John Scofield: sono un road dog

C’è un nuovo zio in città, è arrivato Uncle John con la sua band. Parliamo con il grande chitarrista, navigato storyteller e inesauribile improvvisatore, del suo nuovo album, un doppio cd che attinge alle mille fonti della musica americana.

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Sono un road dog», dice di sé a più riprese John Scofield nel bel film-documentario dedicatogli da Jörg Steineck del 2022; un’espressione gergale per riferirsi a un affidabile compagno di scorribande, sempre pronto a mettersi in viaggio e affrontare sfide. Slang ragionevole, se si pensa che questo ragazzo settantaduenne di Dayton, Ohio, e newyorkese d’adozione ha passato gli ultimi cinquant’anni di vita in un perenne giro del mondo, con accanto i maggiori protagonisti della musica jazz e non solo, portando e ricevendo linfa dalle condivise creatività. Inarrestabile per produzione, con quasi la media di un album all’anno, «Sco» ha un carattere, per così dire, antiossidante: sorride, domanda, scherza, predisposto com’è al confronto, lontanissimo da ogni maniera. Quel carattere rimbalza diretto sul suono e sul fraseggio che lo rendono riconoscibile a migliaia di miglia. 

L’indole si addipana pure dall’aneddoto raccontato spesso da Steve Swallow, uno degli amici e colleghi più cari insieme a Joe Lovano: nei primi anni Settanta a Boston il bassista gli distrugge il manico di una preziosissima Gibson vintage, millantando al contempo la capacità di poterla riparare, peggiorando di fatto le cose. John la prende a ridere, smorzando la presumibile morte nel cuore. 

La sua vasta produzione, invece, si auto-denuncia nei fatti: negli ultimi tre anni ha pubblicato tre album di altissima qualità per ECM: «Swallow Tales», «Solo» e adesso «Uncle John’s Band», sugoso doppio album, in cui alterna standards a proprie composizioni con l’ottima compagnia dell’immancabile Bill Stewart alla batteria e Vincent Archer al contrabbasso. Nel frattempo, ha lavorato sul film Inside Scofield, suonato qualche centinaio di notti tra Stati Uniti ed Europa, collaborato all’ultimo album dell’Adam Deitch Quartet («Mushroom Gravy»). 

Per tentare di tirare qualche filo rosso da una carriera debordante e della quale tutto s’è scritto, converrà partire proprio dalla coda, da questo ultimo lavoro in trio fresco di stampa, «Uncle John’s Band», e i suoi quattordici pezzi, che centrifugano songs, forme e composizioni originali grazie al consolidato circuito espressivo dei tre musicisti. Il titolo, intanto, oltre all’allusione giocosa sul nome, è quello di un brano dei Grateful Dead, con i quali John ha suonato, e che mette nero su bianco quanto l’ispirazione di Scofield sia aerobica nell’ossigenare al massimo grado, come è uso, generi e matrici blues, rock, soul e derivati dentro il suo perimetro sonoro, ammesso che di confini sia lecito parlare. Phil Lesh, che i Dead li ha sostanzialmente fondati e ai quali resta fedele ancora oggi coi suoi 83 anni, dice: «Con noi si è trovato a suonare musica molto meno avanzata rispetto alle sue abitudini, ma non si è mai allontanato dallo spirito dei nostri brani. Mi piace pensare a quell’esperienza insieme come a musica elettronica da camera, per il tipo di corrispondenze instaurate, in cui tutte le idee venivano messe in circolazione e tutti i musicisti erano chiamati a dare loro lo spazio migliore: per noi suonare con John è stata una sfida, perché ci ha portato in territori scomodi rispetto alle nostre abitudini, ma queste sono esattamente le sfide per le quali noi musicisti viviamo. D’altronde è un chitarrista naturalmente proteso a estendere ed espandere, un po’ come accade nelle variazioni della musica classica in cui la forma viene allargata ad elementi armonici o melodici nuovi, inattesi». 

Ben trovato, John, e congratulazioni da Musica Jazz per questo ultimo lavoro. Un’altra volta in trio al fianco di Vincent Archer e Bill Stewart, formazione consolidata con la quale hai suonato molto negli ultimi anni. Cosa ti piace di loro? 

Praticamente tutto. Partiamo da Vincent: credo di suonarci da sei o sette anni, al tempo mi fu raccomandato da Steve Swallow, che doveva stare vicino in quel periodo a sua moglie Carla Bley. Poi si è inserito nella formazione di «Combo 66» con Gerald Clayton e Bill Stewart ed ha funzionato benissimo. C’è un tipo di comprensione profonda quando suono con lui, lo stesso modo di pensare, condividiamo le stesse idee; per dirti, ha un groove pazzesco, ma può egualmente proporre linee di walking bass, mescolare funk al jazz e poi ogni tanto gli piace sperimentare qualcosa di diverso, magari più free. La sensazione è che quando suoni con lui puoi fare qualunque tipo di musica, è in grado di seguirmi anche in territori più astratti. Di Bill, invece, che dire? Ci suono insieme da trent’anni, mi sembra pazzesco mentre lo dico, ma è rimasto il ragazzo che ho conosciuto, capace di strabiliarmi e lasciarmi incantato ancora oggi; fa delle cose incredibili con la batteria e tutto sembra venirgli facile, senza alcuno sforzo, potrei paragonarlo ad un atleta infaticabile e di grande talento. Per lui vale lo stesso discorso di Vincent: condividiamo le stesse idee e le portiamo avanti in modo compatto. Durante tutti questi anni ho imparato moltissimo da loro e dal loro modo di suonare. 

Quanto è importante avere anche un buon rapporto umano con i musicisti con i quali si suona? 

Fondamentale! Ho capito questo, col tempo: se suoni bene insieme, è perché per ognuno di noi la musica è una cosa importante, come anche il momento della performance. Perciò, se ci si sente a proprio agio, felici di suonare insieme, è inevitabile avvicinarsi umanamente e mescolare i caratteri, arrivando a condividere cose che normalmente non condivideresti con un «collega». Perciò, sì, è fantastico il modo in cui stiamo insieme, sappiamo divertirci come ragazzini. 

Suonare in trio è sempre una sfida per lo strumento melodico, cosa ti piace di questa formazione?

È capitato recentemente che durante un concerto col mio trio si sia aggiunto Joe Lovano e ho pensato: ma è fantastico! Funziona tutto molto meglio! Però, a parte tutto, il discorso sul trio riguarda soprattutto la chitarra… In quel contesto è come un pianoforte: puoi suonare accordi o singole linee melodiche, in questo è molto diverso da uno strumento a fiato; ciò lo rende particolarmente interessante, perché mette il chitarrista nella condizione di sfruttare ogni possibilità del proprio strumento. Quando mi capita di suonare in quartetto con un pianista, posso evitare cose che non sono strettamente necessarie, diversamente bisogna restare molto focalizzati sulle strutture armoniche (cosa che mi piace molto e non posso fare in altre formazioni) per far funzionare le cose con basso e batteria, con il risultato che tutti siamo molto più «esposti». Tutto diventa fondamentale. La batteria, per dirti, diventa quasi uno strumento melodico come il basso quando deve tenere il groove, non può limitarsi ad accompagnare. Alla fine è molto «premiante» per un musicista, ma certo bisogna lavorarci sodo.. 

Parliamo del titolo dell’album: «Uncle John’s Band». È un brano dei Grateful Dead, con i quali hai lavorato, e che suoni dal vivo da un po’. Loro tra l’altro furono i primi a suonare al Cafè au Go Go di Bleeker Street, a New York, che so ti piaceva molto frequentare da ragazzo.

Ah il Cafè au Go Go, certo! Dunque, voglio essere sincero. Non ero esattamente un fan dei Dead quando andavo lì, perché ero fanatico del blues… I Cream erano divertenti, certo, ma allora che dire di Albert King? Insomma, mi piacevano anche lo formazioni più popolari, ma cercavo altro… Per esempio, Albert King era piuttosto famoso negli anni Sessanta, certo non come gli Stones ma aveva un vasto seguito. Al Cafè ho ascoltato B.B. King, Muddy Waters, Howlin’ Wolf, capisci? Poi ci suonavano altre band molto in gamba, da Paul Butterfield ad Al Kooper, per carità, ma quando andai al concerto dei Grateful Dead non fu per ascoltare loro, che erano in apertura alla session blues. Se non sbaglio era il 1967. Fatto sta che dopo qualche tempo mi ha chiamato Phil Lesh, il bassista e co-fondatore dei Dead, e mi ha chiesto se mi andasse di fare qualcosa con loro: era una specie di reunion, e come potevo dire di no ad una rockstar? Scherzi a parte, Phil è anche un grande conoscitore e amante del jazz… Così mi sono messo ad ascoltarli meglio e a studiare il loro repertorio, ho imparato ad apprezzare molti dei brani di Jerry Garcia e poi mi piaceva il concept che portavano avanti, quando facevano le loro lunghe jam. Poi Phil mi raccontò una cosa molto carina: “Quando suonavamo al Fillmore East nel 1969-1970 erano gli stessi anni in cui ci si esibiva Miles Davis con la sua formazione elettrica. E quella era la musica che avremmo voluto suonare, ma non eravamo in grado!”. A parte questo, entrare nel loro mondo musicale, lavorare con Phil mi ha aperto a un certo tipo di musica che non era il mio, più ristretto all’ambito del jazz, ed è stata una gran bella occasione per divertirsi con cose nuove! 

Nell’album ci sono brani che hai composto e una manciata di standard molto belli: come ci hai lavorato su? 

Per me tutti gli standard sono davvero pezzi molto belli di musica e mi ci accosto in modo assai essenziale, per così dire: cerco di imparare in modo corretto la melodia e assorbirne l’armonia. Questo è un passaggio fondamentale, perché se vuoi decostruire qualcosa, prima devi capire perfettamente come funziona la sua struttura. Non la prendo affatto alla leggera quando si tratta di canzoni di Broadway o di Tin Pan Alley, sarebbe un errore perché c’è dentro un mucchio di roba… 

In particolare ci sono due brani, Budo e Ray’s Idea, meno battuti dalle riletture, che si sono cristallizzati nelle registrazioni di Miles Davis. È una specie di omaggio alla sua musica? 

Sì, credo che in qualche modo lo sia, perché ho imparato a suonarle ascoltandole proprio da Miles. Tra l’altro di Ray’s Idea c’è una magnifica versione che ho scoperto su youtube, in cui Miles suonava a Boston nel 1955 con la sezione ritmica della città: davvero magnifica. Invece Budo l’ho ascoltata da Coltrane col quintetto di Miles, che l’aveva già registrata in «Birth of the Cool. Comunque è vero, mi ci stai facendo pensare tu, perché per me erano solo due pezzi che conoscevo bene, ma vengono dal songbook di Miles Davis e possono tranquillamente considerarsi un omaggio alla sua musica e al bop. 

Negli ultimi tuoi album mi sembra si sia accentuato un fraseggio più lirico, tra l’altro con una maggiore enfasi allo spazio dentro le frasi e nel dialogo con gli altri strumenti.

In parte ci si lavora, ma è venuto in modo naturale, magari sono come uno di quei fiori che sbocciano tardivamente… Ma per me è un grande complimento sapere che il risultato arriva, perché scopro ogni volta di più quanto importante sia la melodia. Sullo spacing, invece, mi è accaduto di recente di ascoltare alcuni miei vecchi album, suonavo tutte quelle note e poi un altro strumento lasciava più respiro nell’improvvisazione e mi dicevo: “Wow, ma suona molto meglio di me!” Anche se magari faceva cose semplici, la band riusciva a seguirlo meglio e questo è il punto. Se tu lasci spazio, consenti agli altri di poter intervenire in modo congruo, unirsi alle tue idee e alla fine lasciare musica migliore. 

Nel docufilm Scofield Inside ti sei definito un road dog: tra pochi giorni lascerai di nuovo gli Stati Uniti per un mese fittissimo di date in tutta Europa. Non ti capita mai di annoiarti, non avere voglia di ripartire? 

No, nel modo più assoluto! Non posso annoiarmi, perché la musica esiste nel momento in cui suoniamo insieme, facciamo accadere le cose, abbiamo un pubblico al quale rendere conto e poi mi piace quella vita insieme ai miei amici, ai musicisti che stimo e con i quali sto bene in tour. Se c’è una cosa che mi affatica sempre di più sono le cancellazioni dei voli, la perdita dei bagagli, ma fa parte del gioco. Nel film dicevo road dog perché c’è stato un momento della mia vita in cui davvero stavo fuori per oltre la metà dell’anno, ma si migliora solo così. Non mi posso immaginare chiuso a casa a provare, fare esercizi, suonare da solo, portare fuori il cane, leggere le mail… Come artista cresco quando sono in giro a fare il mio lavoro. 

Guardando il film sembra che tutto il tuo (poco) tempo libero sia dedicato alla chitarra: girare per negozi di strumenti, esercitarsi, ascoltare… È proprio così? 

È il mio interesse più grande, certo, sono bruciato dalla curiosità di conoscere di più e provo sempre a migliorare; il focus del film era spostato sulla mia attività, ma chiaramente ho una vita familiare dove la chitarra non entra: mia moglie, mia figlia, i miei nipotini, il cane… 

Susan, tua moglie, è anche la creatrice di molti titoli dei tuoi brani.

Altro che, di tutti in realtà! Ma con lei, che ha preferito non apparire nelle riprese del film, dividiamo la vita: è la mia manager, mi organizza l’agenda, lavora con le etichette, tiene i conti delle royalties…

Quanto è cambiato il rapporto dei giovani, delle nuove leve verso la musica jazz ma non solo? 

È completamente diverso da quando mi sono formato io; la nuova generazione ha uno sguardo completamente diverso. Una cosa che vale per tutti gli strumenti e che mi fa un grande effetto è sentire un netto avanzamento in ogni tipo di musica, in particolare da un punto di vista tecnico. Non ci sono buoni musicisti, ce ne sono di eccelsi e sembrano poter fare quello che vogliono col loro strumento. Sai cosa? È bello essere ancora vivo e poterli incontrare, imparare quello che fanno e trovarcisi a suonare insieme. Ma poi c’è una cosa meravigliosa nel jazz e riguarda la storia: non c’è niente da fare, non sarai mai uno forte se non ti confronti con le radici, le origini, con i grandi del passato. 

Hai studiato alla Berklee dove hai incontrato grandi musicisti con i quali siete diventati amici e diviso molti palchi, a partire da Joe Lovano. Quanto è stata importante quell’esperienza nella tua formazione? 

Andare in quel college era ciò che stavano più o meno facendo tutti in quegli anni; ci sono rimasto due anni e mezzo, ho imparato un mucchio di cose frequentando le lezioni, perché suonavo ma non conoscevo bene la teoria musicale, non leggevo in modo veloce e dovevo imparare. Di base è un’esperienza utile, ma il grosso del lavoro te lo puoi tranquillamente fare per conto tuo: anche se vai a scuola, hai bisogno di tempo per fare esercizio, perseguire i tuoi obiettivi, ma quello che resta fondamentale davvero è salire sui palchi, imparare la «geometria» della musica suonata insieme. Per il resto vanno benissimo le lezioni da un buon insegnante…  

Pat Metheny ha detto una cosa molto bella, a mio avviso, del tuo modo di suonare: e cioè che è emancipato da qualunque complicazione tecnica, sulla quale voli alto, e arriva a parlare il linguaggio della verità. Se riascolti i tuoi dischi, credi che raccontino in modo sincero la tua vita?

Diciamo che provo a non suonare schifezze! In realtà quello che ha detto Pat è un grandissimo complimento, non so poi se una musica qualunque abbia la forza di rappresentare la vita di qualcuno, ma certamente la musica deve essere onesta, cercare in ogni momento di esprimere ciò che si sta cercando di raccontare e questo, nel bene o nel male,. Credo che questo arrivi dai miei dischi. Ti sarà capitato: alcune volte ascoltando si riesce a intuire la personalità di qualcuno per come suona e ancora mi meraviglio di questo piccolo miracolo… Tutti riusciamo a percepire qualcosa di come sono fatte le persone quando le ascoltiamo suonare. È una cosa che amo della musica.

La tua musica, per esempio, sembra sempre connotata da uno spirito molto ironico, giocoso, può far sorridere per l’estro e per le curvature inattese. È importante il «divertimento»? 

È vero. Credo che se non sei a tuo agio, se non stai passando un buon momento, se non ti diverti, alla fine la musica si impoverisce. Su questo il jazz non perdona: riverbera moltissimo i sentimenti di chi lo suona. Se, al contrario, illumini il tuo cuore, puoi arrivare a raggiungere il tuo meglio; prendersi troppo sul serio non fa mai bene, finisce per irrigidire il risultato e la rigidità non è mai una buona cosa per la musica. Negli anni ho imparato sempre di più l’importanza di dover star bene, trovare strategie di rilassamento quando suono e poi provo a non prenderla troppo sul serio, anche se è la cosa più seria della mia vita. 

New York è ancora il centro del mondo per chi vuole suonare jazz? 

Direi di sì, sembrerebbe esserlo ancora. Sai, un sacco di ragazzini vengono a NYC a studiare, si ritrovano nei club, che ancora sono concentrati qui più che altrove. Per me è stato così, anche se adesso mi sono un po’ allontanato, vivo in un paese vicino e non giro più per locali, ma a pelle sento che è ancora il mio posto… Tu come  la vedi? 

Sono d’accordo, anche se in parte il baricentro si è spostato in Europa, almeno in termini di suoni nuovi e alternativi. 

Giusto, in Europa ci sono un mucchio di stili interessanti e questa è un’ottima cosa e alla fine: perché no? Voglio dire, è un fatto positivo sviluppare suoni propri e poter distinguere nettamente una scena a Roma, una Berlino, una a Parigi, fa bene alla musica questo tipo di evoluzione e a essere sincero mi piace anche molto. 

Immagino, anche perché con «Uncle John’s Band» sei arrivato al terzo album con ECM, che ha tradizionalmente curato i suoni contemporanei da dentro l’Europa.

Sì, certo… Credo di aver conosciuto Manfred Eicher nel 1972, qualcosa del genere, stava producendo Gary Burton, era venuto a Boston e io ero lì perché ero uno studente di Gary ed eravamo a casa sua a fare una jam session; mi è parso incredibile che, anni dopo, Manfred se ne ricordasse ancora. Ci siamo persi di vista per un sacco di tempo ma è come se ci fossimo continuati a frequentare durante questi decenni. Il modo in cui il suo gusto, e quindi il suono ECM, abbia incoraggiato lo sviluppo di una leva di musicisti europei (ma anche americani) è davvero interessante da osservare… È stato un modo per trovare una via innovativa all’ortodossia del Blue Note sound. 

Uncle John’s Band lo avete registrato al Clubhouse Studio di Rhinebeck, New York, nell’agosto del 2022. Ne avevi parlato prima con Eicher? 

La cosa buffa è che abbiamo registrato quei pezzi e poi li ho mandati a Manfred. Lui li ascolta e dice: Ottimo, sarà bello fare un doppio album! È stata una sorpresa, non me lo aspettavo!

Un brano che ti piace particolarmente? 

Proprio il fatto che sia un doppio consente di non dover dare una scelta o una preferenza, mi piace il suono complessivo dell’album, di noi che cerchiamo di fare delle cose, muoverci spesso uptempo. Ti cito solo, per puro esempio, How Deep, la mia versione del classico How Deep Is the Ocean, perché ho scritto una semplice linea melodica e da lì si sviluppano buone idee. In quel brano Bill non sta solo suonando la batteria, ma ne è la voce, capace allo stesso tempo di portare avanti il contrappunto, l’accompagnamento e fare swing con un grande tiro. 

Un’ultima curiosità: che significa per te invecchiare? 

Uhm, vediamo… Credo che si capiscano meglio molte cose, ci sono più storie da raccontare, hai raccolto tante esperienze e questo si riflette in modo diretto sulla musica. Naturalmente puoi anche migliorare, a patto di continuare a lavorarci sopra, ed è esattamente ciò che ho intenzione di fare. Sono consapevole di essere fortunato a essere vivo, come tutti noi lo siamo, e non sono cieco: vedo tanti amici della mia età, spesso più giovani, che più o meno all’improvviso scompaiono e allora mi sento un po’ più vecchio, ma sai una cosa? Sono semplicemente fortunato e felice di essere ancora qui, in gioco. È un dono, e bisogna saperlo riconoscere.

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