Mélanie De Biasio: il soffio e il silenzio

di Marta «Blumi» Tripodi

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La cantante e compositrice belga Mélanie De Biasio è un personaggio riflessivo ed ermetico ma di assoluto rilievo sulla scena contemporanea.

Ci sono interviste complicate da realizzare per le contingenze – l’artista è stanco o notoriamente scorbutico, oppure di solito è molto cordiale ma stavolta ha poco tempo, o ancora è in un luogo remoto del mondo e la linea è disturbata – e altre complicate per la loro stessa essenza. Quella a Mélanie De Biasio appartiene alla seconda categoria. Artista riflessiva e a tratti quasi ermetica, ha fatto del silenzio e del misurare attentamente le parole una religione: nella sua poetica neppure una sillaba è lasciata al caso, e questo vale sia per la musica sia per il suo rapporto con la stampa. Nei quindici minuti che abbiamo trascorso insieme al telefono per parlare del suo ultimo lavoro, «Lilies», sono state numerose le pause (sempre cariche di significato), le risposte a monosillabi (perché non c’era altro da aggiungere), le richieste di ripetere la domanda (per essere sicura di averne colto ogni sfumatura). Ma alla luce della sua storia, tutto ha un senso. Mélanie nasce in Belgio, anche se ha origini italiane, e cresce circondata dall’arte, tra lezioni di balletto e di flauto traverso. Mostra un talento precoce per la musica classica, tanto che parte anche per una tournée americana con un’orchestra giovanile. Da adolescente, però, si appassiona al blues e al rock, pur continuando gli studi al conservatorio. Ma perfino il suo corpo sembra suggerirle che non si tratta del genere musicale adatto a lei: a furia di sforzare la voce, dopo un tour in Russia con la sua band, una devastante laringite la costringe al silenzio per oltre un anno. In questi dodici mesi di riposo forzato ha il tempo di meditare sul suo futuro, e quando guarisce ricomincia da capo, inaugurando una promettente carriera nel jazz grazie al provvidenziale incontro con il compatriota Steve Houben, già sassofonista di Chet Baker e Bill Frisell. Ma è solo nel 2013, con l’album «No Deal», che il mondo scopre il suo dono, grazie a due talent scout d’eccezione. Il primo è il leggendario Jools Holland, che è talmente colpito da lei che la invita a partecipare al suo storico show alla BBC; il secondo è Gilles Peterson, produttore e conduttore radiofonico di fama internazionale, che di quel disco farà una celebre versione remix, lanciandola anche tra gli appassionati di musica elettronica. Ai tempi Mélanie ha già trentacinque anni, ma non è mai troppo tardi per trovare la propria strada: da allora non si è più fermata, conquistando il favore di pubblico e critica.

Tutti, da Wikipedia in giù, ti associano al jazz. Ma tu, personalmente, ti consideri una jazzista?
No, assolutamente. Mi considero una musicista a tutto tondo, un’artista che racconta una storia e ha urgenza di comunicare delle cose. Penso che la gente mi associ al jazz perché ho un modo molto particolare di stare sul tempo.

Qual è il tuo rapporto con questo genere musicale, quindi? Lo vivi come un’etichetta scomoda o ne sei felice?
Lo amo molto.

Quando è iniziato questo amore?
L’ho scoperto quando frequentavo il Conservatorio Reale di Bruxelles: ai tempi non avevo un animo molto jazz (preferivo di gran lunga il blues, in qualche modo vengo da lì), ma mi sono specializzata in quello e man mano che lo studiavo ho cominciato a capirlo meglio e ad appassionarmi.

Mélanie De Biasio (foto di Frank Loriou)
Mélanie De Biasio (foto di Frank Loriou)

C’è un album che è stato particolarmente importante per la tua formazione musicale?
Un album importante… (seguono cinque secondi abbondanti di silenzio, tanto che temo sia caduta la linea, ndr) Difficile a dirsi. Ce n’è più di uno, per ogni momento chiave della mia vita. E ovviamente è complicato scegliere un solo momento chiave, e di conseguenza un solo album. È una domanda troppo complicata, preferisco non rispondere. Perdonatemi.

Hai sviluppato il tuo modo di cantare, estremamente personale e inconsueto, dopo avere avuto dei problemi alle corde vocali tali da aver perso la voce per un anno intero. Cos’hai imparato in quel difficile periodo?
Il fatto di perdere ciò che hai di più caro ti chiarisce tante cose: ho capito che dovevo mettere la mia voce al servizio di qualcosa di più alto. Sapevo che quando l’avessi recuperata, avrei dovuto impegnarmi per onorarla e non forzarla mai più. Stare zitta per dodici mesi mi ha permesso di concentrarmi sull’introspezione, di comprendere che anche il soffio e il silenzio hanno un loro significato. Il soffio è ciò che precede la voce; il silenzio va abitato. Ho sviluppato una relazione e un dialogo con l’assenza di suono. Oggi riesco a imporre la mia presenza anche con una singola nota, ho lavorato tanto sulla minimalità e ho preso coscienza del fatto che, se sei in mezzo al nulla, puoi trasmettere una sensazione di grande importanza anche con poco.

Parlando del tuo ultimo album, perché chiamarlo «Lilies», gigli?
È il titolo di uno dei brani, ma l’ho scelto soprattutto per il suono. È un titolo corto, che mi piace molto dire ad alta voce: Lilies, Lilies Lilies… (Lo pronuncia con l’accento sull’ultima sillaba, alla francese, ndr) Non so perché, ma muovere le labbra per scandire questa parola mi smuove qualcosa di profondo. Per questo lavoro, a differenza di quanto era successo col precedente, sentivo il bisogno di tornare all’essenziale, alla fonte di tutto, che è il rapporto tra la voce e il silenzio, di cui parlavo prima: avevo bisogno di rimettere la voce al centro. Quando pronuncio la parola Lilies ho l’impressione di risvegliare tutte le sonorità della mia bocca, di dare un’anticipazione all’ascoltatore di tutto ciò che poi sentirà all’interno di queste nove tracce. È qualcosa di magico e quasi inspiegabile.

In che modo quest’album è diverso da «Blackened Cities», quindi?
«Blackened Cities» era un viaggio cinematografico di 24 minuti, dove i miei interventi cantati erano semplicemente al servizio di un mondo strumentale ricchissimo. Tutto era costruito sugli arrangiamenti, e la mia voce era quasi una parte marginale, tant’è che per gran parte del tempo non canto neppure. Stavolta, invece, volevo che il fil rouge fosse proprio la mia esperienza di cantautrice. Volevo che la mia bocca, con tutte le sue risonanze, fosse lo strumento principale. Spero di essere riuscita nel mio intento.
Dalle tue risposte si intuisce che c’è uno studio profondo dietro ogni dettaglio dei tuoi progetti; nella tua musica resta spazio anche per gli aspetti più istintivi e meno ragionati?
In realtà credo che la mia musica sia molto più istintiva che pensata: cerco di seguire l’impulso del momento, quando compongo e interpreto.

Mélanie De Biasio «Lilies»
Mélanie De Biasio «Lilies»

Tornando a «Lilies», il video del singolo Your Freedom Is the End of Me è molto particolare: ha per protagonisti due wrestler che si scontrano sotto i tuoi occhi, finché uno spettatore non si arrampica sul ring, mette KO l’arbitro e i due combattenti e infine si ricongiunge a te in un abbraccio appassionato…
Di solito in una storia d’amore ci sono un uomo, una donna e un rapporto che intercorre tra i due: non appena sopraggiunge della confusione tra i confini di queste tre entità, arriva la sofferenza. Penso che se riusciamo a focalizzare la nostra attenzione su ciò che il rapporto comporta per l’altro e non solo per noi, abbiamo la possibilità di progredire e trasformare davvero la situazione. L’uomo che irrompe sul ring è il mio amante, e la nostra relazione è rappresentata dai due combattenti, che sarebbero i nostri due ego. Io stessa invito il mio partner sul ring, mentre osservo i nostri ego che si massacrano, perché entrambi dobbiamo fare il punto sulla nostra coppia: cosa sta succedendo alla nostra relazione? Chi parla e chi ascolta? Chi prevale sull’altro? Alla fine, quando gli ego vengono messi a tacere, la nostra relazione può finalmente affrontare un vero cambiamento in positivo.

Anche il brano che chiude l’album, And My Heart Goes On, colpisce parecchio: ce lo spiegheresti con parole tue?
Il testo comincia con i versi «I’m suffering, my resistance / at your insistence»; sto soffrendo, e la mia sofferenza arriva per tua insistenza. Sembra che mi stia rivolgendo a qualcun altro, ma in realtà è un dialogo tra me e me. Credo che quando si soffre per qualcosa è perché non la si accetta; o meglio, la non-accettazione una determinata situazione fa sì che ci si trinceri in una resistenza ostinata. E forse è proprio quello che ci fa più male, perché resistere all’inevitabile non è saggio. Se proviamo a rilassarci e a rassegnarci al fatto di non avere il controllo, non può che succedere qualcosa di positivo. E se proprio non ci riusciamo, meglio piuttosto accettare il fatto di non riuscire ad accettarlo, se capisci cosa intendo. Non è semplice, ma è necessario. Per esempio, è facile dire «Sono arrabbiata!», ma è molto più difficile accettare davvero di esserlo. Anche in questo caso, le parole devono essere messe al servizio di qualcosa di superiore: di fatti, sentimenti, sensazioni.

Marta «Blumi» Tripodi

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