Il «Midwest» di Mathias Eick

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Il trentaseienne trombettista norvegese si attesa tra i più interessanti musicisti del panorama jazzistico europeo. Tre dischi con l’Ecm, in autunno inizierà a comporre il suo quarto album da leader.

Lei suona il contrabbasso, la chitarra, il pianoforte, il vibrafono e, naturalmente, la tromba. Qual è il suo background culturale?

Quando ero bambino avevamo una stanza nella nostra casa piena di strumenti musicali che, ogni giorno, io con le mie sorelle, i miei fratelli e a volte mio padre, suonavamo. Quando avevo cinque anni ho iniziato a studiare pianoforte classico, ma quando compii sei anni mia sorella mi chiese se volessi suonare il corno francese. Risposi subito di sì, ma quando mi chiese di suonarle qualcosa, non andò molto bene! Così, mi insegnò le basi musicali del corno francese e, dopo poco tempo, iniziai a studiare anche la tromba.

Quanto la sua musica è influenzata dalla tradizione musicale norvegese?

Quantomeno nel mio ultimo album, la musica folclorica norvegese ha dato parecchio colore. Negli anni passati, non ho praticato moltissimo la musica tradizionale, ma ho conosciuto Gjermund Larsen, il violinista che suona in «Midwest», e ho voluto collaborare con lui. E’ stato fantastico per me quando ha accettato!

A proposito di collaborazioni, quale ritiene sia stata quella più importante nella sua carriera artistica?

Da professionista, sicuramente il progetto Trondheim Jazz Orchestra e Chick Corea nel 2000. Ho imparato tantissime cose e in diversi campi. Condividere il palco con una star planetaria, imparare tutta la musica nel gruppo, pratica piuttosto impegnativa, e prestare la massima attenzione per i dettagli.

Invece, qual è stata la sua esperienza più importante?

Non sono certo che si sia realizzato e forse è anche evidente. Ogni momento sul palco è fondamentale, perché cerco di trasmettere le sensazioni che provo nel suonare. Quando ero più giovane, prima di salire sul palco ero nervosissimo e agitato, ma tutto diventa più facile quando ti concentri per raggiungere il risultato: trasmettere emozioni.

Parlando di «Midwest», perché ha voluto dedicare un album al Nord America?

Tempo fa ho attraversato gli Stati Uniti da ovest a est e durante i primi giorni fui colto dalla nostalgia di casa. Quando raggiunsi il Midwest, attraversato Chicago e l’area circostante, ebbi la sensazione di sentirmi a casa. Le coltivazioni ricordavano quelle di casa mia, nel sud est della Norvegia. Così, ho imparato che un sacco di gente che vive nel Midwest ha origini norvegesi e mi venne in mente che, in passato, i norvegesi che erano arrivati da quelle parti avranno avuto le mie stesse sensazioni. E allora ho iniziato a scrivere musica…

«Midwest» è un lavoro sinestetico, perché oltre alle note si materializzano profumi, immagini e colori. Era questo il suo obiettivo?

Tutte le emozioni sono personali. Se alcune delle cose che io ho sentito creando la musica sono arrivate anche a chi ascolta, è fantastico: è il mio obiettivo, musicalmente parlando, toccare le corde dell’ascoltatore.

A parte Jon Balke, gli altri suoi compagni di viaggio sono cambiati rispetto al suo precedente album.

Mats Eilertsen è uno straordinario contrabbassista e avevamo lavorato insieme in diversi altri progetti in passato. E’ un grande compositore e un mio ottimo amico. Helge Norbakken è un maestro delle percussioni e della batteria. E’ stata la prima scelta in questo progetto musicale. Tra l’altro, collabora con tantissimi artisti norvegesi del pop, del folk e del jazz.

Fa ancora parte del collettivo Jaga Jazzist?

Ho smesso di collaborare con loro circa due anni fa. Dopo il secondo figlio, la pubblicazione di nuovi album, comporre e andare in tour con quel gruppo era diventato molto complicato. Trascorre quindici anni con i Jaga Jazzist è stata un’esperienza fantastica.

Tre album da leader, tutti e tre con l’Ecm. Un rapporto che si è sempre più consolidato.

Era la mia casa discografica preferita fin da quando ero ragazzino ed essere stato invitato a farne parte è stato il momento più importante della mia carriera. Sono fortemente debitore nei confronti dell’Ecm. La musica che ha prodotto mi ha dato tantissimo: Jan Garbarek, Keith Jarrett, Pat Metheny e tanti altri grandi musicisti.

Cosa è cambiato nel suo stile, nella sua tecnica rispetto al passato?

Cerco di cambiare il mio stile in ogni album che faccio. Il mio modo di suonare la tromba, invece, cambia più lentamente. Penso che il suono della tromba si evolva attraverso il tempo e l’esperienza. Così, spero che in futuro si possa riconoscere il mio suono, ma con un tocco differente.

Lei si sente uno sperimentatore?

Non penso di essere uno sperimentatore. La musica che suono e compongo è per lo più ancorata alla tradizione nordica. Per me ciò che rimane sono le colorazioni date dall’improvvisazione: attraverso le sperimentazioni nelle variazioni nell’armonia e nella forma.

Cosa pensa del futuro del jazz, della sua evoluzione?

Per me jazz è una parola aperta a diverse soluzioni musicali ritmiche, senza confini. Per sopravvivere deve evolversi e non sono uno di quelli che vogliono attaccarsi alla tradizione solo per preservarla. Se ti leghi esclusivamente alla tradizione, il tuo pubblico si estinguerà. Ho bene a mente la storia del jazz fin da ragazzo e il mio obiettivo è quello di cercare di portare la musica fino alla contemporaneità.

Qual è la sua opinione con riguardo alla scena jazzistica italiana? C’è qualche musicista italiano con il quale vorrebbe collaborare?

Da tanti anni ammiro moltissimo Stefano Bollani e sarebbe bellissimo poter collaborare con lui in futuro.

Quali sono i suoi prossimi impegni?

Quest’anno sarò in giro con del nuovo materiale e in autunno inizierò a comporre per un nuovo lavoro discografico. Quali saranno i tratti salienti non saprei dirlo, ma ho un sacco di idee e sto cercando di guardare avanti.

Alceste Ayroldi