Monsieur Solal, corre voce che lei stia scrivendo una sinfonia. Se la notizia fosse vera, potrebbe raccontarci come procede il lavoro?
Aspetti un attimo. Lei come fa a sapere che sto scrivendo una sinfonia?
Non ricordo con precisione, mi sembra di averlo letto in rete o su Jazz Magazine.
È proprio vero che al giorno d’oggi non c’è più il diritto alla privacy!
Mi dispiace, non volevo. Può anche non rispondermi…
Ma no, stavo scherzando, non è un segreto. Da quando ho smesso di suonare in pubblico – anche a casa non tocco quasi più il pianoforte – l’unica cosa che mi resta da fare è comporre. Ho terminato da poco un lavoro molto lungo e qualche mese fa mi è venuta voglia di scrivere una partitura sinfonica che probabilmente non sarà mai eseguita. Non sono un’eccezione, è il destino dei lavori di tanti compositori. Quello che scriviamo vedrà mai la luce? Resisterà alla prova del tempo? Dipende dalle opportunità, non certo da noi.
Mi sembra di capire che non scriva più partendo dal pianoforte.
Ho fatto progressi – penso si possano definire così – e mi sono quasi del tutto liberato del piano. Fino a oggi ho scritto dei concerti per solisti e orchestra. Per questa sinfonia la base è la stessa, manca però il solista. E il desiderio, che si rinnova ogni volta che compongo per grande orchestra, è di avere a disposizione trenta, trentacinque archi.
Potrebbe spiegarci perché nei suoi concerti per solista e orchestra l’improvvisazione è praticamente scomparsa?
A un certo punto mi è sembrato ovvio, non volevo correre rischi. Ammettiamo che qualcuno decida di eseguire uno dei concerti. Per prima cosa voglio evitare che il solista di turno sfregi il concerto con il proprio segno, in uno stile distante dalla pagina. In secondo luogo, la maggioranza degli improvvisatori è vicina al jazz e non è detto che capiscano cosa viene loro richiesto. Perciò ho progressivamente eliminato l’improvvisazione dai concerti che scrivo. I rari spazi in cui sopravvive sono piccolissimi ritagli. Troviamo un esempio in Icosium, per tromba, piano e orchestra. La sinfonia è tutta scritta, dalla prima all’ultima nota. Se mai la terminerò, l’esecutore dovrà rispettare la mia volontà. Tuttavia, e mio malgrado, certe sue parti provengono dal jazz: un passato lungo come il mio non si cancella di colpo. L’ambizione – se mi passa la battuta – è di far swingare un’orchestra sinfonica.
Se l’improvvisazione è confinata ai margini estremi dei suoi concerti, lo stesso non si può dire dei jazzisti, da sempre presenti nelle file delle orchestre.
Alcuni passaggi chiamano direttamente in causa un’interpretazione di tipo jazz; servono musicisti che conoscano quel linguaggio e sappiano leggere molto bene. Direi che François Merville corrisponde a questo profilo.
In occasione dei concerti a Radio France del 2020, ha ritoccato delle composizioni?
Ho riorchestrato in chiave sinfonica Coexistence, composta in origine per la Dodecaband e l’Orchestra nazionale di Francia. Non avendo più a disposizione la big band, mi sono servito della sola orchestra.
Lei ha dichiarato: «Mi piacciono i musicisti accademici che amano il jazz». Uno di questi è stato il compositore e direttore d’orchestra Marius Constant, un altro è il trombettista Thierry Caens e potremmo citarne tanti altri. Che idea si è fatto dell’ambiente accademico in tutti questi anni?
Non so se sono in grado di risponderle con completezza, però penso che i musicisti accademici siano in generale molto interessati a ciò che viene eseguito e anche composto dai jazzisti, ammirano sempre le cose che non sanno fare. D’altro canto, se escludiamo alcuni rarissimi casi, il jazzista invidia la tecnica dei concertisti, la musica di un compositore classico o le qualità di un direttore. Nel complesso sono due mondi che si guardano con rispetto, a condizione che nei due campi siano schierati grandi musicisti.
Dalla nuova sinfonia e dai concerti, iniziati nel 1981, torniamo indietro fino al 1965, quando lei registra «En liberté» con Gilbert Rovère al contrabbasso e Charles Bellonzi alla batteria. Il disco presenta brani in solo, il piano trio, un trio con clavicembalo, un duo fra piano e clavicembalo. Due anni più tardi la clavicembalista svizzera Antoinette Vischer inserisce il Petite pièce pour piano, clavecin et contrebasse, da lei composto, in una raccolta intitolata «Le clavecin moderne», edita da Wergo. Non pensa che il clavicembalo di «En liberté» c’entrasse qualcosa?
No, quel disco non c’entra nulla e nemmeno quei pezzi, registrati per puro divertimento e piuttosto brutti. Semmai Antoinette mi chiese di comporre perché conosceva il mio percorso. E si torna a ciò che dicevamo prima sul rispetto fra interpreti di diversi ambiti. Il clavicembalo fu un incidente: per scoprirne la quintessenza devi capire e imparare il gioco dei pedali, che non ha nulla a che vedere con quello del pianoforte. Chiunque al clavicembalo può far meglio di me. Allo stesso modo, in un’altra occasione e sempre per divertimento, ho registrato un brano all’organo, per fortuna mai finito su disco.
Però il clavicembalo torna più tardi, nei Pièces pour clavecin & percussion destinati a un’altra clavicembalista, Elisabeth Chojnacka, e al percussionista Sylvio Gualda. Come andò in quell’occasione?
Io ed Elisabeth ci conoscevamo bene. Ha sempre amato il jazz e veniva ai miei concerti. Fu lei a chiedermi di scrivere quel brano. Non aveva una cultura jazz, perciò le diedi parecchi consigli sul fraseggio: passavamo molto tempo assieme. A Elisabeth sfuggivano tanti aspetti legati all’interpretazione jazzistica, le sembravano complicati. Ma ha sempre cercato di fare del suo meglio ed era dotata di un’incredibile cultura musicale, sapeva suonare cose molto difficili.

Cito una sua risposta a un gruppo di intervistatori di Jazz Magazine, lo scorso autunno: «Secondo me, prima dell’arrivo del free jazz avevamo raggiunto una tale perfezione nel nostro campo che era diventato impossibile spingersi oltre, bisognava fare qualcos’altro. Poi ci sono stati il free jazz e tutti i suoi derivati, quindi abbiamo dovuto reinventarci un’altra volta». In che cosa consisteva la «perfezione» cui si riferiva?
Nel livello tecnico, molto elevato, in una sapienza armonica molto elaborata raggiunta dai maestri degli anni Cinquanta, preceduti da grandi compositori come Duke Ellington, per citarne uno, autori di capolavori. Per esistere con quel passato più o meno recente, i giovani musicisti erano quasi obbligati a fare altro. Chi ha aperto le porte del movimento free in realtà lo ha fatto per evitare le difficoltà tecniche di quel decennio, divenuto molto complicato e che richiedeva una grande cultura tecnica e armonica. Saltano le regole, non si suona più sugli accordi, il tempo non è più necessario, la tecnica diventa inutile. Tutto è permesso e concesso.
Ricordo un concerto di Ornette Coleman in Germania durante quegli anni. Le basterebbe studiare tromba e violino trenta secondi per suonare quei due strumenti come li suonava lui. Vi era anche un’altra consapevolezza nascente: in quel clima, tutti pensavano di essere musicisti. Ciò detto, quel vento di libertà aveva aspetti molto stimabili: la libertà è magnifica, chi può negarlo. Io per primo, dopo un rigetto iniziale, me ne sono servito per implementare la cultura jazz tradizionale. Nella pratica del piano solo, per esempio. Acquisii una certa libertà armonica e melodica, lavoravo senza schemi predefiniti e mi lanciavo in improvvisazioni che duravano minuti e minuti su un unico accordo. Ci voleva un sicuro talento per farlo con convinzione ed essere al contempo convincenti.
Il primo brano di «En liberté» è Liberté Surveillée: un modo di ironizzare sul free?
Un semplice gioco di parole.
Prima di comporre per il cinema, qual era il suo rapporto con la settima arte?
Ero uno spettatore assiduo, mi è sempre piaciuto molto, fin dall’infanzia. Quand’ero bambino andavo regolarmente al cinema con i miei genitori, anche due volte alla settimana, che all’epoca non era niente male. E sono tuttora un fan di cinema, anche se trovo quello contemporaneo meno interessante. Continuano a piacermi certi temi, certe direzioni. Anche la televisione mi ha aiutato a conoscere tanti film.
Quali sono i temi e le direzioni che la interessano?
Sono legato ai temi classici, letti anche in chiave moderna, al cinema di avventura: queste cose possono anche convivere. Temi tradizionali come i grandi sentimenti non mi dispiacciono affatto, ma faccio attenzione a come sono trattati, al montaggio, alla musica utilizzata. A molti registi rimprovero il fatto di aver ridotto la musica a un accessorio. Sono scomparsi quasi del tutto quei leitmotiv che sottolineano un’azione o un carattere; spesso e volentieri nei film di suspense ascoltiamo una nota, una sola nota emessa da uno strumento elettronico che dura tre minuti. Ripeto: una nota, non due. Non l’ha notato?
Sì, capisco cosa intende.

Oggi non ci sono più grandi compositori che compongono per cinquanta film, semmai ci sono cinque compositori per cinquanta film. I registi non attribuiscono più un’importanza capitale alla musica, lavorano con gli amici, con chi gli viene consigliato, oppure scelgono alla radio, fanno delle compilation, non c’è più unità musica-immagine.
Visto il suo contributo a Deux hommes dans Manhattan (1959) di Jean-Pierre Melville e a Échappement libre (1964) di Jean Becker, passando per Les ennemis (1962) di Éduard Molinaro, le piacciono anche i polizieschi e i film di spionaggio?
Sì, però voglio precisare una cosa. In quegli anni, il jazz associato al poliziesco, alla suspense, ai film di spionaggio è stata una scelta stabilita dai produttori. Essendo catalogato «musicista jazz», mi chiedevano di comporre per il cinema nello stile della big band. Scrivevo colonne sonore con la cultura jazz senza che fossero propriamente jazz. Era una cosa comunissima, all’epoca. Ma a partire dal 1965, o giù di lì, le cose cambiarono e il jazz passò completamente di moda.
C’è una colonna sonora che avrebbe voluto comporre?
Oh, tante, troppe per citarle. Se avessi l’opportunità scriverei per il cinema senza limitarmi al jazz. Mi piacerebbe molto scrivere musica sinfonica o che qualcuno utilizzasse i concerti che ho composto. Sono impregnati di cultura jazz, presumo che potrebbero essere interessanti. Ci sono spezzoni di musica sinfonica in Léon Morin, prêtre e negli archi di À bout de souffle. Ma mi sarebbe piaciuto scrivere di più e mi dispiace che la sinfonia sia diventata merce rara. Il jazz è più specifico; il rock o la musica elettronica sono particolari, mentre la musica sinfonica è varia, polivalente, ricca. Si estende senza restrizioni da Bach alla contemporaneità, copre tutte le epoche e si adatterebbe, secondo me, a tutti i tipi di film.
Alla fine degli anni Novanta lei compone per Bertrand Blier la colonna sonora di Les acteurs. Che cosa ricorda di quella collaborazione?
Che fu una bellissima esperienza. Vuol sapere perché?
Mi dica pure.
Perché abbiamo lavorato seriamente. Ero abituato a guardare i film in sala montaggio e subito dopo a comporre. Gli scambi finivano lì. Con Bertrand Blier tutto il contrario. Abbiamo passato diverse giornate a lavorare assieme, gli presentavo la musica e ne parlavamo. Purtroppo non ci sono state altre occasioni dopo Les acteurs. Ma di tutte le collaborazioni con i registi quella con Bertrand Blier è stata la più interessante.
Nel film sfilano alcuni tra i più importanti attori francesi. È un’impressionante galleria di ritratti: ognuno racconta di sé e anche di altri attori. Un film classico per l’importanza che rivestono testo e recitazione, non è un documentario e nemmeno una serie di interviste strutturate. Blier ha dichiarato che, all’opposto dei film «sociologici», Les acteurs doveva far ridere. Non ha mai pensato di essere stato ingaggiato per rievocare un’âge d’or del cinema?
Non saprei, dovrebbe chiedere a lui.
Quindi non le ha detto per quale motivo la scelse?
No. Di Bertrand Blier mi piaceva il livello di esigenza, era attento a tutti gli aspetti, un vero regista. Secondo me intuì che avrei compreso come voleva girare.

Conferma di aver registrato con Roger Guérin un brano totalmente free jazz per Le doulos (1962) di Melville?
Confermo, me lo ricordo. Ci trovavamo in studio per fare tutt’altro e io proposi a Roger di suonare: fu un esperimento di breve durata, tutto improvvisato. Mi sembra che il piano non fosse a coda.
Poi la musica di quel film fu affidata a Paul Misraki con la collaborazione di Jacques Loussier.
Melville rifiutò quella proposta e altre che gli feci. A un certo punto mi arrabbiai e anche lui si arrabbiò. Non sapeva bene cosa volesse, il fatto è che rifiutava tutte le mie proposte. Peccato, perché mi sarebbe piaciuto fare quel film. Detto ciò, sono riconoscente a Melville perché fu lui a suggerirmi a Godard.
Guérin la interessava anche per i suoi studi accademici?
No. Gli studi gli erano serviti a imparare la tromba; a me interessava il jazzista, un grande jazzista, che aveva compreso molto bene le caratteristiche del jazz. Buon per me che si fosse diplomato con lode al conservatorio, voleva dire che era dotato di un’eccellente preparazione. Ma la tecnica strumentale non è mai stata un fine, bensì una necessità assoluta per suonare bene.
Tra due ritmiche francesi, si ritrovò a suonare, nel 1963, con Paul Motian e Teddy Kotick, la prima di una lunga serie di ritmiche americane. Che sensazione le fece?
Non ho mai pensato che fosse la nazionalità a fare la differenza, bensì l’individualità. Per certe cose preferivo i batteristi francesi, per altre gli americani, idem per i contrabbassisti. È un fatto da tenere bene a mente. Gli americani hanno un vantaggio considerevole rispetto a noi: sono più numerosi, e quindi la scelta è maggiore. La quantità di ritmiche europee di grande qualità è per forza di cose inferiore a quella americana. Suonai con Motian e Kotick perché mi diedero l’opportunità di farlo, mica potevo rifiutare. Fu una grande fortuna, perché suonavano benissimo.

Insegnò loro anche la Suite pour une frise…
Allora suonavo pochissimi standard, solo composizioni originali, anche perché mi ero impegnato a comporre sin dall’inizio degli anni Cinquanta. Come molti jazzisti di quell’epoca, Motian e Kotick non sapevano leggere la musica, però avevano una memoria e una facilità di apprendimento straordinarie. A dire il vero non mi limitai a quella Suite, insegnai loro buona parte del mio repertorio e funzionò a meraviglia.
Ma durante le improvvisazioni lei tiene conto della forma?
Questo è un punto importante: quando scrivo o suono non penso alla forma, che invece si delinea automaticamente. Porto con me da molti anni l’etichetta di musicista che salta da una cosa all’altra e che cambia atmosfera di continuo, ma nella mia testa vedo un tutto unitario, come un grande libro composto da tanti capitoli diversi l’uno dall’altro. Spetta al lettore saper rimettere insieme tutti i pezzi e riorganizzare il materiale per quanto esso possa essere diversificato. Ma allo stesso tempo non c’è niente di diverso, è sempre la mia testa, ne ho una sola, ci faccio quello che posso.
Le medleys sui temi di Ellington degli ultimi dischi sono spontanee?
Totalmente spontanee. Consiglio di attendere la pubblicazione di un live registrato a Monaco e di confrontare la medley di quel concerto con quella di «My One And Only Love» e del live a Gaveau: penso che le differenze siano evidenti.
Quindi non c’è nulla di premeditato?
Di premeditato ci sono quei quattro o cinque temi o che mi frullano nella testa. L’abilità sta nel trasformare ogni volta l’impasto usando gli stessi ingredienti.
In seguito al concerto alla Salle Gaveau del gennaio 2019, lei ha dichiarato che le sarebbe piaciuto approfondire degli spunti emersi nel corso dell’esibizione. A che cosa si riferiva?
Non corrisponde proprio a quel che ho detto, o forse mi sono espresso male. Volevo più che altro incitare i giovani musicisti a seguire certe intuizioni di quel concerto, a indagare alcuni aspetti dello stile. C’erano dei progressi dal punto di vista costruttivo, la tecnica era più avanzata rispetto ad altre registrazioni. Pensavo e speravo, forse invano, che in un futuro più o meno prossimo qualche musicista si sarebbe interessato e avrebbe seguito quella direzione. Magari mi sbaglio, non c’è alcun motivo per riprendere quel concerto, e forse sono solo presuntuoso.
In primo luogo, bisognerebbe trovare un pianista disposto a seguire i suoi passi…
Al di fuori di Francia ed Europa ce ne sono. So per certo che tanti musicisti si sono lasciati ispirare da ciò che ho fatto. Charlie Parker o Bill Evans sono modelli assoluti nel jazz, copiati e ricopiati, mentre io non sono un musicista facilmente copiabile. E non essere copiati può diventare una grande qualità.
Che cosa la rende un soggetto difficile da copiare?
Quello che dicevo prima: i miei sbalzi d’umore, il fatto che passo da un’idea all’altra. Riesco sempre a superare la difficoltà e andare da un punto all’altro: da A a B possono succedere mille cose oppure niente. Una storia può essere anche disarticolata, io mi preoccupo che ci siano un inizio e una fine, nel mezzo succede quel che succede, mi lancio a briglie sciolte. Risulta più facile copiare un modello uniforme mentre io non sempre lo sono. Per esempio, uno dei miei dischi migliori è un’incisione effettuata a Milano in un piccolo studio, su un quarto di coda. Sulla carta le condizioni sembravano sfavorevoli, invece venne fuori probabilmente la registrazione che preferisco.
Credo che stia parlando di «Bluesine».
Mi sembra di sì. L’etichetta era la Soul Note, l’anno il 1983. Quel disco è più classico rispetto all’ultima registrazione, dove mi concedo una maggiore libertà.
È vero che i consigli di Pierre Sancan, concertista classico e figura di spicco della didattica francese, l’hanno aiutata a risolvere i problemi con il suono?
In realtà Sancan non mi ha dato alcun consiglio. Però ho ascoltato cosa diceva ai suoi allievi e alcune frasi pronunciate a qualche amico quando ci siamo trovati a cena seduti allo stesso tavolo; consigli sul suono, sul peso del corpo, sull’approccio allo strumento, su come sedersi, tutte cose che – non essendo sordo – ho fatto mie. Non c’è antagonismo tra tecnica e suono. Si può avere un bel suono (o non averlo proprio) suonando una sola nota, e si può anche avere un bel suono suonando rapidamente tante note. Per sentire bene le note bisogna premere bene i tasti. Tra gli anni Cinquanta e i Novanta, il mio suono è cambiato in maniera significativa.
Ogni volta che parla di duo, lei evoca il termine sonata. Come mai?
Ricordo un concerto in duo con Stan Getz per la televisione tedesca, un episodio solo un po’ antipatico, nulla di grave. Getz pensava che avessi suonato troppo. Avrebbe voluto, come tanti altri solisti, che il piano accompagnasse. Mentre per me il pianista non deve limitarsi ad accompagnare. Nelle sonate classiche, in tante, non tutte, c’è equilibrio tra gli strumenti, il piano non è in «secondo piano». Ragion per cui considero il duetto come una sonata improvvisata. Certo, ogni volta faccio in modo che ci sia unità ed equilibrio. Quando tempo fa suonai con Franco d’Andrea, fu un concerto molto libero perché in quel periodo a lui piaceva suonare in quel modo e non era mia intenzione guastare l’insieme. Mi adatto sempre, entro i limiti di ciò che so fare e mi va di fare.
Come è andato l’incontro con Dave Liebman?
In Francia diciamo: «Imbucato come una lettera alla posta». Liebman conosceva bene il duo con Lee Konitz; all’inizio era un po’ intimorito perché doveva capire come interagire, ma non ci siamo fatti domande e posso dire che ci siamo ascoltati e anche influenzati a vicenda, pur mantenendo le nostre individualità. Per una serie di circostanze il secondo disco, «Masters In Paris», è migliore del primo, registrato a Bordeaux. Ma avrebbe potuto essere il contrario.
Il terreno di intesa con Konitz.
Molto è stato detto, ma per me rimane difficile descrivere la nostra lunga e bellissima collaborazione. Il terreno di intesa erano gli standard, sempre gli stessi, scritti su un fogliettino che credo abbia circolato per quasi vent’anni. Qual era la difficoltà? Rinnovarsi. Quando l’ho conosciuto, Lee era un musicista quasi normale, un esecutore di chorus, sempre dotati di un certo numero di note. Negli anni ha eliminato sempre di più fino a suonare poco, a concentrarsi su due o tre note, sulla melodia. Per quanto mi riguarda, la nostra collaborazione è evoluta negli anni, ed è molto probabile che alla fine io suonassi meglio che all’inizio. Tutto qui.
Alcune registrazioni con Konitz sono considerate fra i dischi più belli che lei ha inciso. È d‘accordo?
Sì, ma in generale ho un buon rapporto con i miei dischi sin dai primissimi lavori degli anni Cinquanta. Per esempio, ricordo che rimasi molto soddisfatto delle mie prime incisioni, erano esattamente quello che volevo fare, si percepiva già il desiderio di evitare le convenzioni, tipo introduzione e coda, e di aggiungere poche, piccole cose, un tocco personale. E rimasi ancor più soddisfatto quando quelle incisioni furono riprese e ristampate da un’etichetta americana. Da allora, da quel decennio, sono progredito con la musica: man mano che il jazz avanzava, mi aggiornavo: non sono stato io a inventare tutto, ovviamente. Sono stato influenzato, e forse ho influenzato qualcuno anch’io. Ma non rimpiango nulla, posso al massimo rimproverarmi di non aver seguito alcune registrazioni come avrei voluto.
Per esempio?
L’ultima per Jean-Marie Salhani, «Histoires Improvisées», un disco un po’ frettoloso, si poteva fare di meglio. Ci sono altre registrazioni che non ho gestito affatto, a questo punto non saprei dirle quali, ma nel complesso, come le dicevo, sono soddisfatto. Me la sono quasi sempre cavata con una o due takes, si rispondeva agli errori sul momento, in maniera spontanea: tutta una questione di testa e riflessi.
Qualche collega francese di una generazione più giovane di lei sostiene che se escludiamo i grandi maestri americani – da Scott Joplin a Duke Ellington, da Louis Armstrong a Charles Mingus e via dicendo – non c’è una reale differenza fra americani ed europei. Mi ha già risposto parlando delle ritmiche, ma vorrei sapere che cosa ne pensa di questa considerazione.
Che sono d’accordo. La vera differenza è nei numeri: loro sono di più. Hanno un impatto economico conseguente. L’Europa non è gli Stati Uniti. Siamo in Francia e lei è italiano: non ho difficoltà ad ammettere che i musicisti francesi o italiani non sono così ricompensati per i loro sforzi. Ho suonato con musicisti italiani di grande talento come Stefano Bollani. Lui, come me, è capace di fantasie armoniche molto interessanti. Il nostro duo, in uno stile classico, può competere con qualsiasi duo americano. Ne approfitto per citare anche Enrico Pieranunzi, altro grande pianista italiano, che partendo da Bill Evans e da altre influenze ha saputo sviluppare un linguaggio armonico avanzato e uno stile personale.
La riedizione di «Locomotion», pubblicato dalla Underdog due anni fa, ci permette di ascoltarla alle prese con il piano elettrico: gli altri musicisti sono Henri Texier al basso elettrico e Bernard Lubat alla batteria. Perché si è interessato molto poco agli strumenti elettrici?
Sa che non lo so? Non ho una spiegazione definitiva. Mi piaceva il piano elettrico, soprattutto il Fender Rhodes, ma più in generale ho sempre avuto l’impressione che gli strumenti elettrici richiedessero una cultura e una conoscenza che non avevo, avrei dovuto imparare a maneggiarli correttamente. E, come dico spesso: «Con le dieci dita che si ritrova, il pianista non può fare niente».
Persino le sue collaborazioni con i chitarristi sono state rare.
Sono talmente poche queste esperienze che non saprei quale risposta darle. E sui miei esordi con Django cosa posso aggiungere di nuovo?
Mentre non si contano i duetti, trii, quartetti, sestetti con altri pianisti, al punto che è persino inutile tentare di abbozzare una lista. Mi limito a un paio di musicisti. Il primo è John Lewis: le interessava in qualità di compositore?
Sì, stimolante, ero agli esordi quando l’ho conosciuto. Mi colpì molto come suonava alcuni accordi, ma in seguito, quando cominciammo a esibirci regolarmente in giro per l’Europa, la situazione si invertì. Era impressionato dalla mia tecnica strumentale. Lewis suonava in modo minimalista, il che ci consentiva, per ragioni diverse, di ammirarci a vicenda. Aveva pregi e difetti, come tutti i pianisti. Il difetto più grave, a mio modo di vedere, era la tendenza a rallentare regolarmente. Ma non lo faceva di proposito, probabilmente era il suo lato linfatico che lo portava a diminuire la velocità. L’altra cosa che mi infastidiva era la considerazione di cui godeva: lui è sempre stato la star, io il solista. Si sa che l’americano è per necessità più interessante del solista, ancor di più se quest’ultimo è francese.
Lewis a parte, la sensazione di essere il solista accanto alla star è durata tanto?
Se n’è andata tanti decenni fa. Suonerei anche con il papa, se fosse un buon sassofonista. Con l’età e l’esperienza non mi impressiona più niente.
Altro compagno di avventure in duo: Hampton Hawes.
Formidabile. Aveva una qualità che a me mancava: una potenza incredibile. E alla potenza abbinava un gran senso dello swing. Mi ammirava molto, ha scritto e dichiarato cose molto belle sul mio conto. C’era una magnifica intesa fra di noi: l’unico errore che ha commesso è stato quello di morire.
A questo punto avrei terminato con le domande.
C’è una cosa che non ha menzionato.
Quale?
La mia collaborazione con Lucky Thompson, durata parecchi anni.
Volevo evitare di risalire troppo indietro nel tempo.
Non si preoccupi. In realtà non c’è nulla di particolare da dire su Thompson, se non il fatto che suonavo e registravo assiduamente con lui, insieme abbiamo fatto una gran quantità di cose. Poi un bel giorno si è arrabbiato perché non potevo accompagnarlo ad Amburgo. Ci siamo incontrati a New York qualche anno più tardi.
Non ce l’aveva più con lei?
No, non più. Però incontrarsi per puro caso nelle vie di New York ha dello straordinario. E più avanti ho incontrato suo figlio (chitarrista) al festival di Chicago, gli assomigliava come una goccia d’acqua e non ho esitato a chiedergli se fosse il figlio di Lucky. Di aneddoti come questo posso raccontarne per giorni e giorni.
Immagino. Un’ultima domanda, allora…
Prima di farmela, mi permetta di dirle che non le credo.
E invece sì, è davvero l’ultima. Mi ero ripromesso di non chiederle nulla sui suoi inizi e su tante altre cose raccontate più e più volte. Però, visto che ha evocato Thompson, mi piacerebbe sapere che ricordo conserva ancora oggi della Parigi anni Cinquanta.
È stato soprattutto un periodo di apprendimento, ogni sera imparavo qualcosa; e, quando si impara, tutto diventa meraviglioso. Ecco cosa sono stati gli anni Cinquanta: un decennio passato tutte le sere nei club.