«LOCKJAW» DAVIS & SHIRLEY SCOTT «Cookin’ With Jaws and the Queen»

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AUTORE

Lockjaw Davis & Shirley Scott

TITOLO DEL DISCO

«Cookin’ With Jaws and the Queen»

ETICHETTA

Craft


Tra i tanti illustri centenari che hanno contrassegnato il 2022 (Charles Mingus, Jaki Byard, Carmen McRae, Duke Jordan, Frank Wess, Toots Thielemans, Kai Winding, Oscar Pettiford, Illinois Jacquet e così via) il 2 marzo dello scorso anno ha visto cadere anche quello di Edward F. Davis detto «Lockjaw» (1922-1986), personaggio quanto mai pittoresco a partire dal suo singolare nomignolo ma soprattutto sassofonista di notevole importanza, spesso non considerata quanto invece merita. Largamente autodidatta, il newyorkese Davis si era subito rivelato un fast learner e aveva saputo entrare, ancora ragazzino, nelle grazie di Ben Webster, del quale era divenuto il protetto riuscendo così a introdursi nell’ambiente dei numerosi club after hours. Da lì, il passaggio al professionismo era stato breve: trasferitosi a Filadelfia (dove iscriversi al Sindacato Musicisti costava ben 25 dollari di meno, e Lockjaw ai soldi ci teneva), aveva subito iniziato a farsi conoscere nel giro con impressionante determinazione. Una volta tornato a New York, si era messo a frequentare regolarmente il Minton’s e la Clark Monroe’s Uptown House, ovvero alcuni tra i locali destinati a contribuire alla nascita del bop e la sua spavalderia – unita a doti strumentali non comuni – lo aveva ben presto fatto diventare il responsabile (nel bene e nel male; perché, come lui stesso raccontò nel 1986 in una strepitosa intervista a Cadence, gli capitava spesso di dover buttare la gente giù dal palco con le maniere forti quando le serate finivano in rissa) delle in[1]finite jam session su cui si sarebbe fondata la fama di quei club. Il primo ingaggio di rilievo e il debutto su disco li ebbe come membro dell’orchestra di Cootie Williams, ma sarebbe passato anche per quelle di Louis Armstrong, Andy Kirk, Lucky Millinder: tutte formazioni di grande popolarità e, di conseguenza, solide palestre per un giovanotto dalla robusta ambizione. Uomo di big band, quindi, ma allo stesso tempo molto interessato ai picco[1]li gruppi che, anche per ragioni biecamente economiche, stavano sempre più prendendo piede sul[1]la scena newyorkese. Tant’è che nel maggio 1946 un suo quintetto che includeva il pianista Argonne Thornton (ovvero Sadik Hakim) gli avrebbe offerto l’occasione di iniziare a incidere da leader per la minuscola etichetta Haven, creatura di quel Bob Shad che, di lì a po[1]co, sarebbe passato a collaborare con la Savoy portando con sé il baldanzoso sassofonista, e subito attribuendo le prime due sedute di Lockjaw per la nuova casa – con la pregevole compagnia di Fats Navarro e Al Haig – a «Eddie Davis and His Be Boppers» proprio per cavalcare l’onda del momento. Al di là delle furbe ragioni di marketing, questo lascia capire come Lockjaw fosse in realtà (e tale rimase) un musicista di transizione, con un piede nello Swing e l’altro nel bop, come di lì a non molto avrebbe dimostrato entrando nell’orchestra di Count Basie, della quale a partire dal 1952 si sarebbe rivelato uno dei membri chiave pur con diverse assenze per i motivi più disparati (da un lato la gestione del poderoso quintetto con Johnny Griffin, dall’altro un temporaneo ritiro dalla musica attiva per lavorare come booking agent di molti suoi colleghi). Certo, agli inizi più che verso il bop Davis sembrava propendere verso l’allora nascente r&b filtrato attraverso Illinois Jacquet e Arnett Cobb – uno dei suoi primi 78 giri incisi per la Savoy, Hollerin and Screaming, lo rivela fin dal titolo – ma basta ascoltare una successiva esecuzione di alto virtuosismo come il Dizzy Atmosphere del 1955 per la King, assieme all’organista Doc Bagby, per capire come il Nostro fosse in grado di muoversi agevolmente su entrambi i lati della barricata. La familiarità di Davis con l’organo, elemento portante del box in esame, risale addirittura al 1949 e all’incisione di due brani per la King assieme al trio di Bill Doggett. Da allora, il sassofonista si servì con frequenza di svariati esponenti dell’ingombrante strumento, ancora dallo stesso Doggett (nel 1952) al misconosciuto Eddie Bonnemère, dal già citato Harry «Doc» Bagby a Shirley Scott, l’organista di Filadelfia – futura partner di musica e di vita di Stanley Turrentine – con la quale iniziò a collaborare nel 1956 incidendo una quindicina di dischi fino a tutto il 1960. La Scott, che è stata anche un’eccellente pianista e un’attivissima didatta e che, pur avendo inciso in abbondanza, resta una figura clamorosamente trascurata, era nata nel 1934 ed è scomparsa nel 2002 lasciando una gran quantità di allievi oggi ben noti, da Terell Stafford a Tim Warfield. Con Davis si era trovata a meraviglia fin da subito, e i quattro lp Prestige qui riuniti (cui si aggiungono due brani pubblicati su un’antologia, mentre altri otto – tutti standard – incisi nelle stesse sedute andarono a formare l’album «Jaws» e non sono inclusi, anche se lo spazio c’era) rappresentano il coronamento della loro associazione professionale. Si tratta di dischi all’epoca celeberrimi e vendutissimi, ovvero i tre volumi della serie «Cookbook» più lo «Smokin’» allora rimasto nei cassetti e pubblicato solo nel 1964, ovvero non appena la Scott aveva lasciato la Prestige per accasarsi presso la Impulse! e godere di produzioni più elaborate. Qui invece, nella miglior tradizione dell’etichetta di Bob Weinstock, di elaborato non c’è proprio niente: uno spartano e ruspante menu di blues, medium tempo e ballads cucinati e serviti da due chef di prim’ordine, sostenuti ai fornelli da due pregiati collaboratori (anche Richardson lo è, ma la sua occasionale presenza sembra voler aggiungere spezie a una serie di piatti già saporiti di suo, senza che ce ne sia un vero bisogno). Difficile scegliere questo o quel brano (gli originals recano in gran parte, per restare nel gioco, titoli d’ispirazione culinaria), ma l’ellingtoniana I’m Just a Lucky So-and-So spicca in maniera particolare, anche se purtroppo sfuma proprio nel bel mezzo di un memorabile duetto tra Davis e Duvivier. Il resto è uniformemente riuscito e resta a imperitura testimonianza della grande capacità di Lockjaw e della Scott di saper essere popolari ma allo stesso tempo sofisticati: «classic Black vernacular jazz», come ben scrive Willard Jenkins nell’eccellente libretto a corredo. Una regola alla quale i protagonisti di questo imperdibile cofanetto non hanno mai voluto abdicare.
Conti

pubblicata sul numero di aprile 2023 di Musica Jazz


DISTRIBUTORE

Universal

FORMAZIONE

Eddie «Lockjaw» Davis (ten.), Jerome Richardson (fl., ten., bar.), Shirley Scott (org.), George Duvivier (cb.), Arthur Edgehill (batt.).

DATA REGISTRAZIONE

Hackensack, 20-6, 12-9, 5-12-58.