Torino Jazz Festival 2022: sconfinamenti

Il festival piemontese si è svolto in varie sedi dall’ 11 al 19 giugno. Noi abbiamo seguito solo le ultime tre giornate.

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Foto gentilmente concesse dall’organizzazione del Torino Jazz Festival

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Avvolta da un caldo torrido, ormai pienamente estivo, l’edizione del decennale era rappresentata da un titolo azzeccato: “JZAZ Musica in ordine sparso”. La programmazione infatti, soprattutto nelle tre giornate conclusive concentrate nel complesso delle Officine Grandi Riparazioni, si presentava piuttosto possibilista e trasversale, orientata a presentare alcuni nomi emergenti ed esperienze internazionali provenienti dall’ambito pop-rock. La recensione che segue pertanto può portare solo uno sguardo parziale, senza riuscire a rendere giustizia al vasto palinsesto predisposto dai direttori artistici Diego Borotti e Giorgio Li Calzi.

Jan Bang, Arve Henriksen, Roberto Cecchetto, Michele Rabbia

In particolare non sono mancate le produzioni originali del festival, una delle quali ha schierato sul palco due norvegesi e due italiani per la prima volta assieme: il poeta della tromba Arve Henriksen, lo stregone delle sonorità eccentriche Jan Bang, il filosofo della chitarra Roberto Cecchetto e l’alchimista delle percussioni Michele Rabbia. Ognuno di loro non è un semplice strumentista, ma s’impone come un musicista audace e originale, propenso ai connubi e ai progetti più obliqui. Bisogna ammettere che nella loro aperta improvvisazione i due norvegesi, anche grazie agli strumenti che suonano, sono emersi come i maggiori responsabili delle direzioni da intraprendere, inventando flussi sonori, linee melodiche e trame ritmiche ben delineate, ora dense ora decantate. Impeccabili si sono rivelati i contributi di Cecchetto e di Rabbia, che hanno saputo adeguarsi perfettamente, inserendo di volta in volta sottolineature, deviazioni, controcanti, ripensamenti… Quella affrontata dai quattro apolidi poliglotti musicali ha rappresentato una particolare sponda dell’attuale libera improvvisazione, affascinante, cangiante ed avvolgente, senza preclusioni culturali.

Jason Lindberg

Jason Lindberg, un altro smaliziato manipolatore di flussi sonori tramite le sue tastiere e i suoi sintetizzatori, è stato il protagonista del concerto serale. La musica fragorosa, esplicita e di stampo fusion del suo trio Now vs Now si è avvalsa del drumming di Obed Calvaire, tonitruante sulle pelli e scintillante sui piatti, e del basso gonfio e risonante di Panagiotis Andreou. Dopo una lunga parte introduttiva a carico dei tre, compatta e ben connotata, ancora una produzione originale del festival ha previsto di integrare il trio con l’entrata in scena di tre ospiti: oltre al chitarrista Kurt Rosenwinkel, la giovane cantante e tastierista napoletana Linda Feki, affiancata dal tastierista Dario Bassolino. Pur non mancando qua e là buoni spunti personali, la proposta complessiva si è fatta via via più sfrangiata e incerta, vagando verso una sorta di singolare pop jazz. Il bis, ad opera del trio di Lindberg irrobustito dal chitarrista americano, ha rappresentato la degna conclusione del concerto, recuperando la satura consistenza iniziale ed esponendo gli scatenati assoli di chitarra e batteria.

Trixie Whitley

Nella giornata di sabato 18 si è assistito a due proposte fortemente caratterizzate, di ineludibile forza espressiva e comunicativa. Fin dal nome che porta, la trentaquattrenne cantante e polistrumentista belgo-americana Trixie Whitley sembra predestinata a diventare una stella del rock. A Torino, dove oltre a due diversi tipi di chitarra ha suonato la batteria in un episodio non determinante, la forma delle sue song è risultata ben delineata, sempre conchiusa. Decisamente notevole la sua voce che, non sempre valorizzata dall’amplificazione, si è mossa sicura e perentoria su toni drammatici, prediligendo il registro acuto. I suoi arpeggi e i suoi decisi accordi sulla chitarra, essenziali e a tratti dai sapori bluesy, sono risultati di grande efficacia. Nel concerto pomeridiano alle OGR la leader era spalleggiata dal lavoro incisivo del batterista Jeremy Guster e dalle tastiere di Daniel Mintseris, troppo rimbombanti e invasive sui toni bassi. Nel complesso la chitarrista-cantante ha dimostrato di essere un’artista di autentico spessore, capace di tramare una musica dalle strutture semplici e dirette, di sicuro impatto.

Kae Tempest

Alla Whitley ha fatto riscontro nella serata la trentasettenne londinese Kae Tempest, personaggio poliedrico ed estremo: poetessa, romanziera, producer, performer… In questa unica data italiana ha presentato tutte le song del suo ultimo album “The Line is Curve”, accompagnata dal contesto sonoro tramato dalle varie tastiere di Hinako Omori, ora ossessivo ora più articolato, ma sempre ad un volume assordante. La declamazione dei testi della Tempest, opportunamente pubblicati in un programma di sala bilingue, non ha replicato la velocità ripetitiva che caratterizza la maggior parte dei rapper, pur attenendosi alle cadenze e alle metriche peculiari del rap. Lo spettacolo della motivatissima performer non è da analizzare tanto sotto i profilo musicale, quanto per la sua greve componente socio-comunicativa; la declamazione dei suoi testi disperati con voce risoluta e la tenuta della sua dinamica presenza scenica hanno ottenuto infatti un’immediata ed entusiasta risposta da parte di un pubblico di fan.
L’eclettismo non è certo estraneo al mondo del finlandese Jimi Tenor, compositore e polistrumentista (sassofoni, flauti e tastiere), ma anche fotografo, regista, disegnatore di moda… A Torino egli era spalleggiato dalla sicura professionalità della Umo Helsinki Jazz Orchestra, attiva dal 1975 ed ora diretta da Ed Partyka, nella riproposizione del repertorio del recente cd “Terra Exotica”. Stando a quanto esposto nella presentazione sul programma del festival era lecito aspettarsi un’esperienza, non dico estrema, ma più imprevedibile, estrosa e trasversale. Certo, gli spunti tematici degli original di Tenor attingono timidamente a varie culture e la loro interpretazione ha messo in luce solisti di valore, ma tutto l’impianto della proposta si è rivelato tipicamente mainstream con tutti i suoi pregi e le sue caratteristiche: gli arrangiamenti ferrei ad incastonare gli assoli, la voce impostata e stentorea di Ed Partyka nel presentare i solisti, i corposi crescendo degli assiemi, la pronuncia strumentale dei singoli e delle sezioni… e soprattutto l’approccio affermativo e compiaciuto, privo di sregolatezze e di ironia.
Anche questa apparizione ha riscontrato un incoraggiante successo di pubblico. E questo è appunto l’aspetto più sorprendente del festival piemontese, che presentava fra l’altro prezzi d’ingresso assai contenuti: ogni concerto nella sua specificità ha richiamato un pubblico eterogeneo, di intenditori o semplicemente di curiosi, ottenendo comunque una reazione più che positiva.
Libero Farnè