Buongiorno Mila, benvenuta a Musica Jazz. Parliamo subito del tuo disco «Menta selvatica». Un disco, possiamo dire, che mette insieme jazz e cantautorato, ma anche sonorità mediterranee. Insomma, ce n’è di materiale. Quali sono stati i passaggi fondamentali che hanno portato alla realizzazione di questo album?
La decisione di scrivere il mio disco solista è maturata durante il periodo di confinamento, in piena pandemia, quando ho sentito con chiarezza quella che Kandinsky definiva «necessità interiore», la spinta profonda e imprescindibile propria dell’artista, l’urgenza di creare.
Avevo già diverso materiale e ho iniziato a definire i brani mentre maturavo la scelta di trasferirmi a Barcellona, dove sapevo di trovare musicisti in grado di padroneggiare i linguaggi che stavo sperimentando. Negli ultimi anni mi sono dedicata allo studio di canti popolari di diversi Paesi e a una ricerca sulla microtonalità, qualcosa che percepivo come parte della mia vocalità e che desideravo approfondire.
Seguendo questa strada e mettendo insieme la mia esperienza, ho dato forma a musica e testi. Nello stesso periodo ho conosciuto Bartolomeo Barenghi, il chitarrista con cui collaboro in questo progetto e una volta concluse le canzoni, ci siamo incontrati per finalizzare gli arrangiamenti e registrare il disco.
C’è chi annovera il tuo lavoro e le tue caratteristiche compositive nell’ambito della world music. Personalmente sono contrario a questa etichetta, che non significa nulla. Tu, cosa ne pensi al riguardo?
Il termine world music viene spesso usato per contenere tutto ciò che è difficile da catalogare nella vastità delle sonorità contemporanee, che si muovono liberamente tra generi e culture. Può sembrare un’etichetta comoda per ciò che sfugge a una classificazione precisa, ma per me conserva anche un valore positivo perché richiama l’idea di una musica capace di attraversare i confini e di creare nuovi dialoghi sonori.
In Spagna, dove vivo attualmente, il mio lavoro viene presentato in questo modo. Scrivo in italiano e nella mia musica emergono tracce della mia tradizione, che in Spagna possono suonare esotiche, e si intrecciano con diversi codici espressivi difficili da riconoscere con chiarezza. Non mi sento limitata da questa definizione, il mio disco è un crossover in cui il jazz resta un punto di riferimento in dialogo costante con i vocabolari sonori che ho scelto di esplorare.
I testi, invece, da dove traggono ispirazione?
I testi attingono dal mio vissuto e seguono un filo rosso che racconta un femminile in evoluzione. Mi soffermo spesso sul tema dell’amore, come strumento per comprendere e raccontare un percorso di decostruzione necessario alla crescita individuale e a una visione più consapevole della realtà.
È un femminile che si autodetermina, imparando a opporsi agli stereotipi e a liberarsi da sovrastrutture e condizionamenti sociali, come accade in Essenza, punto di arrivo di questa trasformazione. Si passa dal conflitto interiore nella ricerca della propria identità sessuale (Avorio), alla perdita di sé nell’incontro con l’altro, fino alla presa di coscienza di dinamiche personali che possono diventare alleate (Sorella malinconia). Ci sono anche riferimenti alla famiglia, intesa sia come rifugio sicuro sia come luogo dal quale è importante prendere le distanze per costruire la propria identità. Tupanara è il soprannome della matrigna di mia nonna, un brano caricaturale nato per esorcizzare un passato segnato da povertà e discordie. Lontano, invece, è una dedica alla mia infanzia e al potere trascendentale della musica.
Lavori prima sulla composizione della musica o prima sui testi?
Non ho una regola. L’ispirazione spesso mi trova in azione, mentre studio, e può nascere prima un riff, una frase melodica o una progressione armonica, che poi diventano la base su cui lavorare e sviluppare un brano. Raramente scrivo musica e parole di getto ma quando accade mi affascinano la naturalezza e la magia del processo, come è successo per Sorella malinconia e Senza sfiorire. Nove brani quasi tutti a tua firma, sia nei testi che nelle musiche. Però, hai scelto Menta selvatica come titolo dell’album. C’è un motivo in particolare che ti ha spinto in questa direzione?
Ho scelto Menta selvatica come titolo dell’album perché è una pianta che per me ha un valore simbolico. Evoca immediatamente un profumo e un’attitudine, è generosa, ha proprietà calmanti, ma allo stesso tempo è irriverente e capace di farsi strada ovunque. In questa vitalità rivedo il mio approccio all’arte e alla vita. Il titolo porta però con sé anche un significato più arcaico, legato alle mie radici pugliesi. In Salento, fin dal X secolo, era diffusa la pratica del tarantismo, una terapia musicale e coreutica che attraverso danze frenetiche conduceva a uno stato di trance con funzione catartica. Negli scritti dell’antropologo Ernesto De Martino la menta compare tra le erbe offerte alla c.d. tarantata, la donna morsa dal ragno o più in generale affetta da un disagio interiore.
Il brano che dà il titolo al disco racchiude tutto questo. Si apre con un incedere ipnotico e cresce progressivamente fino a un momento improvvisativo che rappresenta la catarsi. È la metafora di ciò che ha significato per me scrivere questo lavoro.
Unico brano non originale è Sentimento degli Avion Travel. Perché hai scelto questo brano?
Sentimento è un brano evocativo che racconta il viaggio del/della musicista alla ricerca della melodia tra le infinite possibilità che l’orizzonte offre. È un viaggio che si nutre di domande, che apre a interpretazioni diverse sul senso stesso del cammino e che attraversa molte sfumature dell’emotività umana, rappresenta anche il mio viaggio che si chiude con l’uscita del disco. Ho scelto questo brano perché stimo molto gli Avion Travel e li considero un esempio di come si possano intrecciare linguaggi sonori diversi e dare vita a un universo musicale unico, lontano dalle logiche del mainstream. Trovo straordinario che pur mantenendo questa libertà espressiva, siano riusciti a vincere il Festival di Sanremo.

Sei laureata in canto jazz e in pittura. Questa doppia formazione ti consente una visione diversa dell’universo musicale? A tal proposito, pratichi anche l’arte della pittura?
La mia tesi in accademia metteva in relazione suono e immagine e credo che nei miei brani ci sia spesso un approccio visivo. Avorio per esempio è un brano che nasce da un colore che suggerisce la purezza di un incontro e si sviluppa per immagini che sono vere e proprie fotografie. Ci sono anche riferimenti all’arte plastica come ad esempio il panneggio delle statue del Canova.
Cerco è una fotografia dove il bianco predomina e il colore si aggiunge poco a poco nell’incontro sinestetico con il profumo delle arance e il contatto con l’acqua. Non dipingo più per il momento ma disegno per rilassarmi e quando ascolto musica. Continuo però a fare molte fotografie, sia in digitale che in analogico.
Hai approfondito diverse sfumature del canto: da quello turco a quello indiano, da quello curdo a quello greco. Ora, hai raggiunto la tua identità vocale e compositiva, oppure sei ancora alla ricerca di qualcosa?
Credo che la ricerca vocale sia infinita anche perché mi confronto con grammatiche musicali complesse che richiedono tempo per essere interiorizzate, come accade con il jazz. Sicuramente ho aperto tante strade e ho intenzione di proseguire nello studio.
Penso che ogni disco chiuda un percorso, cristallizzando quello che l’artista ha raggiunto fino a quel momento e sono certa che nel prossimo lavoro nascerà qualcosa di nuovo.
Vorresti parlarci dei tuoi compagni di viaggio in questo disco?
Ho cercato persone curiose e entusiaste di condividere questo progetto insieme a me e durante il lavoro, e ai primi concerti è nata anche una bella amicizia.
Bartolomeo Barenghi è un jazzista raffinato che ha esplorato e interiorizzato la musica latinoamericana in particolare Brasile, Colombia, Argentina e Venezuela, e ha ampliato la sua ricerca anche verso le musiche del Mediterraneo. Sandrine Robilliard è una violoncellista che si muove con disinvoltura tra classica e jazz, con una profonda conoscenza dei ritmi latinoamericani e mediterranei. Martí Hosta è un percussionista versatile e padroneggia diversi linguaggi, dalla tradizione iberica al folklore latinoamericano, ed è in grado di arricchire le composizioni con una gamma timbrica molto ampia. Questo è il quartetto con cui mi presento dal vivo.
Nel disco suonano anche Pau Lligadas al contrabbasso e Lluna Aragón al violino, attivi in ambito jazz e folk nella scena di Barcellona.
Ci sono inoltre due featuring: Christos Barbas, polistrumentista di origine greca che suona il ney in Menta Selvatica, e Ana Rossi, cantautrice argentina che ha composto e canta la parte in spagnolo di Lontano.

Foto di Roberta Lo Schiavo