«Satellites». Intervista a Emma Grace

Tra minimalismo, elettronica, songwriting e sperimentazione, esce il 24 ottobre il nuovo album della musicista e compositrice italo-americana. Ne parliamo con lei.

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Buongiorno Emma, benvenuta a Musica Jazz. «Satellites» è il tuo nuovo album, realizzato durante una tua residenza artistica a Cagliari. Quindi, un lavoro non programmato. Hai agito diversamente rispetto ai tuoi tre precedenti lavori discografici?
Buongiorno, grazie! Sì, ogni album ha avuto un suo percorso distinto, ma questo, forse anche perché è il quarto ed è arrivato con molta più calma e pazienza. È anche il primo lavoro con una direzione artistica esterna: quella di Tobia Poltronieri, che ha seguito il progetto con grande cura. È stato un piacere lavorare insieme a lui. E per la prima volta sono stati coinvolti anche altri musicisti nel processo creativo. I miei dischi precedenti sono sempre nati in modo spontaneo, senza aspettative sul numero di tracce o sui tempi di uscita. Di solito c’era un’urgenza forte, volevo pubblicarli subito, ero più impulsiva, e non mi preoccupavo troppo di tutte quelle accortezze che solitamente accompagnano un’uscita discografica.

In questo album si ascoltano alcune sonorità tipiche degli anni Ottanta, per esempio lo slappin’ del basso, alcuni suoni ambient-electro à la Laurie Anderson. Era una soluzione, come dire, meditata, oppure è venuta spontaneamente?
Non meditata. Alcune sonorità emergono naturalmente dal nostro background musicale, ma non mi appartiene l’idea di costruire un suono ispirandomi consapevolmente ad altri artisti. Quando cerco di controllare troppo il processo, con un risultato preciso in testa, tutto perde fluidità e naturalezza. Mi succede anche dal vivo e lo noto subito quando uso la loop: se parto da una reference mentale, qualcosa si irrigidisce e non si apre davvero lo spazio per l’ascolto necessario. La forza sta proprio nel cogliere il suono presente, nel lasciarlo nascere senza forzarlo. Anche per questo, da parte mia c’è stata molta libertà verso gli altri musicisti: ho dato solo alcune linee guida legate all’immaginario, poi ognuno ha potuto interpretarle liberamente.

Emma, cosa hanno a che fare i satelliti con la tua filosofia di vita?
Credo niente di più o meno di quello che i satelliti rappresentano per chiunque: fanno parte del nostro panorama, ma soprattutto sono tra le poche cose che guardiamo tutti, ovunque siamo. La vista da casa mia è diversa dalla tua, montagne, palazzi, vicini di casa, ma il cielo è in comune. Non credo di avere un legame speciale con i satelliti, ma in questo album sono diventati un simbolo ricorrente sempre più evidente. Quel punto luminoso che sembra una stella ma non lo è. Quel dubbio: è reale o finto? È naturale o artificiale? Viviamo immersi in questa dicotomia, e ci rappresenta: anche noi siamo sempre più immersi in un continuo miscuglio tra umano e tecnologico.

Leggo nella presentazione del disco, che un punto fermo nella tua visione della musica è il corpo, a dispetto della tua musica che è più eterea, spirituale. Potresti spiegarci il significato di questa affermazione?
La domanda sembra suggerire una separazione tra spirituale e corpo, ma io non la vedo così. Il corpo è una delle poche certezze che abbiamo su questo pianeta, almeno finché non entriamo in uno stato ignoto. In breve, il corpo è la nostra unica certezza nel presente, e ci ricorda che non saremo qui per sempre. Spesso la società cerca di distrarci da questa realtà, alimentando la paura della morte, dell’invecchiamento e del vivere pienamente ciò che siamo. Per me, vivere e sentire il corpo fino in fondo, ogni giorno, è una delle manifestazioni più profonde dello spirituale. Anche negli spazi sonori simbolicamente più eterei. La voce, insieme alla danza, è uno degli strumenti musicali più potenti per esprimere tutto questo: pratiche che fanno da ponte tra ciò che abbiamo dentro e il modo in cui ci relazioniamo con il mondo nel presente.

Cover album Satellites

Come si inserisce questo disco nell’ambito della tua discografia?
Si inserisce in modo sorprendentemente coerente. Ogni album per me è stato un ambiente naturale distinto: Backgrounds era acqua, emozioni fluide e crude; «Wild Fruits and Red Cheeks» un doppio album impulsivo, pieno di desiderio, sangue e frutti rossi; «Cravings of Pegasus» racconta le colline e l’innocenza di chi rompe le regole con spontaneità. «Satellites» nasce invece in un clima più arido. Dopo la pandemia ho vissuto una semi-pausa dalla musica, non un’interruzione totale, ma un rallentamento, con molte idee e la necessità di dedicarmi ad altro. È stata una riscoperta, un ritorno in territori nuovi e familiari. Mi piace come ogni lavoro diventi, senza forzature, un riflesso naturale e simbolico del mio ambiente creativo.

Questo disco è dedicato a…
Questo disco è dedicato soprattutto alla parte fragile di noi, quella che non ha paura di rinascere e di mostrarsi al mondo. È quella parte che non cerca di essere «buona» per dovere, ma perché conosce profondamente tutte le sfumature dell’essere umano e ha il coraggio di fare il meno male possibile, integrando anche le parti meno comode alla società. È il coraggio delle lacrime, dell’essere piccoli ma forti, un gesto di cura nel caos. È la forza del presente, anche quando il corpo sembra assente.

Emma, hai concepito questo lavoro come un concept album?
Non ho mai capito il termine, sono sincera. Per me è un modo diverso di raccontarmi, un processo che spesso comprendo appieno solo alla fine, o lasciando passare il tempo necessario. Spesso è solo a lavoro concluso che riesco a vedere anch’io un filo o una visione completa, come se stessi seguendo un percorso che non posso controllare del tutto. E mi piace ancora di più scoprire cosa le persone sentono e vedono, prima di rischiare di imporre la mia visione. Ma sicuramente, a lavoro concluso, è emerso chiaramente il concetto di coraggio nella fragilità, il processo di come integrare in modo creativo ciò che ci fa paura e ciò che è artificiale e sconosciuto.

Ritieni che la tua musica possa essere annoverata nell’avanguardia?
È una definizione che non ho mai usato per la mia musica, non è qualcosa su cui mi interrogo. Se per avanguardia intendiamo libertà creativa, ricerca sincera e un approccio non legato a logiche di mercato, allora sì, mi può interessare. Ma preferisco restare concentrata sul processo: essere presente, coerente, e trovare un equilibrio tra spontaneità e strumenti contemporanei di comunicazione. Mi interessa molto l’integrazione continua tra naturale e digitale, sia nella musica che nella vita quotidiana, anche se devo imparare ancora molto del digitale. Cerco di non prendermi troppo sul serio, ma di prendere sul serio ciò che faccio e quello che posso offrire. Anche nel mio lavoro di musicoterapeuta, l’obiettivo è fornire strumenti che ognuno possa usare liberamente, a modo suo.

Emma Grace
Foto di Iris Casagrande

Quali sono i tuoi rapporti con la musica jazz?
Probabilmente sono rapporti un po’ ignoranti sotto certi aspetti, ma oggi è facile mancare qualcosa: c’è così tanta musica e bellezza che è impossibile stare dietro a tutto. Ho ricordi bellissimi da bambina, quando la mia famiglia mi portava dietro le quinte di concerti di jazz sperimentale, nei primi anni 2000. Mi sono sempre sentita distante da un certo tipo di jazz troppo attento alla tecnica, alle scale «con un nome», e privo di sudore. Mi ha sempre affascinato molto di più quando ho visto musicisti totalmente immersi nell’improvvisazione o nell’interpretazione. Quella parte sudata, viva, mi ha sempre parlato di più.

Da dove nasce in te l’impulso di creare qualcosa? Che ruolo hanno sogni, arte, relazioni, politica…?
L’impulso di creare nasce soprattutto dal bisogno di tradurre in suono ciò che le parole, da sole, non riescono a comunicare. I sogni, i desideri, le tensioni della nostra società, le speranze o anche solo piccoli segnali quotidiani emergono come frammenti in un processo che è più intuitivo che razionale. Mi è capitato più volte di lasciarmi guidare dai sogni. Il singolo uscito l’anno scorso, theplantsgrowingoutofmybody, è ispirato proprio a un sogno ricorrente. E poi c’è una pratica che mi riporta sempre alla creazione: cantare quotidianamente, in rapporto al corpo e al presente. È come tenere aperto un canale, senza forzare, ma senza smettere di ascoltare.

Qual è il tuo background culturale?
Il mio background è molto ibrido, ed è sia una bellezza che una sfida stare tra culture diverse o assenti. Sono madrelingua inglese, con origini miste: da un lato radici russe migrate in America, dall’altro un’eredità italiana che, a sorpresa, mi avvicina anche ai Balcani e all’Irlanda. Non ho radici culturali definite, ma sento vicini questi frammenti, per quanto lontani. Poi ci sono le colline umbre della mia infanzia: luoghi magici, abitati da caprioli, lucciole e cieli stellati. È lì che ho costruito le mie radici. Sono cresciuta in un contesto anglofono, pur vivendo in Italia, sempre circondata da artisti e personaggi, amici di famiglia, persone che arrivavano e condividevano racconti, musica, visioni.

Emma Grace
Foto di Iris Casagrande

Quali sono i tuoi obiettivi come artista?
Vorrei continuare a imparare, soprattutto attraverso l’incontro con altri artisti e mondi, attraverso nuove collaborazioni e ricerche. Un altro obiettivo a cui tengo molto è rendere sempre più accessibile il processo creativo vocale, anche grazie al mio percorso nella musicoterapia. Mi interessa offrire strumenti che le persone possano usare in modo personale, per esprimersi e conoscersi meglio. Mi interessa offrire strumenti che le persone possano usare in modo personale, per esprimersi e conoscersi meglio.

Cosa è scritto nell’agenda di Emma Grace?
Concerti in vista, e attualmente sto vivendo a Barcellona. Spesso le persone si prendono una pausa dalla città per rielaborare e lavorare su alcune cose; io sto facendo il movimento inverso. Dopo almeno quattro anni vissuti con base nei boschi, mi sto prendendo del tempo in città, finendo degli scritti, sistemando registrazioni recenti e restando felicemente aperta agli stimoli di un contesto nuovo.
Alceste Ayroldi

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