Roberto Ottaviano, Danilo Gallo, Ferdinando Faraò: «Lacy In The Sky With Diamonds»

di Aldo Gianolio

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Mavarta Music Live

Ilario d’Enza (RE), 13 dicembre 2024

Dopo aver inizialmente abbracciato il sax tenore, Roberto Ottaviano s’è dedicato al sassofono soprano in seguito a un incontro casuale, ma illuminante con Steve Lacy, che di questo strumento è stato l’ingegnoso apripista nel jazz moderno. E nella sua ormai lunga carriera, come il ferro verso la calamita, Ottaviano gli si è avvicinato molte volte, dedicandogli “progetti” ad hoc: ricordiamo solo il doppio disco «Forgotten Matches» (Dodicilune, 2014), in quartetto e in duo, e le molte apparizioni in solitaria, come usava fare Lacy. In quest’ultimo 2024, per i vent’anni dalla morte, il sopranista  barese ha costituito un autorevole trio con Danilo Gallo al contrabbasso e Ferdinando Faraò alla batteria, incidendo per la Clean Feed «Lacy In The Sky With Diamonds», titolo perspicacemente ideato da Gallo con un gioco di parole parafrasante la famosa canzone dei Beatles, e dando diversi concerti in Italia. Uno di questi ha fatto tappa a S. Ilario d’Enza, paese a metà strada fra Reggio Emilia e Parma, al Centro Culturale Mavarta, dove Nazim Comunale organizza la rassegna Mavarta Music Live dedicata alla musica di ricerca.

Il concerto è iniziato proprio con il pezzo d’apertura del disco «Lacy In The Sky», Esteem, composto da Lacy in omaggio a Johnny Hodges; ma poi è proseguito con brani presi dal citato «Forgotten Matches», come The Rent e Blues For Aida, da «Reflections»  di Lacy con Thelonious Monk, come Let’s Call This, da «Communique» di Lacy con Mal Waldron, come No More Tears, e da «Where Is Brooklin?» di Don Cherry, come Awake Nu. I brani, con i temi che non presentano arrangiamenti che li facciano distanziare di molto dagli originali e con le improvvisazioni impostate in modi differenti, mantengono un’unità stilistica ben precisa, anche se risultano diversi per atmosfere, assetti, andamenti e sviluppi. Ottaviano al sassofono prende da Lacy, ma anche se ne distacca. Si sente che fanno capolino nel suo stile pure i sassofonisti che ha seguito nei suoi trascorsi come tenorista, John Coltrane e Dave Liebman per la torrenzialità e Wayne Shorter per la complicata melodicità: la sua pratica con il tenore gli ha anche inscurito la sonorità al soprano, che è più dirty rispetto a quella lunare di Lacy, e gli ha reso l’articolazione più varia e movimentata. E poi c’è Ornette Coleman, che sbuca ogni tanto con incalzanti frasi liriche piene di swing.

Insomma, Ottaviano rispetto a Lacy è meno cool e cerebrale, meno geometrico e austero; è invece più viscerale, raggiungendo assieme al trio momenti caldi tipicamente free di vivace scompiglio e articolate dissonanze (ma questo succedeva anche a Lacy, per esempio col quintetto comprendente Steve Potts, e Irene Aebi), momenti che vanno a contrastare con altri più quieti e lirici. Il suo stile è quindi del tutto personale, facendo tutt’uno con quello dei compagni che, con lui, si trovano in perfetta sintonia: lo sostengono adeguandosi alla sua impostazione, ma anche procedendo per contrasti, in maniera burrascosa quando lui cammina linearmente e senza fronzoli. Faraò accompagna con un continuo assolo di batteria, sfrangiato, multiforme, pressante, poliritmico e coloristico, e anche Gallo, seppur contemporaneamente faccia con polso fermo da pendolo regolatore, si getta elastico e duttile in arzigogoli melodici che fanno il paio con quelli dei partners, tutti, a ogni sollecitazione, vicendevolmente rispondendosi. Ispirati quindi sì da Steve Lacy, ma rimanendo ben lontani da ogni tipo di emulazione, i tre hanno presentato una musica che si sfrangia e si disperde in un continuo frantumarsi e ricomporsi, in onore del jazz con la J maiuscola.
Aldo Gianolio

*Le foto sono di Gabriele Lugli

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