Simone Locarni: nuovo talento del pianoforte jazz

Intervista al giovane pianista piemontese, che si sta rivelando come uno dei musicisti più interessanti del panorama nazionale e che è destinato a una brillante carriera

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Simone Locarni è un giovane pianista e compositore che sta facendo parlare molto di sé. Nell’ultimo anno ha vinto diversi e importanti premi e nel 2025 sarà artista in residence al prestigioso festival di Stresa diretto dal violoncellista Mario Brunello. In questa intervista ci racconta di sé e del suo mondo musicale.

Simone, è una domanda di rito ma credo necessaria, visto che sei un musicista giovanissimo e con un importante futuro in vista: parlaci di te e della tua – visto come lo suoni – forte passione per il pianoforte e il jazz.

Il mio rapporto con la musica comincia sin da quand’ero piccolo e nasce principalmente in famiglia dove si è sempre ascoltato un po’ di tutto, principalmente cantautorato italiano e jazz. Ho iniziato lo studio del pianoforte a sei anni e fino ai dodici il mio mondo musicale si limitava alla musica classica, che studiavo, e ai grandi cantautori, in particolare Jannacci, Conte, Fossati e Dalla. Tuttavia, già all’epoca, passavo molto tempo a improvvisare al pianoforte, senza rifarmi ad ascolti o codici specifici, anche se risuonavano spesso in casa i concerti in piano solo di Jarrett a cui sicuramente già mi ispiravo senza saperlo. Così i miei genitori e la mia insegnante decisero di farmi prendere durante l’estate qualche lezione di jazz. All’epoca il genere in sé non mi appassionava particolarmente, ma avevo capito che se, volevo indagare più a fondo l’ambito dell’improvvisazione, quello era il mondo che aveva più informazioni e spunti da darmi. In seguito ho imparato ad apprezzarlo in maniera più strutturata dal vivo grazie ai tanti concerti che andavo a sentire con mio padre. Comunque, in definitiva, la forza che lentamente mi ha trascinato verso il jazz non credo sia stata puramente estetica, ma piuttosto energetica, perché di quei concerti ricordo proprio un’energia, una fibrillazione continua che mi prendeva e mi faceva dire: devo capire assolutamente come si fa a far succedere questa roba qui!

Quali sono stati i tuoi studi? E attualmente oltre a quella di musicista svolgi anche l’attività di didatta?

La mia formazione accademica è sostanzialmente classica. Sono entrato giovanissimo in Conservatorio a Novara e l’ho frequentato a partire dai corsi pre-accademici fino al diploma di triennio. In seguito sono passato al Conservatorio Verdi di Milano dove ho concluso il mio percorso in pianoforte classico con il diploma di biennio. Lì ho frequentato anche il biennio di pianoforte jazz e avevo come insegnate Umberto Petrin. Dal 2023 insegno pianoforte jazz e musica d’insieme all’Helvetic Music Institute di Bellinzona, in Svizzera.

Per essere un musicista nato nel 1999 ha già alle spalle importanti collaborazioni con jazzisti italiani e stranieri. Ci puoi parlare di come sono nati e sviluppati questi tuoi rapporti artistici e di crescita professionale?

Sin da subito ho avuto la fortuna – forse complice una zona da una parte senz’altro provinciale ma dall’altra ricca di musicisti e di opportunità musicali – di condividere il palco con musicisti più grandi di me e genuinamente interessati a valorizzare e dare fiducia ai giovani. Tra questi impossibile non citare il mio mentore Mario Biasio, grazie al quale ho inciso il mio primo disco nel 2018, «Playin’ Tenco», insieme a Stefano Solani e Nicola Stranieri. Le prime collaborazioni internazionali le devo al mio insegnante storico, Ramberto Ciammarughi, che mi ha seguito sul versante jazzistico da quando avevo quindici anni fino ai venti. Nel 2019, alla fine del nostro percorso di studi assieme, si adoperò per mettermi in contatto con due contrabbassisti che riteneva a me complementari umanamente e musicalmente. In effetti sono diventati due dei musicisti con i quali ho collaborato di più e cui sono più affezionato, vale a dire Riccardo Fioravanti e Yuri Goloubev. Da lì in poi ho avuto la fortuna di poter lavorare con altri grandissimi musicisti, da Bebo Ferra e Andrea Dulbecco – con loro e Riccardo Fioravanti ho inciso «Ten Stops» – ad Asaf Sirkis, Klaus Gesing e Javier Girotto. Con il loro esempio umano e musicale e con le loro diverse personalità mi hanno insegnato l’importanza di inseguire sempre il proprio suono, i propri valori musicali e la propria identità in ogni contesto musicale in cui agisco. 

Hai già pubblicato tre dischi da leader e con te hanno suonato musicisti di comprovata bravura e professionalità…

I miei primi due dischi, «Playin’ Tenco» del 2018 e «Ten Stops» del 2021, sono due progetti volutamente corali, in cui ho scelto di circondarmi di musicisti fortemente affini. Ho voluto dare loro, in entrambi i dischi, grande spazio affinché potessero imprimere la propria personalità. Nel terzo album, Blies del 2023, ho sentito invece la necessità di interpretare il ruolo di leader in maniera più formale, spingendomi proprio per questo nella direzione del piano solo e più in generale proponendomi di suonare il più possibile in solo anche dal vivo, come effettivamente è accaduto da ottobre 2023 fino a metà 2024. È stata un’esperienza molto intensa, molto fortunata ma anche molto complessa, essendomi abituato per anni – come del resto spesso accade nel jazz – a condividere la leadership e i riflettori con altri musicisti. Questa parentesi in solo mi ha fatto mettere a fuoco per la prima volta quello che veramente voglio esprimere attraverso la musica. In un certo senso è stata un’esperienza psicanalizzante, che mi ha permesso, quando ho suonato con altri organici, di pormi con una nuova consapevolezza. 

Negli ultimi anni hai vinto diversi premi nazionali e internazionali. Quanto hanno inciso sulla tua carriera di giovane pianista? 

Il disco «Blies» con i relativi concerti in piano solo era nato da un momento di crisi che avevo affrontato con il mio insegnante di allora, Umberto Petrin. Era un periodo in cui sentivo di avere ormai superato alcune problematiche tecniche ed esecutive, ma di non essere ancora riuscito ad avere una mia personalità, un modo di suonare e di accostarmi alla musica che riuscisse a definirmi sempre, al di là dello stile e del contesto. Nel 2024 sono arrivati in pochi mesi alcuni premi per la mia attività di solista che mi hanno dato un’immensa soddisfazione e un’enorme iniezione di fiducia: il Concorso nazionale Chicco Bettinardi di Piacenza, il 14th European Young Artists’ Jazz Award indetto dall’Internationale Jazzwoche Burghausen e il Premio della Critica della XXVIII edizione del Premio Internazionale Massimo Urbani. In quel momento mi sono sembrate delle conferme pubbliche di un percorso interiore che sono riuscito a trasportare e trasmettere all’esterno. Poi a livello professionale sicuramente il peso di questi riconoscimenti mi ha aiutato molto anche a raggiungere circuiti e attenzione di musicisti e critica che altrimenti non avrei raggiunto, o che quanto meno avrei raggiunto più avanti.

Ti è stato assegnato un ruolo di rilievo allo Stresa Festival il cui direttore è il violoncellista Mauro Brunello. Ci puoi raccontare quale sarà la tua attività all’interno del festival?

Tutto nasce da un concerto che ho fatto per lo Stresa Festival la scorsa estate con il mio nuovo trio composto da Yuri Goloubev al contrabbasso e Klaus Gesing al sax soprano e clarinetto basso. Il concerto piacque molto al direttore artistico Mario Brunello, che qualche mese dopo mi ha proposto per la stagione 2025 il ruolo di artist in residence, affidandomi la scelta dei musicisti per i tre appuntamenti dedicati al jazz e inserendo il mio apporto musicale in ognuno dei tre concerti: il 23 luglio ci saranno i Mediterranean Waves, quartetto di cui faccio parte insieme al vibrafonista Michele Sannelli, il contrabbassista Enrico Palmieri e il batterista Antonio Marmora, con la partecipazione di Javier Girotto, mentre il 25 luglio ci sarà Richard Galliano, che mi ha commissionato un’introduzione in piano solo al suo concerto su alcuni suoi temi. Per il concerto del 26 luglio Mario Brunello mi ha proposto di realizzare un progetto inedito da presentare in anteprima a Stresa e che avesse un qualche legame con il territorio, quello della sponda piemontese del Lago Maggiore dove io abito e su cui si trova Stresa. Avendo sempre frequentato più il mondo dell’improvvisazione che quello della composizione, specie negli ultimi anni con il piano solo, ho deciso di cogliere l’occasione per scrivere una suite per pianoforte, quartetto d’archi (Quartetto Nous) e tromba (Fulvio Sigurtà), una scelta decisamente fuori dalla mia comfort zone ma che da subito mi è suonata esaltante e stimolante, e che oltretutto mi consente di rinsaldare il legame con la musica classica, che ho sempre amato e frequentato ma che col passare degli anni ha progressivamente ceduto spazio e tempo di studio all’attività jazzistica.

Hai davanti una lunga carriera artistica. Quali sono i tuoi progetti e le tue aspettative di musicista jazz?

Nell’immediato la testa è rivolta al lavoro estivo di Stresa e ai bellissimi progetti di cui faccio parte, come Songs From an Unknown Land di Klaus Gesing e Ana Pilat, il quartetto di Andrea Andreoli e il trio di Yuri Goloubev. Sul lungo termine fatico a rispondere: nella vita sono una persona piuttosto irrequieta e amo il jazz proprio perché è un mondo così ampio da consentirti di dare mille forme diverse a un solo pensiero. Come unico grande proposito per il futuro ho quello di giocare il più possibile con tutte le forme e gli schemi che questa meravigliosa musica ci offre, riuscendo allo stesso tempo a comunicare una direzione e una chiara identità. Per molto tempo ho lasciato che le mie idee compositive germogliassero in maniera naturale da improvvisazioni al pianoforte, senza interrogarmi troppo su quale fosse la loro origine e in quanti modi diversi potessero realizzarsi, tant’è che la stesura di una composizione raramente mi prendeva più di una mezz’ora e quasi mai apportavo modifiche una volta terminata. Nell’ultimo anno invece, stimolato da amici musicisti e compositori – fra tutti Klaus Gesing e il mio primo insegnante di jazz, Lorenzo Erra –, ho provato ad accostarmi alla composizione in maniera più strutturata e tecnica, motivo per cui alla proposta di Mario Brunello ho pensato automaticamente al quartetto d’archi, proprio per stimolarmi ad approfondire un modo di comporre per forza di cose più strutturato e rigoroso, e che attualmente continua ad appassionarmi. Ho sempre dato una certa rilevanza ai titoli dei brani perché sono l’unico mezzo verbale di cui disponiamo noi musicisti, e quindi ho sempre cercato di «giocarmeli» bene. Spesso lego i titoli dei miei pezzi a nomi di scrittori che amo, oppure a film, libri, poesie che mi hanno segnato, così ho la possibilità di dare qualche qualche nuovo spunto a chi mi ascolta. Poi, quando tra il pubblico vedo qualcuno che a fine concerto si annota o mi chiede il nome di quello scrittore o di quel libro, per me è una grande soddisfazione!

Intervista a cura di Flavio Caprera

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