To the Max: la grandezza di Massimo Urbani

Un breve percorso tra gli album registrati dal musicista romano, nell’anniversario della sua scomparsa, per tentare di metterne a fuoco la grandezza

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I trent’anni trascorsi dalla morte di Massimo Urbani risuonano in musica, come forse gli sarebbe piaciuto, grazie a «30», il disco pubblicato per l’occasione dalla «nuova» Red Records di Marco Pennisi. Si tratta della registrazione di un live inedito ripreso a Bologna nel 1982, con all’opera un quintetto che comprendeva Pietro Tonolo al sax tenore, Riccardo Zegna al pianoforte, Luciano Milanese al contrabbasso e Gianni Cazzola – cui si deve anche la preziosa messa a disposizione della registrazione – alla batteria. Della recensione del disco si è occupato sullo scorso numero, e da par suo, Giuseppe Piacentino, quindi qui non aggiungeremo altro. Ma quella misurata e prospettica lettura del disco – sicuramente uno dei migliori, nel folto gruppo di registrazioni dal vivo pubblicate in questi lunghi anni – merita di essere ripresa come spunto in due elementi che ci paiono importanti: la sottolineatura del musicista vivo nella sua musica e la presenza di un equilibrio nella sua arte. Fatti che si vorrebbero immaginare per forza di cosa sorprendenti, in accordo al senso di morte, all’alonatura tragica della storia sempre narrata, alla ribellione inane verso un presunto destino e rischiano, invece, di colpire, all’opposto, per una loro pacata normalità. In altre parole, quel che si vuole proporre/suscitare è il punto di dubbio che una certa dimensione collettiva e sociale della vicenda umana di Urbani (la stessa che ha ispirato, in modo felice, almeno nella sua coralità di scrittura, l’opera di Carola De Scipio, nei due noti libri del 1999 e del 2014) (1) abbia finito per sovrapporsi, dopo la morte, in modo eccessivo e quasi soffocante, alla sua figura e individualità musicale, compromettendo o almeno non aiutando una corretta comprensione della sua effettiva levatura artistica. Contribuendo inoltre a creare l’equivoco relativo alla presunta sufficienza con cui egli sarebbe stato considerato dalla critica e da un «sistema», quello del jazz business italiano, che gli avrebbero riservato, in fondo, un’avara tolleranza di visibilità rispetto agli effettivi meriti. Da questa severa valutazione non ha potuto salvarsi neppure il bel profilo musicologico, umano e narrativo che gli venne dedicato da un ispirato Marcello Piras e che la rivista pubblicò nel numero di ottobre del 1995 (alla cui lettura è necessario rimandare, proprio per la lucidità dell’analisi e per la vicinanza ai fatti raccontati), insieme a una raccolta di inediti in cd («Invitation», con produzione di Paolo Piangiarelli). Inoltre, è facile ancora ricordare che persino quel disco, pure essendo oggettivamente una testimonianza musicale molto interessante, in un periodo in cui la produzione postuma dal vivo del sassofonista era soltanto agli inizi e ben lungi dall’essere paragonabile all’attuale (era stato pubblicato soltanto «The Urbisaglia Concert», alla fine del 1994), venne accompagnato da una insistita polemica, tra gli appassionati, relativa alla scelta della foto di copertina quindi del tutto estrinseca. Gli anni trascorsi, per fortuna, possono permettere di ri-assumere il giusto distacco rispetto alla perdita e con ciò – anche attraverso i suoi dischi da leader, più facili da ascoltare oggi, grazie allo streaming (fa eccezione «Round About… Max With Strings») – rendere piena ragione alla sua arte, che appare oggi ancora più solida e grande, dotata di una consapevolezza molto maggiore di quanto non sia stato generalmente riconosciuto, in una certa misura anche pacificata e serena (2). La figura di Urbani ne risulterebbe così depurata da quegli aspetti di proiezione psicologica che possono aver riguardato un’intera cerchia di musicisti che in lui si riconobbe, facendone quasi l’oggetto di una involontaria (e tragica) catarsi. Per questo il terminale e la vittima di una sorta sacrificio generazionale. In realtà, l’ordine di considerazioni relativo a una raggiunta quiete esistenziale era già possibile quando Urbani era in vita. Rivedere oggi il documentario di Paolo Colangeli Massimo Urbani nella fabbrica abbandonata (3) può colpire soprattutto per questo, per il fatto di riascoltare la voce del musicista che racconta con lucida coscienza i propri problemi, esprimendo anche la perfetta cognizione di aver raggiunto un punto di massimo climax estetico, oltre il quale non poter più procedere; ma, proprio per questo, desideroso di dedicarsi serenamente alla musica e di agire il piacere della performance, il «potere» (che raccontava – un po’ ingenuamente, certo – di aver appreso da Freddie Hubbard, con cui aveva suonato a Nizza nel 1980), donato dalla «consapevolezza di essere sinceri», perché, come sottolineava: «oramai è stato fatto di tutto […] a livello puramente estetico, non è che ci sono tante innovazioni da fare, tutto sta a fa’ della buona musica […] io adesso la musica la vedo così». Dunque, alla ricerca di un’«avanguardia» che non fosse soltanto nelle forme perché, come amava dire, «ho avuto sempre una visione sentimentale della vita». Certamente, riascoltare oggi «Jazz a confronto 13», il disco di debutto registrato per la Horo a poco più di diciassette anni (nel novembre 1974), con Calvin Hill (contrabbasso) e Nestor Astarita (batteria) rimane tuttora un’esperienza di estremo impatto. Il trio, come ampiamente noto, nasceva dal gruppo di Enrico Rava che in pari tempo registrava «Jazz a confronto 14» (altra opera seminale, di una band incredibile per qualità e spinta, in parte dimenticata per forza di circostanze e di cose, nella relativa difficoltà di reperire il 33 giri, come l’altro mai ristampato in diverso formato e oggetto di un collezionismo in qualche modo forzoso e calcolato) e mostra all’opera un Urbani che non soltanto dà corpo a un assoluto dominio strumentale, ma, nella libertà assoluta che gli consente il formato del trio, dimostra di padroneggiare totalmente anche una perfetta dinamica di costruzione di strutture compiute, nei due lunghi brani Encuentro e Creation, gravidi di un senso di ritualità arcana, eppure fonte di una musica che suona ancora modernissima oggi. 

Massimo Urbani. To the Max
7 Marzo 1983: Massimo Urbani © Paolo Ferraresi

Non casualmente esso fu recensito entusiasticamente da Arrigo Polillo, nel numero 2/1976 della rivista. Proprio Rava, che dopo Gaslini fu il primo grande scopritore di Urbani, nelle molteplici occasioni in cui ha restituito al pubblico, con quel suo tratto amabile e coinvolgente, il vivido racconto della sua esperienza con Urbani, ha sottolineato che «chi non l’ha visto suonare quando era giovane, non può avere un’idea di quanto Massimo fosse grande» (4). L’ascolto di queste due gemme perdute lo conferma in modo assoluto. Una lunga pausa caratterizzerà l’attività discografica dell’Urbani autore in vista della pubblicazione del suo secondo album. Del resto egli era giovanissimo, cosa che viene facilmente dimenticata. «360° Aeutopia», edito dalla Red Records, venne registrato nel 1979 e pubblicato nel 1980. Il «Massimo Urbani Quartet» comprendeva Ron Burton (pianoforte), Cameron Brown (contrabbasso) e Beaver Harris (batteria). La genesi del disco è ben raccontata da Sergio Veschi in un filmato che costituisce il (corposo) trailer di L’uomo che parlava Jazz, un docu-film per la regia di Alessandro Rubinetti che sarebbe dovuto uscire nel 2016, ma di cui purtroppo si sono perse le tracce (a parte il filmato di cui si va dicendo, disponibile in rete, che vi consigliamo vivamente di vedere). Veschi, nel ricordare che l’iniziativa di ingaggiare Urbani era stata di Alberto Alberti, rimarca che l’opera – in realtà nata dall’affiancamento del sassofonista al trio già esistente di Beaver Harris – rappresentava in qualche modo la sua uscita dalla zona d’ombra di enfant prodige. Sia come sia, il disco «con gli americani» si conferma ancora oggi una vera e propria esplosione sonora e una sintesi piena, di aspetti emotivi fortissimi, declinati in una espressività compiuta, con un esito formale ben chiaro: la fusione tra la tradizione (e in realtà occorrerebbe anche chiedersi quale, vista l’onnivora capacità di assimilare – ma verrebbe naturale dire «divorare» – modelli, che egli ha sempre prodigiosamente dimostrato di possedere) e la libertà, torcendo una forma costantemente portata al limite, forzata, a volte travalicata, ma sempre in sé coerente. Urbani si rivela un vulcano di idee (aspetto che manterrà sempre vivo durante tutta la sua carriera), ma, soprattutto, stupiscono ancora la sua scioltezza quasi da giocoliere e la facilità irrisoria del fraseggio. Sebbene il dominio tecnico dello strumento sia indiscusso e costante, la questione non appare un mero fatto «tecnico», quanto piuttosto una dimensione mentale. Urbani non sceglie consapevolmente di affrontare e risolvere problemi di tecnica sassofonistica, né, nella sua assoluta identificabilità di suono, sembra avere mai bisogno di servirsi di patterns precostituiti: dimostra infatti la prodigiosa capacità di tenere sempre disponibile una soluzione/idea immediatamente successiva, e coerente. Ciò lo tiene libero persino dalla costrizione del «modulo», di cui non ha bisogno, proprio perché tiene tutti i pattern possibili e utili e tutte le permutazioni contemporaneamente nella propria disponibilità, capace di utilizzarli a piacimento. Dote, questa, propria soltanto dei più grandi improvvisatori, sostenuti da una ideazione melodica e da un senso del ritmo fuori dal comune, proprio come Urbani. Nel sassofonista romano questo processo si compie con una naturalezza in parte misteriosa, come del resto molti testimoni sono pronti a giurare sulla sua capacità, forse altrettanto misteriosa, di coltivare saperi impossibili, per vastità e approfondimento, relativi ad argomenti fra i più disparati. 

Viene naturale riportare tutto questo al discorso fatto da Urbani, in Massimo Urbani nella fabbrica abbandonata, circa l’immedesimazione di Jimi Hendrix con la chitarra, che tanto lo colpiva, per trasporla sul suo rapporto altrettanto organico con il sassofono (in questo il senso più pieno di quella «identificazione totemica» evocata da Piras nel suo studio del 1995). Una brevissima notazione merita anche il mutato assetto del gruppo, in ragione della presenza del pianoforte (che d’ora in poi accompagnerà tutta la restante produzione discografica): il grado di libertà che gli era consentito dall’assenza di vincoli armonici, rende tuttora pieno merito alla sua iniziale carriera e al formato del trio, nel quale si dispiega ampiamente quella capacità di struttura della quale si diceva prima. Tuttavia Urbani saprà sfruttare in modo pieno la presenza del pianoforte – e il sostegno armonico – per le proprie scorribande, tramutate in questo senso in una sorta di epica, pronta a trasformarsi anche in un ineliminabile supporto per le amate ballads. Piras ha osservato, perspicuamente, quanto questo procedimento corrispondesse anche al «sogno […] di potersi esprimere a sfogo con ritmiche forti, sensibili e instancabili quanto lui», assecondando, quindi, anche una sua personale estetica. Il processo, in realtà, si rivela sempre biunivoco: l’eroismo, per così dire, si riflette anche sul pianista e sugli altri musicisti. E infatti i suoi dischi saranno sempre ricchi di parti strumentali molto valide, in questo senso, in specie del pianoforte.

To the Max. Massimo Urbani

L’album fu recensito sulla rivista da Bruno Schiozzi (n. 3/1980) e vinse il Premio dell’Associazione Nazionale dei Critici Discografici per il 1980. Veschi ricorda come, dopo la premiazione e il concerto relativo, al Capolinea di Milano si fosse tenuta una jam session con, fra gli altri, Jack DeJohnette e John Surman e di come Urbani ne fosse uscito, alfine, da trionfatore assoluto. Non è affatto difficile crederlo, per stare a quanto si vede nei filmati ancora disponibili su YouTube, relativi a quella serata. Il sostegno senza remore di Alberti e Veschi – insieme all’indubbia visibilità ottenuta, con pieno merito – consentirà a Urbani di tornare in studio a stretto giro (a metà del 1980, giusto un anno dopo, rispetto alla precedente registrazione), per il nuovo disco, «Dedication to A. A. & J. C. – Max’s Mood», un doppio vinile ancora in quartetto, stavolta tutto italiano, con Luigi Bonafede (pianoforte), Furio Di Castri (contrabbasso) e Paolo Pellegatti (batteria) (5). L’argomento dell’opera appare di nuovo quello della conciliazione di due opposte pulsioni, quella verso la forma e quella verso la sua (ragionata) dissoluzione e anche la sua struttura formale, distinta in due tomi, riferisce di questa circostanza. Pino Candini, nel recensirlo (Musica Jazz 10/1982), parlò del «ritratto musicale finora più completo» dell’artista, lodando, più che opportunamente, la qualità del disco e del gruppo. Nel 1982, in occasione della prima edizione del referendum Top Jazz organizzato dalla rivista, Urbani fu tra i premiati, partecipando così al concerto cerimoniale del 7 marzo 1983, al Ciak di Milano, successivamente pubblicato in parte sul disco allegato al n. 10/1983 della rivista. In esso il sassofonista è presente come componente aggiunto al quartetto di Enrico Rava, con Franco D’Andrea, Giovanni Tommaso e Barry Altschul. Una nuova pausa, ben più lunga dell’altra, precede l’incisione di «Easy to Love», del 1987, di nuovo per Red Records: il quartetto mantiene il solo Di Castri e avvicenda il pianista e il batterista, che saranno adesso Luca Flores e Roberto Gatto. Il disco (recensito assai positivamente su Musica Jazz 12/1987 da Salvatore G. Biamonte) è di squisita misura, privo di qualsiasi eccesso e senza l’abuso di stilemi. La dimensione delle ballads, che vi è preminente, riesce a garantire un perfetto equilibrio al gruppo, forte del supporto robusto e pulsante, sempre ricco di inventiva, di Di Castri e Gatto e delle belle sortite solistiche di Flores, capace anche di grande finezza nell’accompagnamento. Lo stesso anno vede anche la registrazione di un album a tema, in duo con Mike Melillo: «Duets for Yardbirds», inizio di un rapporto discografico con la Philology di Paolo Piangiarelli, che avrà poi così tanto peso nella successiva fase delle pubblicazioni di dischi dal vivo, dopo la morte di Massimo. Il disco (6) esibisce la grande sensibilità melodica e la raffinatezza armonica dei due, che giocano in qualche modo coi citazionismi e tengono efficacemente lontano il dubbio e il rischio immanenti della mera mimesi parkeriana. Gian Mario Maletto, recensendolo sul numero di novembre del 1987, parlò di «prova magistrale» e di «disco delizioso»: difficile non dargli ragione, nel riascoltarlo anche a distanza di tempo. Nel 1988, in studio a Verona, Urbani incise «Urlo», pubblicato postumo nel 1994 dalla Elicona, e nel 1990 «Out of Nowhere» per la Splasc(H), disco che vede all’opera un quartetto, sia detto senza alcuna offesa, più «d’occasione», comprendente Giuseppe Emmanuele (pianoforte), Nello Toscano (contrabbasso), Pucci Nicosia (batteria) e Paul Rodberg (trombone), aggiunto negli ultimi due brani. Ma anche in questo caso, l’opera rivela una sua validità e una sua cifra efficace. Nella recensione, nel numero di agosto 1991 di Musica Jazz, Claudio Donà sottolineò la «nuova preziosa testimonianza discografica di un jazzista di valore» e l’efficace polisemia del linguaggio di Urbani, capace come sempre di riportare a piena trasfigurazione personale i molteplici modelli assunti. Considerazioni in parte analoghe valgono per il cimento con archi di «Round About… Max With Strings», registrato nel 1991 per Sentemo da un gruppo comprendente il trio di Gianni Lenoci (pianoforte), Pasquale Gadaleta (contrabbasso), Antonio Di Lorenzo (batteria) e un quartetto d’archi per due soli brani, invero a mo’ di fondale. Lenoci, per il quale la frequentazione con Urbani valeva «laurea e dottorato» fu l’organizzatore di una seduta di registrazione che, nella assoluta estemporaneità (compreso il cliché molto «bebop» del sax in prestito) e nella sua dimensione di immediatezza, senza prove, né seconde takes disponibili, rivela appieno la grande cifra artistica del sassofonista. Maurizio Franco, nella recensione (Musica Jazz 12/1992), parlò della prova del sassofonista in termini di «lucidità e di […] varietà di mezzi impressionante». Infine, nel febbraio del 1993, il ritorno in casa Red Records, con la registrazione di «The Blessing», che fu poi pubblicato postumo ma ci sembra meriti di far parte a pieno titolo di questa breve rassegna, come ultima incisione ufficiale, registrato da un quartetto con Danilo Rea (pianoforte), Giovanni Tommaso (contrabbasso) e Roberto Gatto (batteria) e con l’aggiunta del fratello Maurizio, al tenore in due brani. Album di livello altissimo, con un grande gruppo al massimo delle sue possibilità, chiude una carriera già formidabile al suo punto più alto. Sempre Franco (Musica Jazz 1/1994) sottolineò più che opportunamente «quella lucidità espressiva e quel controllo timbrico e fraseologico con cui ultimamente governava il feeling esuberante e profondo che lo ha reso celebre».

To the Max. Massimo Urbani

La carriera di Massimo Urbani non sembra oggi meritevole di una considerazione disperata e calante, di fronte ai problemi che la travagliarono, dei quali il sassofonista pareva avere lucida consapevolezza («La droga ha distrutto un po’ la mia vita»). Eppure essa è stata a volte descritta nei termini di una costante progressione all’indietro e a volte apprezzata proprio per questo, mitizzando un ritorno alla tradizione. Del resto, sappiamo che esiste un filone di «maledettismo» ad animare le pulsioni di molti appassionati e indubbiamente l’esperienza di Urbani vi si accostava. Talune di queste letture erano forse giustificabili nell’imminenza della morte, soprattutto nell’analisi di persone che anche umanamente avevano coltivato un rapporto con il musicista o come reazione a un senso di emarginazione (la frustrazione che misura lo scarto tra quanto atteso in termini artistici e quanto ottenuto, la dipendenza da alcol e droga). Essa ha ragionevolmente contribuito a una sorta di identificazione generazionale estrema, quasi che la sua scomparsa fosse stata un tributo da pagare al fato per una (impossibile) catarsi collettiva. Questa visione tragica ha finito per schiacciarne i meriti effettivi, che erano e restano grandi. Rimangono indiscussi sia il fatto storico di una vicenda personale che non potè mai procedere al netto di intralci, sia la refrattarietà, spesso consapevole, dell’uomo e del musicista a curarsi di sé e delle proprie prospettive di «autore» (7). Naturalmente non ci si riferisce esclusivamente a quelle artistiche, ma alla positiva forza di farsi artefici di un compiuto percorso di vita. Pur nella comprensibilità di alcune prospettive, ci sembrano sottaciuti alcuni argomenti. 

Uno è relativo alla contestualizzazione storica: quella generazione a cui Urbani apparteneva si è sovente trovata investita da quegli stessi problemi, di droga e di emarginazione, che non erano frutto di un destino, né di una nemesi individuale. Questa circostanza più generale, riportata nella cerchia dei musicisti e calata nella mistica della «sottovalutazione» che così di sovente vi ricorre, può aver prodotto l’innesco di una spirale perversa. Un altro effetto paradossale si riscontra nel fatto che l’ampia messe di registrazioni dal vivo immesse sul mercato dopo la sua morte, spesso senza alcun controllo a monte, per la loro qualità mediamente bassa, se non del tutto inadeguata, soprattutto sotto il profilo tecnico, ha finito per alimentare l’idea che nelle sue esibizioni ci fosse sempre qualcosa che non andava, oscurando così la riconosciuta bontà dei dischi già presenti nella sua discografia. Pure, quei live sono stati indubbiamente utili a ricostruirne la figura e talora indispensabili a offrire un minimo di sostegno economico alla famiglia. Ma hanno alimentato una logica quasi iniziatica, risultata in parte nociva (collezionismo, identificazione, senso traslato di ricostruzione di certe esperienze personali). Sono rimasti in qualche maniera dimenticati i dischi prodotti in vita e, insieme a essi, sono state dimenticate pure le possibilità ampie che gli erano state offerte dai discografici e gli ancor più ampi riconoscimenti della critica. Questo processo non corrisponde ai reali accadimenti e comporta anche l’inevitabile assoluta sterilità del presunto argomento dell’isolamento subito da parte del «sistema» del jazz business italiano, che in fondo era in larga parte popolato dagli stessi musicisti che poi se ne sono lamentati. Infine, nel tentare di ricostruire la sua parabola, non si può non considerare che essa si è caratterizzata per la prodigiosa precocità, alla quale si è pagato un tributo, dopo il primo exploit. Inoltre, essa è stata relativamente breve, in un contesto quale quello nazionale in cui, spesso, a trentasei anni si è ancora delle promesse. La verità è che Urbani, in quegli anni, non moltissimi a contarli e soprattutto a pesarli, tra i molti ostacoli di natura personale è riuscito comunque a brillare di una luce viva e riconoscibile. Di fronte a questo, anche giudicare inopportuna o non adeguata o deludente la soluzione del punto di torsione fra «tradizione» e «avanguardia» nella sua opera può risultare ingeneroso, confluendo infine in un giudizio tanto più azzardato sulla consapevolezza o sulla reale forza dell’Urbani uomo, in un contesto come quello del jazz italiano, che non sembra poi aver generato chissà quali durature rivoluzioni estetiche. 

Massimo Urbani © Fabrizio Biamonti
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