Lizz Wright: Grace

di Nicola Gaeta

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Lizz Wright (foto di Jesse Kitt)
Lizz Wright (foto di Jesse Kitt)

La cantante della Georgia Lizz Wright ha pubblicato solo sei dischi, tutti meditati a lungo e senza fretta. Il suo carattere riflessivo è sempre stato rivolto alle cause sociali e ai rapporti umani, come lei stessa ci racconta.

Le sue note biografiche la descrivono come «una cantante di jazz e di gospel». In realtà Lizz Wright è molto di più. Il suo mondo si muove tra l’amore per la tradizione afro-americana e il cantautorato; è qualcosa a metà, se proprio vogliamo trovare dei riferimenti stilistici, tra Joni Mitchell e Tracy Chapman. Un mondo a parte in cui l’intimismo della canzone d’autore, quella che pesca negli anni Trenta e Quaranta – quando bluesmen e folksingers gettarono le basi per un terreno di coltura che poi generò Bob Dylan – incontra le voci della musica religiosa, del gospel. Lizz non incide molti dischi, i suoi sono lavori pensati e meditati a lungo, come per ogni artista che si rispetti. Ha pubblicato un disco dal titolo «Grace» (Concord, distr. Universal), nel quale le dinamiche del suo modo di concepire la musica sono rispettate alla perfezione.

«È la prima volta che incido un album in cui la title track è decisa da qualcun altro» ci racconta. «È stato il mio produttore Joe Henry, uno dei grandi songwriters di oggi, a farmi sentire una canzone composta da uno dei suoi amici, appunto intitolata Grace. Appena l’ho sentita mi è venuto da piangere. È la prima volta in cui il lavoro di un altro mi emoziona allo stesso modo in cui succede quando scrivo qualcosa di mio pugno. Sono davvero entusiasta e non vedo l’ora di farlo ascoltare dal vivo. C’è una componente visiva molto forte in questa musica, una specie di installazione artistica. Vado continuamente alla ricerca di emozioni intime in quello che faccio, qualcosa che non c’entri niente con tutto quello di cui oggi si ha bisogno per promuovere se stessi, per farsi un po’ di pubblicità. I social media, per esempio, che ci fanno vivere in un mondo virtuale di cui nessuno ha veramente bisogno».

Nella tua musica c’è un forte legame tra la tradizione della tua gente, il gospel, il soul, e un certo tipo di country rock. Ricordo una versione di un pezzo di Neil Young, Old Man, in «Dreaming Wide Awake». Qualche anno fa hai cantato Don’t Let Me Be Lonely Tonight con David Sanborn, poi hai collaborato spesso, in un altro tipo di contaminazione, con Kip Hanrahan. Quali sono le tue influenze?
Le mie influenze sono molto chiare. È sufficiente ascoltare la mia musica. La mia era una famiglia molto spirituale, puoi chiamarla religiosa se vuoi, coinvolta nella vita di chiesa. Allo stesso tempo, però, era fortemente collegata alla terra: abbiamo una tradizione contadina da generazioni. Era gente molto generosa. Quindi ciò che senti nella mia musica non è solo il mio retaggio afro-americano ma anche quello di una persona che vive connessa alla terra con una famiglia che fa lo stesso. Quando si parla con un afro-americano viene fuori immediatamente lo stereotipo «sono afro-americano, discendo dalla schiavitù» ma questa è solo una parte della storia, sicuramente una parte importante di quella storia ma non l’unica. Io cerco di distaccarmi dagli stereotipi e di cantare la mia personalità di donna e di essere umano su questa Terra.

Questo è evidente dalle tue collaborazioni. Lavori con un sacco di gente diversa: Kendrick Scott, Terry Lyne Carrington ma anche Meshell Ndegeocello e molti altri. La bella musica è sempre stato il risultato della cooperazione tra personalità anche molto diverse tra loro. Che ne pensi?
La musica è un dialogo. Sono d’accordo con il modo in cui hai posto la domanda. A me piace potermi sedere con qualcuno, dialogare con lui e intraprendere una conversazione che possa essere interessante e svilupparsi in un linguaggio che ci accomuni. Qualcosa di universale. È una cosa che mi diverte molto. Credo che ci sia bisogno di qualcosa che unisca la gente, soprattutto in un momento come questo negli Stati Uniti, e sono convinta che l’arte fornisca quel qualcosa, con chiarezza, senza bisogno di confronto eccessivo. Riesci con grande semplicità a mostrare chi sei e questa può essere una cosa molto rivoluzionaria.

Mi racconti la tua storia?
Sono la figlia di un ministro del culto. Mia madre ufficialmente è una casalinga ma in realtà è molto coinvolta nell’assistenza sociale, è una persona solare con una capacità speciale di comprendere gli altri. Sono cresciuta con loro, in chiesa. Sono la seconda di tre figli e siamo una famiglia molto unita: mio padre, oltre a mandare avanti la chiesa, andava spesso a far visita negli ospedali, nelle prigioni e ovviamente anche a casa delle famiglie disagiate. C’è sempre stato un senso di condivisione durante la mia vita e, man mano che vado avanti con l’età (ho 37 anni), mi rendo conto che i miei genitori sono state persone speciali. L’arte, la musica, per me è una maniera di comunicare con la vita. Quando avevo vent’anni ero concentrata su me stessa ma oggi ho capito di essere un filtro attraverso il quale gli altri possono mettersi in comunicazione con il mondo. Lo trovo un privilegio. Sono molto grata alla vita per avermi concesso di fare questo lavoro.

Lizz Wright (foto di Jesse Kitt)
Lizz Wright (foto di Jesse Kitt)

Dove vivi?
Nella parte occidentale del North Carolina, in montagna, con persone che amano la terra. Mi piace molto. Mi divido tra le montagne e Chicago.

Ti faccio tre nomi: Joan Armatrading, Joni Mitchell, Ella Fitzgerald. Quale delle tre ti ha influenzato maggiormente?
Ella Fitzgerald. Anche le altre sono musiciste straordinarie, Joni Michell è stata un’influenza incredibile e sono molto contenta di averglielo potuto dire di persona. Ma Ella Fitzgerald sapeva comunicare in maniera incredibilmente generosa il testo dei brani che cantava. Aveva una grande tecnica ma non la metteva mai in mostra. Quel che amo particolarmente di lei è che sia i bambini, ai quali non importa niente delle regole, sia gli appassionati e gli studiosi si riconoscono nella sua musica. Era una musicista molto intelligente ma anche molto umana, un autentico genio, e il suo sound ed il suo spirito sono senza tempo.
La voce di Ella ha il potere di cambiare l’atmosfera all’interno di una stanza piena di gente, è una cosa incredibile. Ovviamente amo anche Joni Mitchell, una musicista meravigliosa, un’artista che ha aperto un’enorme gamma di possibilità restando semplicemente se stessa. Ho avuto la fortuna di poterle parlare tre anni fa e di ringraziarla per quello che ha fatto. È stata un’emozione indicibile.

Che ne pensi dell’acronimo BAM e dell’idea di Nicholas Payton di non chiamare più «jazz» la vostra musica?
Vedo la realtà di alcune cose in quel che dice Nick. La cosa più importante che vedo è un uomo che chiede al mondo di riconoscere il contributo e la storia della sua gente e di accettare che quel contributo viene dalla sua gente. Sta solo dicendo: «Noi abbiamo contribuito a tutto ciò». Il nostro rapporto con il resto del mondo sarebbe migliore se si potesse tutti riconoscere che noi neri abbiamo avuto un ruolo fondamentale nella nascita di questo linguaggio, che gran parte di esso è nata grazie alla nostra generosità. Vedo l’umanità della sua richiesta. È una cosa molto bella, sembra conflittuale ma c’è molto di più. Certo, il jazz è diventato un linguaggio universale ma si è evoluto da una storia, la nostra. Quella di Nick è una reazione a ciò che la vita spesso ci ha riservato, ma è anche una richiesta di partecipazione. In realtà lui dice: «Non chiamateci fuori da tutto questo perchè proviene dalla nostra storia». È una cosa molto interessante. Mi piacerebbe molto avere uno scambio di opinioni con lui.

Lizz Wright «Grace»
Lizz Wright «Grace»

L’America è uno strano Paese. Avete votato un presidente come Obama e oggi votate Trump con mentalità e idee diametralmente opposte. Che sta succedendo? E qual è il tuo punto di vista?
Naturalmente sono preoccupata, ma posso risponderti meglio raccontandoti come l’ho vissuta io. Ero in tour in Germania quando ho saputo i risultati delle elezioni di novembre, avevo ancora qualche giorno prima di poter rientrare a casa per il Thanksgiving. Ero molto nervosa, ho pregato tanto e ho passato molto tempo facendo meditazione e piangendo. Mi sono sentita molto a disagio, ho pensato: «Devo tornare a casa perché sono afro-americana, possiedo un grande pezzo di terra in una zona molto rurale, non possiedo cani e non possiedo pistole, mi piace soltanto vivere vicino alla terra». Improvvisamente il mio senso di appartenenza mi è sembrato coraggioso e audace perché mi rendevo conto che il mio stato, il North Carolina, ha avuto un ruolo decisivo nell’eleggere Donald Trump. Mi rendevo conto che quel voto veniva fuori dalla stanchezza della gente, anche della mia gente, ed ero molto interessata a quello che stava accadendo. Tutta una serie di persone molto povere, amareggiate e distaccate dalla cosa pubblica, improvvisamente si è messa a gridare il suo disgusto verso tutti. Io pensavo: «La mia patria sta cadendo a pezzi». Sono rimasta ancora lontana da casa per un altro mese, sono andata a Chicago mi rendevo conto che la mia vita era cambiata o lo stava già facendo. Che cosa sarebbe successo con la mia vicina che ha 92 anni, gli occhi azzurri, che ha vissuto lì da sempre e a cui voglio tanto bene? Si chiama Vivian, mi ha invitato più volte a cena con la sua famiglia. A lei mi legano ricordi struggenti. A Natale sono stata seduta al suo tavolo con tutta la sua famiglia, io, l’unica persona nera a quel tavolo di bianchi che, mentre servivano quell’enorme pasto, mi chiedevano dei miei viaggi e dei miei tour, e l’intera famiglia si domandava: «Ma com’è possibile che questa donna alta e nera, di 35 anni, e questa altra donna novantaduenne delle montagne siano così buone amiche?» Mi rendevo conto che non lo capivano fino in fondo ma erano felici. Così come erano felici del fatto che avessi accettato il loro invito così insistente e che forse prima ero stata un po’ sgarbata. Era la terza volta che mi invitavano ed non avevo mai avuto il coraggio di accettare. L’ho fatta lunga, ma stavo solo cercando di dirti che ci sono diversi livelli di realtà e verità in America, come in tutte le altre parti del mondo, e in questo momento uno di questi livelli è iper-amplificato, ma quando sono rientrata a casa ho scoperto di aver trovato ancora maggiore generosità e grazia in persone stanche e disilluse. Ho capito che devo continuare a ricordare che, in questo momento, a parlare è la pancia della gente. L’America è come un corpo che non è in pace con se stesso, non è in grado di vedersi nel suo insieme e non riesce a comprendere l’idea che quel corpo è uno solo. Noi siamo un solo popolo. Lo sappiamo tutti. Non so per quanto tempo dovremo sopportare questa situazione di disaccordo e agitazione. Certo è che la situazione è diventata insostenibile, tanto che ormai io cerco di guardare oltre e di pensare a quando tutto questo sarà solo un ricordo.

Le tue speranze e le tue delusioni…
Le mie speranze sono rivolte alle persone che vivono la loro vita impostandola sull’umanità. Non ho alcun interesse per le ideologie e le società che intendono sopprimere l’umanità degli altri. È una maniera molto noiosa di vivere, tragica e crudele ma soprattutto noiosa. Come sarebbero il mondo e la mia Nazione, se tutti fossero aperti, tolleranti e disposti a dare? È un interrogativo che mi pongo in continuazione ed è tutto ciò che mi interessa e di cui voglio far parte. La delusione arriva quando vince il male, quando noto che le persone hanno paura di vivere. Allora mi rattristo. Sono assolutamente convinta che dobbiamo vivere la nostra vita nella maniera più umana possibile attraverso tutto ciò che siamo in grado di fare e di creare. L’arte, la musica, potrebbero essere un modo per viverla, anche se non l’unico.

Nicola Gaeta