AUTORE
Sonny Rollins
TITOLO DEL DISCO
«Freedom Weaver: The 1959 European Tour Recordings»
ETICHETTA
Resonance
«Forse negli anni ho un po’ esagerato con l’autocritica», ammette oggi Rollins nel libretto di questo triplo cd (disponibile, in tiratura limitata, anche su quattro lp). «È musica che ha un certo estro: ero giovane e pieno d’entusiasmo». L’immediata conseguenza di questo piccolo «pentimento», se così si può definire, è quindi che – a benedizione infine accordata dal Grande Capo – tutte le registrazioni finora note del non breve periodo trascorso dal sassofonista in Europa, ovvero tra il 21 febbraio e il 18 marzo 1959, trovano adesso una consacrazione ufficiale dopo decenni di uscite più o me[1]no borderline. Diciamo subito che questo box non contiene niente di inedito, ma già il sensibile miglioramento del suono, oltre all’ovvio aspetto etico della faccenda, dovrebbe spingere chiunque a liberarsi di ciò che già ha in casa per sostituirlo con questa edizione presumibilmente «definitiva» (perché se esiste altro materiale, fatto non da escludere, al momento non se n’è vista traccia). In soldoni, il cofanetto comprende due sedute di studio realizzate l’una a Stoccolma per la Sveriges Radio e l’altra a Zurigo per quella che all’epoca si chiamava Schweizer Radio DRS, alle quali aggiunge cinque brani dal vivo sempre catturati in Svezia, tre ripresi in Olanda alla Singerzaal di Laren, quattro alla Cantate Hall di Francoforte e tre chilometriche esecuzioni (con Kenny Clarke alla batteria) registrate ad Aix-en-Provence a tarda notte nella cantina dell’Hot Club cittadino dopo che il trio aveva incredibilmente già dato un intero concerto a Marsiglia – trenta chilometri più a sud – verso l’ora di cena. Questi ultimi tre brani, circa 52 minuti di musica, restano la conclusiva testimonianza sonora del Rollins di quegli anni prima di un’ultima settimana trascorsa a Parigi e del rientro negli USA il 18 marzo, appena tre giorni dopo la scomparsa di Lester Young nella stessa capitale francese. Da lì a tutto ottobre ci sarebbero stati numerosi altri ingaggi, con formazioni cambiate alla rapidità del fulmine, e sempre più frequenti cancellazioni di concerti e sedute di registrazione, fino alla decisione di ritirarsi dalla scena per un tempo allora inde[1]finito ma destinato a concludersi solo il 13 novembre 1961. Chi voglia saperne di più sui due anni «perduti» di Rollins (perduti agli occhi del mondo del jazz, non certo per lui, che li avrebbe impiegati al meglio secondo la sua visione delle cose), non ha che da leggere i relativi capitoli della recente biografia di Aidan Levy, Saxophone Colossus, e dell’ancor più recente The Notebooks of Sonny Rollins; ma è abbastanza evidente, pur col senno di poi, come il tour europeo qui documentato recasse in sé tutti gli indizi di una situazione personale e di un’insoddisfazione musicale pronte a esplodere. Rollins sarà stato forse fin troppo autocritico – ma, una volta sceso dal ponte di Williamsburg, avrebbe fatto pure di peggio durante il suo contratto con la RCA – però non era stupido, e aveva capito benissimo che i mutamenti di quel 1959, con la contemporanea esplosione di Coltrane e Coleman, richiedevano da parte sua un approccio diverso, un ripensamento totale di tutto il suo status di musicista. Pur non dandolo troppo a dimostrare, Rollins era – e avrebbe continua[1]to a esserlo – uno dei jazzisti più competitivi in circolazione, ed è probabile che lo stagliarsi dell’inevitabile confronto con i due succitati colleghi, che competitivi non erano affatto, lo avesse spinto a tale drastica decisione («He that flies may fight again», chiosava del resto Edgar Allan Poe in How to Write a Blackwood Article, attribuendo a Demostene un frammento di Menandro). Le tensioni neanche troppo latenti di quei giorni in Europa sono ben dimostrate, in questi tre cd, dal frullato di batteristi che Rollins era riuscito a mettere in pratica, certe volte dalla sera alla mattina, nello spazio di neanche un mese. Con La Roca, strumentista di alto livello che già era velocemente apparso sul live al Village Vanguard di fine 1957, le cose non erano andate bene fin dall’inizio e dopo un po’ i due erano addirittura venuti alle mani, tanto che Rollins si era adattato a ingaggiare il vecchio amico Joe Harris, veterano dei gruppi di Dizzy Gillespie e da tempo residente in Europa; a Marsiglia e Aix, invece, aveva risolto con Kenny Clarke, che tra le sue mille doti aveva, per Rollins, quella di sapersi rendere praticamente invisibile («C’è, ma sembra che non ci sia») e fornire quello che lo stesso sassofonista definisce qui un «tappeto magico», a differenza di La Roca, aggressivo di carattere e quasi sempre por[1]tato a suonare «contro» il solista di turno. Ma colui che, per così dire, tiene in piedi la baracca in ogni circostanza è il buon Henry Grimes, autentico collante di tutte le esecuzioni e, con ogni evidenza, perfettamente felice di restare nell’ombra: un tipo di impostazione bassistica che Rollins ha sempre apprezzato, come dimostrerà poi l’oltre mezzo secolo passato a servirsi di Bob Cranshaw. Insomma, la quantità di carne al fuoco contenuta in queste tre ore esatte di musica è così abbondante da renderne obbligatorio non so[1]lo l’acquisto ma, soprattutto, un ascolto quanto mai approfondito. Non esistono moltissime altre occasioni di poter sbirciare così da vicino nel laboratorio musicale pressoché quotidiano dell’unico e solo «Saxophone Colossus».
Conti
DISTRIBUTORE
IRD
FORMAZIONE
Sonny Rollins (ten.), Henry Grimes (cb.), Pete La Roca, Joe Harris, Kenny Clarke (batt.).
DATA REGISTRAZIONE
Stoccolma, Zurigo, Laren, Francoforte, Aix-en-Provence, dal 2 all’11-3-59.