Avvertimento ai lettori. Questo è un racconto musicale itinerante, come l’animo di chi scrive, anche se spesso è seduta ad una scrivania.
Sboccia l’autunno con le sue mille sfumature, tante quante sono quelle proposte da tre delle principali kermesse jazzistiche che firmano un periodo dell’anno fatto di caldarroste e del crepitio di foglie croccanti sotto i piedi; stiamo parlando del Bologna Jazz Festival, di Ferrara in Jazz e di Padova Jazz Festival: presidi prestigiosi e longevi, testimoni di quel che il panorama musicale nazionale e internazionale ha di meglio da offrire attualmente.
Due gli appuntamenti ascoltati nel dotto, rosso e grasso capoluogo emiliano-romagnolo. Lunedì 28 ottobre, al Teatro Duse, abbiamo felicemente ritrovato Cécile McLorin Salvant in quartetto; con lei il prezioso Sullivan Fortner al pianoforte, Yasushi Nakamura al contrabbasso e Keita Ogawa alla batteria. In una serata speciale, dedicata al chitarrista Jimmy Villotti, la cantante franco-americana incanta e delizia con una palette di timbri inesauribile, che dribbla dal celestiale al cavernoso con estrema versatilità, toccando tutto quel che c’è nella terra di mezzo. McLorin Salvant non scrive nulla di suo (almeno al momento), ma è un’interprete straordinaria con cui, nel tempo di un concerto, si può ripercorrere la storia del canto jazz e non solo. Spazia da immortali standard a brani tratti da musical, da Kurt Weil a Burt Bacharach, con un’audace nonchalance corroborata dalla spontaneità e spigliatezza che rapisce il pubblico del Duse. È come se la Salvant fosse in qualche modo abitata dagli spiriti delle più grandi dive del jazz, una specie di incantesimo che le fa rivivere in una sola persona. Ma la vera magia sta nel fatto che la voce è e resta una sola, quella di Cécile.
Venerdì 8 novembre ci siamo trasferiti al Teatro delle Celebrazioni, per tuffarci nell’Ethio-jazz di Mulatu Astatke. Ma ascoltare dal vivo icone ottuagenarie ha ancora senso, o sarebbe meglio rifugiarsi nell’ascolto di un disco a dispetto del tempo che passa? Mentre ci interroghiamo veniamo coinvolti da un vortice ritmico, in cui l’idioma musicale africano sposa jazz d’oltreoceano, cellule caraibiche e latino-americane, costantemente sostenuto da una band capace e flessibile, che alterna coralità a soli, o momenti in duo e trio, tra ballad e selvatici sentieri sonori. A questo contesto Astatke contribuisce alle percussioni, tastiere e vibrafono, ma soprattutto direziona l’ensemble nell’esecuzione del suo vasto repertorio con fare rilassato. La risposta quindi è sì a prescindere, perché colui che ha dato vita all’Ethiopian Quintet, suonando con Gary Burton e Keith Jarrett, è qui presente e anche se talvolta rischia di perdere il filo, l’impasto ibrido che stiamo ascoltando è stato da lui ideato, rivoluzionando parte della storia del jazz; e ancora sì, perché gli artisti che lo circondano e accompagnano da tempo, valorizzano questo prezioso bagaglio musicale attraverso le peculiarità di ognuno: dal tocco di Alexander Hawkins al piano, alla tromba di Byron Wallen e al violoncello di Danny Keane tra gli altri. Benediciamo quindi Astatke per aver abbandonato gli studi di ingegneria aeronautica al fine di intraprendere quelli musicali e seguire la sua vocazione. Rendiamo così omaggio ad Astatke per la contagiosa consapevolezza che lo pervade, tanto da chiudere il concerto bolognese con un brano dedicato a sé stesso dal titolo Mulatu.
Prima di raggiungere il capoluogo patavino facciamo un pit stop nella bella Ferrara. Il jazz club estense ha sede in un luogo storico di grande fascinazione: l’unico torrione difensivo intonso delle antiche mura cittadine, patrimonio Unesco. Qui, domenica 10 novembre, è tornata sul palco dopo svariati mesi la Tower Jazz Composers Orchestra, orchestra residente del Jazz Club Ferrara e nessun dubbio ci ha colto sulla scelta fatta! Sì, perché ascoltare questo ampio ensemble, formato da oltre venti elementi e guidato da Alfonso Santimone e Piero Bittolo Bon, è ogni volta un’esperienza immersiva, in particolare all’interno dello stesso Torrione San Giovanni, dove la vicinanza con l’organico ci fa subito sentire parte dello stesso. Un tuffo in un universo sonoro che annovera, ormai, oltre sessanta brani, tra originali e sorprendenti rivisitazioni. Altra caratteristica dell’organico è che ogni componente contribuisce alla composizione e arrangiamento dei brani stessi, spesso anche alla direzione, dando vita quindi ad una dimensione fortemente partecipativa, variegata e multicolore, che alterna musica scritta a impetuosi slanci improvvisativi. La scaletta di domenica, ad esempio, ha incluso l’esecuzione di “Senza preavviso”, brano scritto e diretto dalla sassofonista, clarinettista, compositrice e didatta Giulia Barba, caratterizzato da un lento, sofisticato ed elegante incedere, alla cui atmosfera ha contribuito il solo del contrabbasso di Stefano Dalla Porta. A fare da contraltare l’ironica e pungente introduzione alla “musica demotivazionale” di Piero Bittolo Bon, che ha portato sul palco un brano irriverente dal titolo “Ecco che Matteo Salvini rinunzia all’immunità (anzi no, aspetta un attimo)”. E ancora la composizione corale “Osgood-Schlatter” che porta la firma di Luca Chiari, omonima e ispirata – a quanto pare – dall’infiammazione dell’osso e della cartilagine alla sommità della tibia che ha colpito il chitarrista. In questo magma multiforme si inserisce l’apporto vocale di Marta Raviglia, che sorvola le note a briglie sciolte divenendo esso stesso strumento tra gli strumenti. Una serata piena di colpi di scena quindi, introdotta dalla presentazione della linguista Daniela Veronesi del prezioso volume “L’arte della conduction” di Lawrence D. “Butch” Morris giunto, grazie alla sua amorevole cura, all’edizione italiana.
Ultima tappa del nostro itinerario musicale è Padova, dove l’apprezzato jazz festival è giunto quest’anno alla ventiseiesima edizione, grazie all’inesauribile perseveranza di Gabriella Casiraghi, sua direttrice artistica. Ciò che ci attende al Teatro Verdi, giovedì 14 novembre, è una serata di autentica fiesta corroborata non solo dalla generosa performance del bassista e cantante Richard Bona in trio, ma anche da tutta la comunità africana accorsa per l’occasione. Bona è caleidoscopico e la sua conoscenza della musica enciclopedica. Con audacia sfodera brani originali, nei quali dominano la matrice africana e quella latino-americana, avvicendandoli a standard jazz e blues. Sì perché il suo amore per il continente sudamericano è lapalissiano, a partire dal fatto che il suo trio, ben coeso e dall’avvincente interplay, è completato da due artisti cubani quali Jesus Pupo al pianoforte e Ludwig Alfonso alla batteria. Ma l’aspetto forse più avvincente è la peculiare timbrica vocale del bassista: sia alle prese con testi, sia con vocalizzi – che rimandano talvolta agli scat di Bobby McFerrin – è straordinaria la capacità di mettere l’idioma camerunense a disposizione di qualsiasi tipo di composizione, che sia di matrice eurocolta, afroamericana o tradizionale camerunense. È così che dal cilindro di Bona, prestigiatore di note, esce una versione inedita del Miles di “Kind of Blue”, quanto una struggente dell’argentina “Alfonsina y El Mar”, oltre a ballad che paiono ancestrali ninne nanne, alternate a corroboranti ritmi latini. Degno di nota il tocco e la versatilità del pianista Jesus Pupo a suo agio tanto con repertori classici, quanto con jazz e world music.
Il nostro itinerario si conclude qui, ricordando che tutte e tre le realtà esplorate non propongono solo musica di qualità a profusione, ma sono ampiamente attive in ambito didattico, artistico e fotografico. Se per il Bologna ed il Padova Jazz Festival il nostro è un arrivederci al prossimo anno, per la rassegna Ferrara in Jazz lasciamo dei puntini di sospensione, in quanto la sua programmazione prosegue fino a fine aprile 2025 con una piccola pausa a cavallo delle festività natalizie.
Al prossimo viaggio!
Eleonora Sole Travagli