Jazz & Wine of Peace, prima parte

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Il Teatro Comunale di Cormòns, foto di Luca D'Agostino-Phocus Agency

Cormòns, Teatro Comunale; Collio, varie sedi

22-24 ottobre

 

Per la XXIII edizione di Jazz & Wine of Peace il Circolo Culturale Controtempo è riuscito – pur con tutte le limitazioni e le conseguenti difficoltà imposte dalla contingenza – ad allestire un programma di tutto rispetto, ben congegnato ed articolato come di consueto nel territorio del Collio friulano, tra cantine, ville e gli eventi serali al Teatro Comunale di Cormòns. Uno schiaffo al Covid e a tutte le ansie e le fobie che ne sono scaturite, a dimostrazione del fatto che nel rigoroso rispetto delle regole si possono ancora produrre eventi e, in ultima analisi, cultura.

In tutto la manifestazione prevedeva inizialmente oltre venti concerti distribuiti tra il 21 e il 25 ottobre, alcuni dei quali inseriti nella rassegna Jazz & Taste, opportunamente creata anche per sopperire all’assenza delle tradizionali degustazioni in occasione dei concerti presso ville e cantine. I due concerti previsti in Slovenia – Zlatko Kaučič Kombo C a Nova Gorica e Bushido a Vila Vipolže – sono stati cancellati per la chiusura imposta dal governo sloveno. Il proverbiale carattere di festival transfrontaliero è stato snaturato dalla limitatissima partecipazione di spettatori austriaci (che l’anno scorso costituivano addirittura il 50% delle presenze) e dall’assenza del pubblico sloveno.

Se, come sostengono alcuni in modo etimologicamente controverso, la parola crisi significa anche opportunità, il festival friulano ha colto l’occasione per far viso a cattiva sorte, coinvolgendo musicisti europei e dando spazio a molti italiani. L’unico americano originariamente in programma – il chitarrista Kurt Rosenwinkel con il suo trio – ha cancellato la partecipazione ed è stato rimpiazzato con il quintetto di Giovanni Guidi.

Gli stessi concerti serali a teatro – con la parziale eccezione del duo Enrico Rava-Danilo Rea che ha aperto la manifestazione il 21 ottobre – non presentavano nomi di facile richiamo. Proprio sugli eventi serali è bene concentrarsi nella prima parte di questo contributo.

L’omaggio a Robert Wyatt di Max Andrzejewski – Foto Luca D’Agostino / Phocus Agency

Il gruppo Hütte diretto dal 34enne batterista tedesco Max Andrzejewski proviene dalla vitale scena musicale di Berlino. Sulla scorta di un progetto commissionatogli tempo fa da una rassegna berlinese, Andrzejewski ha presentato un lavoro incentrato sul repertorio di Robert Wyatt. Scelta rischiosa, dato il carattere eterodosso, indefinibile e quasi irriproducibile della musica del cantante, batterista e polistrumentista inglese. Un’operazione che infatti ha destato non poche perplessità, a dispetto degli sforzi di Andrzejewski, solido batterista di formazione jazzistica, e dei colleghi: i membri stabili Johannes Schleiermacher (tenore, flauto e sintetizzatore), Tobias Hoffmann (chitarra), Andreas Lang (contrabbasso), per l’occasione coadiuvati da Jörg Hochapfel (tastiera e chitarra) e Cansu Tanrikulu (voce). Il gruppo è rimasto a metà del guado, oscillando tra sprazzi jazzistici, insiemi confusi, passaggi psichedelici, squarci rock blues senza però rendere quasi nulla della magica poliedricità di Wyatt. Lo hanno ulteriormente dimostrato una sgangherata versione di Little Red Riding Hood Hit The Road, tratta da una pietra miliare come «Rock Bottom», e l’approccio tra il filologico e l’indeciso a due brani desunti dal repertorio dei Matching Mole, Instant Kitten e Starting In The Middle Of The Day We can Drink Our Politics Away. Quanto alle parti vocali, assolutamente inappropriato è risultato il contributo di Cansu Tanrikulu, efficace solo nella versione di At Last I’m Free, che Wyatt aveva preso in prestito dal repertorio degli Chic e trasformato da par suo.

Wolfgang Puschnig Fulsome X- Foto Luca d’Agostino / Phocus Agency

Al contrario, il quintetto austriaco Fulsome X diretto dal sassofonista Wolfgang Puschnig è un meccanismo perfettamente oliato, dotato di un’identità ben definita e capace di rivelarsi una macchina da guerra in virtù di una serie di fattori: insiemi sagacemente concepiti; equilibri dinamici di rara efficacia; una pulsione ritmica implacabile e metricamente cangiante al tempo stesso grazie all’apporto della tuba di Jon Sass (storico collaboratore di Puschnig, formidabile anche nell’impiego dei multiphonics) e della batteria di Reinhardt Winkler; originali impasti timbrici tra tuba e flauto o tuba e violoncello (Asja Valcic) che a tratti possono fugacemente ricordare certe formazioni di Henry Threadgill; l’apporto estremamente funzionale della chitarra di Primus Sitter. Parecchi temi richiamano, nella loro connotazione geometrica e concisa, la poetica di Ornette Coleman. Al tempo stesso, i riferimenti (non casuali, del resto) a Coleman si manifestano anche in certi insiemi – in cui ogni voce è chiaramente distinguibile – e alcune tracce armolodiche riconducibili al Prime Time. Altrove emergono un groove generoso, ma mai prevedibile, e un genuino senso del blues – anche questo in parte debitore di Coleman – che il sax alto di Puschnig, terso e tagliente, veicola esemplarmente in un disegno coerente.

Mino Cinélu, Luca Aquino e Omar Sosa – Foto Luca d’Agostino / Phocus Agency

Secondo il programma originario Mino Cinélu doveva essere affiancato da Nils Petter Molvær, con il quale ha recentemente inciso «Sula Madiana». L’assenza imprevista del trombettista norvegese, colpito dal Covid, ha costretto l’organizzazione a rimodulare il programma. Dunque, Cinélu si è inizialmente presentato da solo sul palco del Teatro Comunale per essere raggiunto più tardi da Luca Aquino, convocato quasi all’ultimo momento. Musicista di consolidata esperienza, noto ai più per le collaborazioni con Miles Davis e Weather Report negli anni Ottanta, il percussionista è molto legato alla natia Martinica e in senso lato alle radici afrocaraibiche, che sa esprimere in modo intellettualmente onesto mediante il suo set percussivo e alcune canzoni eseguite in patois martinicano alla chitarra o al Fender Rhodes. Avvalendosi anche di alcuni campionamenti come base, Cinélu costruisce strutture poliritmiche con l’ausilio di ride, cajón, djembé, sonagli e voce. Con gusto e creatività riesce a trarre il massimo anche da un semplice triangolo. In questo contesto l’apporto di Aquino risultava inevitabilmente limitato a semplici frasi e rifiniture melodiche spesso dilatate dal delay. L’ingresso a sorpresa di Omar Sosa, che il giorno dopo doveva suonare invece di Yaron Herman, ha avuto il merito di impreziosire i brani finali in virtù della propensione al dialogo del pianista cubano, specie in alcuni serrati dialoghi su up tempo.

(continua)

 

Enzo Boddi