Unica data italiana al Festival Aperto di Reggio Emilia (con il patrocinio di Angelica di Bologna) per l’esplosiva Special Big Band di Otomo Yoshihide, chitarrista e compositore giapponese attivo nella musica sperimentale jazz, rock e classica contemporanea come nella musica per il cinema e la televisione. Tutto ciò s’è trovato ingigantito e portato al parossismo nella performance reggiana della travolgente big band di sedici elementi, non divisa nelle classiche sezioni della classica orchestra jazz, ma con un organico di strumenti paritetici: tre sassofoni, un flauto, un clarinetto, una tromba, un trombone, un basso tuba, una fisarmonica, una tastiera elettrica, un basso elettrico, una elettronica, due batterie, una percussione (includente anche la marimba) e la chitarra elettrica del leader.
Il concerto è iniziato con i potenti accordi iniziali, ad alto volume e martellanti, del brano composto da Otomo, come quasi tutti quelli suonati, “Stone Stone Stone”, che dà anche il titolo all’album uscito nel 2022 per la Little Stone Records. Il brano riassume in sé l’intera concezione di poetica di Yoshihide, con una festosa incalzante frenetica vivacità, grande vigore del suono, accentuata e mossa poliritmicità, senso di danza concitato, linee melodiche pop accattivanti, semplici, spesso reiterate, progressivamente sfaldate e coperte da suoni in completa libertà, disarmonici e caotici, che le fanno lentamente scomparire come ingoiate dalle sabbie mobili.
Le precise partiture lasciano ampio spazio agli interventi della conduction principale dello stesso Yoshihide, ma pure a singole conduction di musicisti dell’orchestra che si mettono a dirigere anche in tre contemporaneamente, ognuno rivolgendosi solo a una piccola parte dei compagni, determinando improvvisi e parziali stop, riprese, aumenti di volume e concitazioni free che modellano il brano in diverso modo, offuscandolo, sfrangiandolo e portandolo verso caos e rumore. Questo succede in quasi tutti i pezzi, che rilevano nelle parti iniziali musica pop facile e piacevole con un certo afflato kitsch, in quelle finali un guazzabuglio di suoni liberi, ingarbugliati, sovrapposti, asimmetrici, dissonanti e caotici. Lo stesso trattamento anche per i temi di colonne sonore composte da Otomo, come l’Amachan’s Theme, da una serie televisiva di grande successo in Giappone, o la celebre canzone di Burt Bacharach I Say A Little Prayer For You, o i brani di due dei suoi modelli stilistici: Song For Che di Charlie Haden e Something Sweet, Something Tender di Eric Dolphy.
I musicisti intervengono come solisti perlopiù in spezzoni o in modo collettivo intersecandosi e sovrapponendosi ad altri, come singoli emergono soprattutto il poderoso trombonista Imagome Osamu, l’energico sassofonista soprano e tenore Suzuki Hiroshi, Sachiko M, le cui onde sinusoidali sono onnipresenti, ma mai invadenti (sembrano i suoni del theremin) e, sempre in primo piano, sia come accompagnatore che come solista, Yoshihide stesso con la chitarra distorta e fragorosa.
Non mancano i momenti più tranquilli, anche se radi, come nell’esecuzione della canzone Annéès de solitude di Astor Piazzolla, dove Okuchi Shunsuke usa la fisarmonica nel modo più tradizionale, o in alcune parti dai suoni diradati, riverberi aleggianti e sparsi effetti elettronici, tanto che il secondo dei due bis è stata una cullante ninna nanna.
Aldo Gianolio
Foto di Pietro Bandini