in progress»: dobbiamo seguire i cambiamenti dettati dal tempo e spesso anticiparli. Quest’anno abbiamo festeggiato venticinque anni di attività: quando abbiamo aperto, nel 1999, si poteva fumare nei locali, ricordi? Poi, a un certo punto, la legge lo ha giustamente impedito. Così di Smoke c’era solo il nome! Avevamo paura che la gente non venisse più. Abbiamo continuato senza fumo e sempre meglio, molto meglio di prima!»

Dalla raffinatezza di Smoke e dalla quiete dell’Upper West Side scendiamo infine molto più giù, nella caotica ed eccitante scena del Greenwich Village, oggi luogo topico del jazz newyorkese quando un tempo, decenni or sono, lo era per il folk e il rock. Molti sono i locali dove si fa musica, e come si diceva, nel voler escludere da questo speciale reportage i «giganti» che si chiamano Village Vanguard e Blue Note, andiamo in quello che è ormai il club più rinomato e frequentato da giovani e da musicisti in ascesa: Smalls. A due passi dal Vanguard e a quattro dal Blue Note, Smalls, come dice la parola stessa, è piccolo quanto basta per una cinquantina di persone, o forse più, ma è grande per la quantità e qualità della musica che vi si suona. Da una porticina sulla 10th Street, quasi all’angolo con la Seventh Avenue, si scende giù in quella che un tempo doveva essere una cantina. Ci sono posti a sedere dove capita e un bar molto attivo. Manifesti messi ovunque e persino uno specchio ben posizionato accanto al pianoforte dove i clienti più distanti possono vedere le mani del pianista in azione. Non c’è dubbio che il club abbia uno charme particolare, tutto suo. La band è a contatto quasi fisico col pubblico, così si ha la sensazione di appartenere tutti alla medesima comunità. Visti anche i prezzi più ridotti rispetto agli altri locali di jazz (anche se aumentati di recente), Smalls gode di un afflusso continuo di clienti e musicisti: vi si suonano quattro set a sera, ogni santa sera, dalle 19:30 fino alle ore piccole. Nei weekend, se si rimane fino all’ultimo, all’uscita si può respirare l’aria fresca dell’alba newyorkese. Anche se a volte vengono a suonare certi personaggi famosi del jazz già storicizzato, come ad esempio George Coleman, non v’è dubbio alcuno che tutti i nomi di quelli che contano nel jazz dei nostri giorni siano passati da qui. Farne l’elenco significherebbe coprire almeno una pagina intera di questa rivista. Smalls è dunque un locale che, se non ha ancora il blasone di un Village Vanguard, ha sicuramente la possibilità effettiva di acquisirlo in futuro. Il gestore e attuale proprietario, Spike Wilner, è anche musicista, pianista di pregevole bravura, particolarmente devoto a bop e hard bop, con una speciale predilezione per Hampton Hawes. Accanto alla sua spiccata tendenza artistica, Spike è stato capace di sviluppare nel tempo un fiuto notevole per gli affari e le innovazioni fornite dalla tecnologia informatica. Infatti è stato tra i primi a fornire il live streaming dei concerti dal club e anche, fin dal 2008, a produrre una lunga serie di album incisi dal vivo. Smalls è nato nel 1994, quindi ha da poco celebrato i suoi trent’anni, e Wilner è subentrato in comproprietà dal 2001 fino a diventarne l’unico proprietario e direttore artistico nel 2019. Spike ha sempre voluto mantenere le caratteristiche di base del club: prezzi non elevati e musicisti di talento in crescita. In più anche fornendo lo spazio a periodiche jam session, proprio per favorire lo sviluppo artistico dei musicisti in apprendistato. Una logica talmente riuscita che a volte è difficile trovarvi posto all’ingresso. Per questa ragione e per la possibilità concessagli dal locale che un tempo usava come ufficio, e che si trova esattamente all’angolo opposto della Seventh Avenue, nel 2011 ha inaugurato uno spazio ancora più piccolo ma molto carino, intitolato Mezzrow con dedica al famigerato clarinettista Mezz Mezzrow, attivo molti decenni fa. Qui ci si rende conto di essere veramente in un seminterrato, con a malapena lo spazio per un pianoforte e pochi tavolini. Eppure Mezzrow ha conquistato il pubblico newyorkese, anche quello più giovane, per via della sua dimensione ancora più intima. In parte si rifà a quello che era un tempo un club leggendario della zona attorno a Union Square, il Bradley’s, dove si suonava fin a notte tarda e la gente veniva ad ascoltare i grandi musicisti, a volte solo di passaggio, in quella che era un’atmosfera magica. Mezzrow è forse la rinascita del Bradley’s in una veste nuova, ma con le medesime finalità. I pianisti lo prediligono perché si ritrovano a contatto diretto col pubblico e la gente è assorta, non disturba. Differente dal suo fratello maggiore Smalls, Mezzrow è la spiaggia nuova del jazz odierno, forte di un’atmosfera più ricercata, intima, in una città che davvero non dorme mai e ha sempre sorprese da regalare alla musica che tutti amiamo.
