Many Have No Speech allo Scompiglio

Dalla parte di chi non ha voce in capitolo

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Tenuta dello Scompiglio, Vorno (Lucca)

19 ottobre

Da anni la Tenuta dello Scompiglio, situata nei pressi di Lucca, sta svolgendo un’opera meritoria di promozione e organizzazione di eventi culturali comprendenti arti visive, installazioni, musica, danza e teatro. In questo contesto multidisciplinare occupa un ruolo rilevante anche la musica. Sabato scorso la sezione musicale, curata da Antonio Caggiano e per questa stagione contrassegnata dal tema Voce, vocalità e canto, ha ospitato Many Have No Speech, un evento all’insegna della contemporaneità: sia per i suoi contenuti musicali, dall’ampio spettro stilistico e temporale, che per l’attualità del messaggio che intendeva veicolare. Many Have No Speech, molti non hanno voce in capitolo: i diseredati, gli emarginati, i migranti, gli oppressi. Protagonisti della serata il quartetto Sincronie e, limitatamente a due delle quattro esecuzioni, il chitarrista Sergio Sorrentino e Antonio Caggiano alle percussioni.

Composto da Houman Vaziri e Agnese Maria Balestracci (violini), Arianna Bloise (viola) e Alessandro Mazzacane (violoncello), il quartetto Sincronie ha affrontato il Quartetto d’archi n. 4 di Gian Francesco Malipiero con grande equilibrio e pulizia sonora impeccabile. Risalente al 1934, la composizione getta un ponte efficace tra una tradizione che si ricollega fino a Monteverdi e il Novecento. Infatti, nella dialettica proficua degli archi si colgono qua e là valenze melodiche dotate di una cantabilità tangibile e di connotati quasi «vocali». L’esecuzione si sviluppa attraverso una sequenza di quadri in cui ogni singola voce strumentale emerge con discrezione, proponendo cellule melodiche e sollecitando un gioco di chiamata e risposta, ma sempre nel rispetto di una dinamica collettiva. La modernità del pezzo affiora da passaggi incalzanti, vivaci impulsi ritmici, sfumature timbriche variegate e lievi, ma sagaci, dissonanze.

Quartetto Sincronie

Jesus’ Blood Never Failed Me Yet (1971) di Gavin Bryars richiede l’apporto del quartetto affiancato da Caggiano e Sorrentino. Con felice intuizione Bryars sviluppò il brano dopo aver registrato casualmente la voce di un barbone che cantava i versi Jesus’ blood never failed me yet, there’s one thing I know ‘cause He loves me so. Da questa cantilena ripetuta Bryars ha ricavato una sorta di loop, di banda iterativa che inizialmente viene avvolta da un pianissimo quasi impercettibile degli archi. Il tessuto sonoro viene poi gradualmente arricchito da una vasta gamma timbrica cui contribuiscono con dinamiche soffuse le percussioni (vibrafono, campane tubolari, gong, flexaton) e la chitarra. Un pezzo tutto giocato in punta di piedi, in cui la varietà timbrica e i colori prevalgono sulla ripetizione ossessiva dei versi, destinati a svanire progressivamente nel silenzio.

Four Darks In Red (2009-2010) di Nicola Sani, presente all’esecuzione, trae ispirazione dal quadro eponimo del pittore Mark Rothko, opera potente caratterizzata da fasce di rosso indefinite. Sulla base di questa suggestione cromatica e in considerazione dei legami tra Rothko e compositori del calibro di John Cage, Morton Feldman e Stefan Wolpe, Sani ha realizzato un’ingegnosa partitura per quartetto d’archi ed elettronica, costruendo un impianto interattivo in ottofonia (nella circostanza limitato alla quadrifonia per questioni di spazio). Da una parte, il quartetto Sincronie, con i due violini disposti alle estremità; dall’altra, la parte elettronica a sua volta generata dagli archi debitamente riprocessati del Quartetto di Torino. Una concezione materica del suono che sfrutta al meglio la dialettica feconda tra strumenti acustici, elettronica e spazio circostante, dando vita a un massiccio intreccio di corde stridenti, sfregate e percosse. Ne risulta, a tratti, un vero muro sonoro che riecheggia gli esperimenti di Maderna, Nono e Stockhausen, ma riporta alla mente anche la collaborazione tra Bob Ostertag e il Kronos Quartet in All The Rage.

Antonio Caggiano

Al sestetto è toccato il compito di chiudere il concerto con Paradigm di Lukas Foss, prima esecuzione assoluta in Italia. La composizione è del 1968 e racchiude lo spirito di rottura di quell’epoca, rivelando al tempo stesso un carattere di grande attualità. Si apre con una vivace sezione animata dall’azione incalzante degli archi e del pizzicato, da schegge di chitarra e da una lastra percossa furiosamente. Materia pulsante, scoppiettante, accompagnata da voci concitate che emettono fonemi e sillabe. Negli sviluppi successivi emergono aree di puntillismo e un uso calibrato delle timbriche dei singoli strumenti, che dispensano rapide pennellate di colore. In questi frangenti si ravvisano anche parallelismi con la ricerca compiuta proprio in quel periodo da musicisti dell’avanguardia afroamericana influenzati dal Novecento europeo: Anthony Braxton, Leo Smith e Muhal Richard Abrams. Del resto Foss, tedesco fuggito giovanissimo dalla Germania per evitare la persecuzione ed emigrato negli Stati Uniti, era imbevuto della cultura americana dei Bernstein e dei Varèse. La ripresa della sezione iniziale conduce verso passaggi ancor più concitati dei precedenti e si arricchisce di elementi e gesti teatrali, con Caggiano che percuote la lastra direttamente davanti a ogni singolo interprete. I protagonisti si allontanano dalla scena ad uno ad uno, lasciandovi il solo Sorrentino che dispensa scariche elettriche ed accenna il riff di Foxy Lady di Hendrix.

Sergio Sorrentino

Pur nel suo contenuto composito, il programma – splendidamente eseguito dai sei interpreti – rappresenta efficacemente la complessità dei nostri tempi tormentati. Peccato che materiali di tale e tanta bellezza siano raramente proposti altrove.

Enzo Boddi

Foto cortesia di Tenuta dello Scompiglio

 

 

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