JazzMadrid, edizione 2021

Torna JazzMadrid 2021, riaprendo finalmente le porte anche agli artisti internazionali dopo la pausa forzata dovuta al Covid.

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Il festival JazzMadrid, dopo l’edizione «autoctona» dello scorso anno, che si caratterizzò per un cartellone formato solo da artisti locali in conseguenza dell’emergenza covid, per la sua edizione 2021 ha riaperto le porte agli artisti internazionali. E lo ha fatto facendo rete con diverse istituzioni ed iniziative, in modo da conglobare le diverse proposte senza sovrapposizioni di date, presentando, come da tradizione, un programma denso di appuntamenti, con concerti, conferenze, proiezioni, quasi ogni giorno per tutto il mese di novembre; eventi dislocati in diverse sale, auditori, locali, jazz bar, con un ampio ventaglio di approcci, repertori e fusioni.

Il concerto inaugurale dello scorso 3 novembre, quasi intimistico, del piano di Fred Hersch con la tromba di Avishai Cohen (che da qualche mese, in una tournée del duo, sta sostituendo il nostro Enrico Rava, convalescente in seguito ad un intervento chirurgico di routine) si è caratterizzato per con un clima squisitamente cameristico: esecuzione totalmente unplugged, nessun microfono, nessuna cassa o altoparlante, nell’acustica perfetta del palco della Sala de Camara tutta di legno dell’Auditorio Nacional madrileno, solo uno Steinway e una tromba senza effetti, senza sordina. Fin dalle prime battute dell’attacco di Bemsha Swing di Monk, con cui si è aperta la serata, la perfetta intesa tra i due musicisti si fa sentire in maniera forte, nell’adesione all’approccio decostruttivo, cifra stilistica abbastanza tipica del pianista statunitense: l’assunto tematico si presenta come frammentato, il discorso improvvisativo si fa strada a poco a poco fra le sue interruzioni, in uno scambio serrato di ruoli. Nonostante questo atteggiamento rapsodico e il continuo divagare verso nuovi territori, i due riescono a mantenere coerentemente il filo del discorso, presentando qua e là, sparsi, come reminiscenze, echi di frammenti tematici, trasformati, rielaborati per poi, a poco a poco, essere ricomposti. E nonostante l’assenza di base ritmica, il pianismo di Hersch e il fraseggio della tromba di Cohen riescono a tenere la pulsazione sempre presente, salvo poi prendersi il lusso di perdersi in ampie dilatazioni melodiche o in ardite escursioni armoniche.

Una modalità questa, che si è fatta sentire in forme diverse durante la serata. Mirabile ad esempio l’attacco della tromba sola di Cohen, in un Airegin di Sonny Rollins, che si è caratterizzato per un preludiare, quasi toccatistico, fatto di scatti repentini e dilatazioni, con un discorso quindi che indugia nevrotico, per poi farsi serrato, in una corsa inarrestabile, assieme al piano di Hersch, verso il finale. In brani come Yardbird suite e Confirmation di Charlie Parker, Con Alma di Gillespie e Let’s cool one di Monk il duo ha quindi riproposto, maniera estremamente aperta e ricca di suggestioni tali modalità interpretative. Nelle escursioni del piano di Hersch avvertiamo un’incredibile attitudine a far sì che il discorso musicale riesca come a rigenerarsi, mimeticamente. In Yardbird suite ad esempio, dall’assunto classicamente bop, egli pare come effettuare un percorso stilistico a ritroso: lo sentiamo accennare echi di un pianismo che ricorda quello di Art Tatum, quindi quello di Earl Hines. Ma è soprattutto una forte vena romantica ed introversa ad emergere prepotente, soprattutto nelle ballad, in alcuni momenti blues e in brani composti dallo stesso Hersh, come nella cullante Song Without Words. Nella canzone di Billy Joel, And So It Goes, quindi, un tema di corale che sa di Old America, emerge a poco a poco da un assunto di frammenti puntillisti per poi sfociare in isole impressioniste e chiudere con una ripresa tematica intrisa di complessità enarmoniche. La potente capacità mimetica, che contraddistingue il linguaggio del duo con gli scatti ed i guizzi lancinanti della tromba di Cohen, si fa sentire, ancora ricordando Monk, nel bis conclusivo, nella loro enigmatica, esplosiva e rutilante versione di Let’s Cool One.

Possiamo sicuramente dire che, come concerto di apertura, questo di Hersch e Cohen ha significativamente gettato un ponte tra il mondo classico di standard e bebop e una prospettiva più marcatamente sperimentale, delineando un percorso musicale che si è venuto caratterizzando in una forma quasi visionaria, di grande fascino, come una sorta di onirica riproposizione dei frammenti di questa passata tradizione.

 

Cercando di districarci nell’opulenta programmazione del festival, scegliamo quindi di concentrarci su alcuni appuntamenti che si sono avvicendati sul palco del teatro Fernán Gómez nella centrale Plaza de Colón. Appuntamenti che ci hanno potuto dare una testimonianza di una delle innumerevoli fusioni che costellano il panorama del jazz contemporaneo: quella del jazz flamenco. Madrid ha saputo essere il centro della nascita e dell’evoluzione di questo genere nel momento in cui, lungi da essere solo un colore che si sovrapponeva al linguaggio jazzistico, negli anni Sessanta musicisti come Pedro Iturralde, Paco de Lucia, iniziarono a corroborare il discorso musicale jazz con autentici ingredienti flamenchi, con temi e ritmi di bulerías, soleás e soprattutto iniziando a evocare il tipico stile del cante jondo. Il trentottenne sassofonista e cantaor di Cadice, Antonio Lizana, importante esponente di questa tendenza, il 16 novembre ha presentato con il suo gruppo (Shayan Fathi batteria, Jesús Caparrós, basso, Daniel García Diego, Piano, Mawi de Cádiz, voce e danza) composizioni tutte sue per la maggior parte tratte dal nuovo album «Una realidad diferente». Il suo approccio costruisce un discorso che si caratterizza come una sorta di giustapposizione di elementi con cambi repentini di livelli espressivi: da quello genuinamente flamenco, cantato con forza e la tipica sofferta incisività espressiva del cante jondo, per volgersi verso un registro marcatamente jazzistico ma anche, in molte sue canzoni, assumendo l’impronta melodica di un pop afflamencado, di facile ascolto e comunque assai coinvolgente. Di Lizana, una volta imboccato il sax, veniamo via via apprezzando una sua mirabile dote, nel preludiare solo, con un fraseggio che sa toccare ora gli stilemi del canto flamenco, ora quelli di un serrato be bop, anche con escursioni atonali. Con il gruppo sa costruire momenti estremamente appassionanti: quelli improvvisativi elaborati in dialogo serrato con il piano e il basso, altri con la poliritmia del batterista iraniano Shayan Fathi, puro spettacolo, quindi con i ritmi del taconeo dell’istrionico danzatore Mawi de Cadiz.

Concerto seguito da parte di un pubblico molto partecipe, che alla fine, in piedi, ha cantato con lui un suo noto ritornello.

 

La relazione con il mondo flamenco da parte di un duo pianistico che vede, assieme, un grande veterano come Chano Dominguez e l’istrionico Diego Amador (nel concerto del 19 novembre), sicuramente si fa più cerebrale e complessa. Se infatti il flamenco è l’elemento unificante, punto d’incontro di un’avventura musicale a tutto tondo, un universo di spunti e di influssi stilistici vengono via via emergendo nei percorsi che i due pianisti disegnano. Essi infatti sanno sviluppare un dialogo denso e affascinante ed una serie infinita di digressioni che si alternano senza soluzione di continuità, in un sapiente mix di interpolazioni. Nel primo brano, totalmente improvvisato, ad esempio, un tema melodico in stile flamenco emerge solo dopo un fitto alternarsi di fraseggi dalle le più diverse fisionomie: spunti sperimentali, echi di blues, momenti di rarefazione puntillista. Sgorgano quindi nuovi temi a dare nuova luce, per arrivare poi a marcare ossessivi ritmi irregolari, quasi bartokiani.

E nelle proposte successive, vuoi che lo spunto sia un tango, una rumba o un bolero, il caleidoscopio di trasformazioni musicali che i due sviluppano è incredibile. Da questo continuum interpretativo – in diversi brani accompagnato con notevole sensibilità ritmica dal cajon di Pablo Dominquez – emergono le armonie frigie del mondo flamenco, il cante jondo, vibrante, della voce di Diego Amador, così anche temi di mambo costruiti su densità politonali che ricordano il migliore Milhaud, quindi cenni di famose melodie popolari, come la cubana El manisero. Ed è con il celebre inciso del paso doble di España Cañí, trattato atonalmente, che i due pianisti danno il via ad una rutilante buleria. L’omaggio a Chick Corea – ricorrente in diversi appuntamenti di questa rassegna – si concretizza così con una vivace Rumba per Chick, dello stesso Dominguez, concludendo infine con due brillantissime e intense interpretazioni di Spain e Zyriab.

 

Chi meglio di coloro che in diversi momenti furono compagni di avventura di Chick Corea per omaggiarlo? Sul palco del Fernán Gómez, il 19 novembre scorso si sono dati appuntamento infatti il flautista e sassofonista Jorge Pardo, il chitarrista Niño Josele, il bassista Carles Benavent, il percussionista Rubem Dantas e il batterista Tino di Geraldo – con in più il vibrafonista Ton Risco – che, fin dagli anni ’80, dopo l’incontro di Paco de Lucia con il pianista statunitense, con lui furono protagonisti in varie esperienze concertistiche, tournée e registrazioni.

E’ una formazione tutta iberica quindi di strumentisti, che in forme diverse hanno sviluppato una matura consapevolezza stilistica sul jazz flamenco, a riproporre quei brani che, con grande sensibilità, Chick Corea compose ispirandosi ad atmosfere spagnoleggianti. In fondo pare attuarsi una nemesi, per cui quello che per tutta una tradizione musicale, era un particolare colore esotico, dal contributo di Paco de Lucia in poi, diventa quasi una sorta di riappropriazione: nelle mani di tutti questi musicisti il colore ispanico delle intuizioni musicali di Corea viene così assumendo un carattere più autentico mentre, nello stesso tempo, il discorso musicale del ‘Jazz Flamenco’, da questo incontro, viene prendendo su di sé una fisionomia più definita e matura.

Questo evento del festival jazz di Madrid, riportandoci a quei momenti, aveva tutto il sapore di una rimpatriata di amici, in un’affettuosa rievocazione del musicista scomparso: con un Jorge Pardo maestro di cerimonie, si sono alternati racconti e aneddoti dei vari musicisti, a testimoniare il rapporto, oltre che musicale, di vicinanza e di amicizia che legava i protagonisti di questa avventura. Gruppo affiatatissimo con in più una carica emotiva e interpretativa di notevole forza, in cui si sono alternati momenti solistici esaltanti: mirabili, da parte di un Jorge Pardo in piena forma, il preludiare e le sonorità che si avvicinano mimeticamente al canto flamenco ed al timbro di un ney arabo, nell’eseguire il tema de La fiesta, in uno dei bis finali. Di Corea l’ensemble ha riproposto coinvolgenti interpretazioni di brani come Touchstone, Yellow Limbus, North Africa e immancabile nel bis finale l’introduzione al Concierto de Aranjuez e Spain.

Ci è è capitato di sentire chi tra il pubblico si chiedeva se vent’anni fa ci si sarebbe immaginato un tale livello di musicisti jazz spagnoli: ed effettivamente dai tempi in cui il critico britannico Leonard Feather descrisse il panorama musicale spagnolo come “un deserto per il jazz”, per la qualità dei quello che abbiamo potuto sentire le cose sembrano essersi completamente ribaltate.

Di Fabio Zannoni