Buongiorno Naima, partirei dal titolo: qual è il significato di «Dots»? Cosa vuoi dichiarare?
Il punto è un elemento tanto piccolo quanto potente. Può indicare fine, conclusione e chiusura, marcare una pausa più o meno lunga, rivelare un cambiamento o segnare l’incontro di elementi che pur orientati in direzioni diverse possono incrociarsi creando un’intersezione. Quando manifesta la sua presenza in maniera netta e decisa, inevitabilmente termina una fase e si apre un nuovo spazio. Prendono il sopravvento il desiderio di esplorare nuovi territori, la curiosità di percorrere strade sconosciute, la voglia di tracciare nuovi percorsi e il coraggio di spingersi oltre. Altrove. «Dots» è un processo di elaborazione e di rinascita in cui risuonano pensieri generati dall’urto con la vita reale. La consapevolezza che per evolversi bisogna passarsi attraverso. Un percorso articolato, denso e delicato verso l’interno per cercare di afferrare ciò che è rimasto sospeso e unire tutti i punti di un tracciato in continuo mutamento. Questo disco è un invito a non avere paura di uscire da quelle che ci sembrano zone di comfort solo perché fanno parte della nostra quotidianità, ma che in realtà sono zone tossiche. Inciampare, cadere, farsi deserto, occupare il vuoto, attraversarsi e poi espandersi.
Con te ci sono Edoardo Maggioni, Andrea Dominoni e Matteo D’Ignazi. Perché hai scelto loro?
Ho scelto loro perché sono dei musicisti straordinari con cui riesco a dialogare musicalmente in maniera libera e quest’ultimo aspetto per me è fondamentale. Trovo che siano tutti e tre dotati di una fortissima sensibilità artistica che si manifesta in un interplay estremamente creativo. Attenti alla ricerca del suono, coraggiosi nelle scelte ritmiche e armoniche, non potevo scegliere musicisti più solidi da avere nel mio progetto. Ognuno di loro ha contribuito a dare una direzione ben precisa all’album portandolo verso le nuove evoluzione del jazz. Maggioni, Dominoni e D’Ignazi spaccano!
Poi, un buon numero di ospiti.
Comincio col dire che gli ospiti di «Dots» sono tutti dei musicisti pazzeschi. Ho avuto modo di conoscere ognuno di loro in contesti differenti, sempre legati alla musica ovviamente. Napoleon Maddox l’ho incontrato nel lontano 2013 al Torino Jazz Festival. Fu una sorpresa inaspettata, perché in realtà io ero lì per il concerto di Roy Haynes e non ero a conoscenza che ci fosse lui in apertura con il progetto Is What?. Mi colpirono immediatamente la sua attitudine sul palco, i testi impegnati, l’utilizzo percussivo e ritmico della parola che si trasformava in suono fondendosi con il resto. Avevo il desiderio di collaborare con lui da anni e Run è stata l’occasione perfetta, ha decisamente arricchito il brano scrivendo un testo molto potente.
Con Ilhan Ersahin ci siamo conosciuti a Milano durante il festival Jazzmi nel 2022, anno in cui lui si è esibito con il progetto Istanbul Sessions, in cui per quella occasione era stato chiamato Matteo D’Ignazi come batterista. Dopo il live abbiamo iniziato a chiacchierare e gli raccontai del progetto che avevo in cantiere e mi disse di mandargli qualcosa da ascoltare. Decisi di inviargli Buoyancy Of Water e mi ritrovai con il suo tenore inciso lì sopra!
Samir Langus invece l’ho conosciuto a Miami al GroundUP Music Festival due anni fa. Line up incredibile, caldo allucinate, tre giorni di musica di altissimo livello from 1 pm to 4 am! Un festival magico, una vera e propria bolla in cui finisce che al terzo giorno tutti conoscono tutti, artisti compresi! Ci siamo detti che avremmo creato l’occasione per collaborare e così gli proposi di incidere su Increase The Light, brano che chiude il disco in cui la linea di basso è fissa e quindi c’è spazio per far muovere il suo sintir che ha valorizzato il brano dandogli quel sapore ipnotico tipico della musica gnawa.
Sei stata una delle fondatrici del Black Beat Movement formatosi nel 2012. Quali erano i motivi che vi spinsero a creare questo collettivo e quanto si sono modificati nel corso degli anni?
Black Beat Movement è stato un progetto importante con cui ho condiviso quasi dieci anni di attività. Una realtà nata nella provincia di Milano che in pochissimo tempo si fece conoscere nella scena underground e indipendente. L’idea del collettivo era quella di creare un progetto condiviso che potesse coinvolgere anche altri musicisti, rapper e cantanti. Inizialmente si cercò di andare in quella direzione, creando occasioni di scambio soprattutto durante i live ma poi con il tempo si è definita sempre di più una struttura interna e di conseguenza un gruppo. Una band dal sound riconoscibile in cui confluivano nu soul e hip hop con un approccio sperimentale che all’epoca fu una novità. Dall’intensa attività live si creò una vera e propria fan base che ogni anno si ritrovava al Black Beat Movement Pic Nic, una giornata di condivisione dedicata alla musica indipendente che come slogan recitava Be Crew In Life.
Quali sono gli artisti (non solo musicisti) che hanno influenzato il tuo modo di vedere l’arte?
Sicuramente Marina Abramovic, Chandra Livia Candiani, Jenny Holzer, Emily Dickinson, Nina Simone, Erykah Badu e Björk.
Alceste Ayroldi
*L’intervista integrale sarà pubblicata prossimamente sulla rivista Musica Jazz