Buongiorno Remo, se sei d’accordo vorrei partire subito dal suo ultimo lavoro discografico «Atelier». Un disco molto intenso, passionale per certi versi. Quali sono gli elementi dai quali sei partito? Qual è il messaggio che vuoi dare?
Negli ultimi dieci anni mi sono esibito spesso in solo. Durante le tournée – soprattutto quella legata a «Don’t Forget to Fly» (Believe, 2023), il primo album inciso in completa solitudine – ho sentito quanto il pubblico apprezzasse. Ho sempre lavorato alla ri-composizione dei brani storici o dei temi delle colonne sonore cinematografiche – nati per ensemble o per l’orchestra – per farli funzionare live solo sul mio strumento, trasformandoli e rendendoli emotivamente un’altra cosa. Queste nuove versioni andavano discograficamente fissate. Così ho immaginato di sedermi al pianoforte e ripercorrere 20 anni di musica suonando i brani pianisticamente più rappresentativi nelle versioni ri-composte. Per farlo ci voleva un luogo magico e unico, un luogo non convenzionale. Ho sempre ammirato la pittura e la scultura del Maestro Giorgio Celiberti e quando ho saputo che lui desiderava che suonassi la mia musica nel suo meraviglioso studio, ho capito che in quel luogo potevamo realizzare un disco dal vivo irripetibile. Sono nate così due serate indimenticabili, le abbiamo registrate e, riascoltando in studio abbiamo capito subito, con Luca Bernini – che mi ha molto aiutato nella produzione artistica – e con Stefano Amerio – che lo ha magistralmente inciso – che avevamo in mano un disco intimo e potente, una fotografia da non lasciare in un cassetto.
Troviamo una dedica a Charlie Chaplin. Cosa rappresenta per te il grande attore statunitense?
È l’inedito che apre l’album. Un tema che scrissi più di vent’anni fa, quando ebbi occasione di musicare dal vivo il capolavoro Il Circo di Charlie Chaplin. Una musica che avevo dimenticato dentro un quaderno dove al tempo appuntavo le idee per gli accompagnamenti dei film muti, una vera palestra nei miei anni di formazione (ne ho sonorizzati più di trenta, lavorando con la Cineteca di Bologna e molte altre). Mettendo ordine nell’archivio, un pomeriggio trovai questo vecchio quaderno e mettendolo sul leggio suonai il pezzo come lo avevo scritto, ricordandomi anche per quale scena lo scrissi: il finale, struggente, di quel meraviglioso film. Fu Luca Bernini, cui lo feci sentire in fase di pre-produzione, a suggerirmi non solo di inciderlo ma di aprirci il disco, come a voler significare l’immaginario dal quale da ragazzo sono partito nel mio percorso come compositore. D’altronde, Chaplin è molto di più della maschera eterna, del genio amato in ogni angolo del pianeta. Chaplin è un mondo dove viviamo inconsapevoli del nostro destino, dove per caso siamo tutti – chi prima, chi poi – l’attrazione del circo.

Foto di Paolo Grasso
Il piano solo è per te una sfida o un percorso artistico di intimità assoluta?
Ho composto e pubblicato per i più svariati organici. La forza del mio piano solo è maturata nel tempo, data dopo data, e oggi è sicuramente un mezzo espressivo ben codificato. È un piano solo puro – zero elettronica, zero sequenze – dove a livello di scrittura cerco di trasformare gli ottantotto suoni in quelli dell’orchestra, suggerendone i timbri, le sezioni, gli assiemi. Dal palco sento che si instaura qualcosa di profondamente spirituale e anche sensuale col pubblico.
A tal proposito, qual è l’obiettivo artistico che ti sei prefisso?
Costruire un catalogo di musica che spero possa sopravvivermi. Non sono mai stato interessato a inseguire le mode del tempo, pur rimanendo sempre aggiornato, sono sempre stato attratto, piuttosto, dal descrivere il mio tempo. Il mondo è cambiato e sono cambiato anche io, ed è naturale che cambi la musica. La musica è la mia macchina da presa, con cui cerco di far diventare suono, narrazione musicale, le storie che la gente tiene nei cassetti chiusi.
Il fatto che «Atelier» si concluda con Hallelujah ha sicuramente un significato che va oltre la disposizione materiale della scaletta dei brani. Mi sbaglio?
Non sbagli affatto. Halleujah è un brano sacro scritto per lo strumento più lontano dal repertorio sacro, il pianoforte. È una lode non alle perfezioni dell’Altissimo, ma alle nostre imperfezioni, a ciò che mi fa scrivere da sempre: le contraddizioni umane, le vite segrete degli altri e la caducità del vivere.
Vorresti parlarci del suo imminente tour in Giappone?
Suonerò in tre città importanti e in tre sale di grande prestigio: la Suntory Hall a Tokyo, la Alti Hall a Kyoto e la Phoenix Hall a Osaka, a supporto della uscita del disco fisico sul mercato nipponico. È la terza volta che mi esibisco in Giappone, la prima nel 2019, la seconda nel 2023. Prima, nel 2016, ci avevo registrato Nocturne, un disco molto importante del mio catalogo, inciso ai JVC Victor Studios di Tokyo e pubblicato nel 2017. Ho da sempre un rapporto di grande empatia con la cultura giapponese, è un pubblico stupendo e non è un caso se un mio brano molto fortunato si chiami Nocturne in Tokyo: come in un dipinto, lo sguardo di un europeo al cospetto di una cultura dove passato e futuro sembrano fondersi in ogni frame.

Foto di Prandoni
Come concili l’attività di musicista con quella di avvocato? La seconda è influenzata dalla prima, e viceversa?
Come studente e come avvocato ho avuto un percorso molto brillante. Laurea a ventiquattro anni con lode a Bologna in Diritto Penale. Sono un penalista dall’età di ventisette anni e fino ai quaranta ho vissuto una doppia vita, passando da un processo per omicidio all’incidere i dischi. Da quasi dieci anni ho riorganizzato la mia vita mettendo la musica completamente al centro. Non ce la facevo più fisicamente e la musica richiedeva tutta la mia energia. Penso che la musica nasca sempre da una storia. È chiaro che ogni processo ne sottende una, appartiene cioè a una vicenda umana e l’avvocato ha, oggettivamente, un osservatorio privilegiato sulla più varia umanità. E stimoli, in questa prospettiva, enormi.
A guardar bene la tua discografia, c’è un rapporto molto solido tra te e le arti visive. Ce ne vorresti parlare?
Come ti dicevo, sono le storie che maieuticamente mi tirano fuori la musica. Difatti, quando scrivo un mio disco scrivo preliminarmente una storia, come se dovessi girare un film, per produrmi nella mente immagini così potenti da diventare sostanza sonora. Può cambiare il medium – a seconda che stia scrivendo per il teatro, per il cinema, per le installazioni sonore o per la pubblicità – e quindi la grammatica di applicazione sonora. Ma è la storia che mi colpisce e mi suggerisce come la musica deve interagire.
Quando componi su commissione (penso anche alle colonne sonore in ambito cinematografico-documentaristico) il tuo approccio alla musica è diverso rispetto al suo consueto modo di comporre?
Sicuramente. La musica in un film o in un documentario deve porsi in relazione con le immagini, i dialoghi, i rumori, gli effetti. Devi conoscere la grammatica e la sintassi del cinema, possedere lo storico dei grandi film, delle grandi pagine, dei grandi binomi autore-compositore. Il mio metodo di lavoro deriva dalla grande esperienza fatta da ragazzo col cinema muto. Anche oggi, quando devo comporre la musica, guardo molte volte il film o – se vengo scelto prima che sia girato – leggo molte volte la sceneggiatura e entro in un dialogo profondo col regista. Al quale pongo sempre la stessa domanda: a cosa serve la musica in questa scena? quale funzione vuoi che abbia? quale il punto di vista che deve rappresentare? Di solito, succede che la musica principale nasca non guardando le immagini in movimento. Ma ricordandole, avendole viste molte volte, e facendo emergere l’emozione che il ricordo di quelle immagini ha suscitato in me. Questo mi porta a comporre un brano musicale con forza autonoma dalla relazione con le immagini, ispirato cioè alla storia e alle immagini e non qualcosa di gradevole, adeguato ma anche innocuo. Chi mi sceglie lo sa e sa che quel brano conterrà tutti gli ingredienti da cui ricaveremo la partitura o gran parte di essa. È il modo per mantenere un alto livello artistico ed espressivo e non limitare la mia fantasia ai tempi di una singola scena e al puro mestiere. Quando quel brano riceve la convinta approvazione del regista da lì comincio il lavoro tecnico di composizione specifica per le scene del film, traendo dal quel materiale di partenza quelli da sviluppare, millimetricamente, scena per scena.
Qual è il tuo rapporto con l’improvvisazione?
Fondamentale. Bach, Mozart e Beethoven erano grandi improvvisatori. Nell’Ottocento l’impostazione didattica del Conservatorio di Parigi ha fortemente condizionato il modo di studiare musica. La teoria si è completamente scissa dalla pratica. Cosa che, ad esempio, non avveniva a Napoli nel Settecento, illuminata dalla scuola dal Partimento: i musicisti lì imparavano a suonare e contemporaneamente ricevevano i fondamenti della composizione e della improvvisazione. La musica non finiva con l’ultima battuta dello spartito. Credo moltissimo, però, nella assoluta forza della scrittura, nel contrappunto e nella forma. Quindi nella mia musica l’improvvisazione diventa un elemento che prevedo nel contesto di una musica scritta. Questo mi ha permesso negli anni di lavorare con importanti musicisti classici (London Session Orchestra, Masatsugu Shinozaki, Nadia Ratsimandresy, Milano Classica, Filarmonia Veneta, Danilo Rossi e molti altri) ma anche con grandi improvvisatori (Vardan Grigoryan, Enzo Pietropaoli, Franz Di Cioccio, Gabriele Mirabassi, Flavio Boltro, Roy Paci, Francesco Bearzati, Massimo Moriconi, Bebo Ferra, Luca Aquino e molti altri) che hanno partecipato ai miei dischi e ai miei live valorizzando la mia melodia e agendo liberi negli spazi che la mia musica crea, per musicisti di grande intuizione improvvisativa.

Qual è il tuo background culturale-musicale?
Tutto ciò che le orecchie possono udire, compresi i rumori. Senza preclusioni, senza steccati. Le basi sono Palestrina e Bach. Loro ti danno le chiavi per capire tutta la musica: da «A love Supreme» di John Coltrane all’ultimo disco di Kendrick Lamar. E poi tanto teatro e cinema, tanta letteratura, l’arte in generale.
A parte il tour in Giappone, quali sono i suoi prossimi impegni?
Agenda fitta di concerti, il tour di Atelier da questa primavera ha superato le 40 date e lo porteremo avanti per tutto il 2025 e parte del 2026. Ho appena concluso la colonna sonora del nuovo film di Roberto Dodit I colori della Tempesta (Quality film/Rai Cinema) sulla straordinaria figura di Pasquale Rotondi e che andrà in sala a breve Sono stato scelto come compositore delle musiche originali di Monet. I Colori della Vita il nuovo grande allestimento teatrale di e con Marco Goldin, cui mi lega un lungo rapporto. Debutterà nell’ottobre 2026 con due date al Teatro Manzoni di Milano e che prevede un tour di cinquanta date nei più importanti teatri italiani. La partitura che sto componendo per la vita del genio dell’Impressionismo – e che eseguirò dal vivo in tour – sarà per pianoforte, violoncello e voce femminile, avrò al mio fianco in scena Daniela Savoldi (che è anche una bravissima cantante oltreché violoncellista). In mezzo tantissime proposte di commissione, anche di musica assoluta, che sto vagliando.
Alceste Ayroldi