Leo, partiamo dall’inizio: quando hai capito che «Unsapiens» sarebbe stato il titolo giusto per questo nuovo album? Cosa rappresenta per te questa parola?
Quando ho capito che tutto il disco ruotava intorno alle contraddizioni dell’essere umano. — «Unsapiens» dal cosiddetto homo sapiens, nome dato alla nostra specie da Darwin nell’Ottocento, era perfetto: una sola parola per definire la nostra incoerenza.
In che modo «Unsapiens» riflette un’evoluzione rispetto ai tuoi lavori precedenti? Quali aspetti di te — artistici o personali — sono cambiati durante la sua creazione?
Questo è il mio disco più maturo. Più politico, più autentico, pensato e realizzato nella mia lingua, il napoletano. Ho tolto i filtri, mi sono lasciato andare in ogni senso, e per questo lo considero un disco libero e sincero.
La tua identità napoletana è sempre stata parte della tua cifra stilistica. Come la racconti in questo disco?
Napoli è uno state of mind: un modo di pensare il mondo e di rifletterlo nell’arte.
Quali sono i temi principali del disco? Si percepisce un contrasto continuo tra istinto e ragione, tra fragilità e lucidità. È il filo rosso dell’album?
Capitalismo, disuguaglianze, alienazione, emigrazione, l’importanza dell’antropologia per capire l’essere umano e trovare nuove soluzioni politiche. C’è anche molto sarcasmo— una chiave perfetta per fare critica sociale.
In «Unsapiens» sembri riflettere molto sul rapporto tra umanità e modernità, tra connessione e alienazione. Quanto il mondo digitale ha inciso sul tuo modo di scrivere?
Il digitale ha amplificato la mia percezione dell’alienazione. Siamo sempre connessi, ma sempre più soli. Persino nella musica mi chiedo: se internet smettesse di funzionare da un giorno all’altro, dove rimarrebbe traccia della mia presenza artistica e della mia musica? Anche per questo ho voluto stampare i vinili.

Se dovessi scegliere un solo brano per rappresentare l’intero album, quale sarebbe e perché?
Direi Unsapiens. Dentro c’è tutto: la critica, la filosofia, la musica, il Sud, e la voce di Pievani.
La tua voce sembra più «fisica», più esposta. È stata una scelta consapevole? Hai cercato un nuovo modo di interpretare?
Sì, volevo che si sentisse il fiato, l’imperfezione. Non ho mai utilizzato l’auto-tune: questa è sempre stata la mia prassi. Una voce quasi priva di plug-in, poche take, quasi sempre usate così come venivano. L’estetica è fondamentale, ma l’unicità (e l’imperfezione) rende l’arte ancora più viva.
Come immagini «Unsapiens» dal vivo? Ci saranno arrangiamenti diversi, momenti più teatrali, improvvisazioni?
Dal vivo è tutta un’altra storia. Gli album cambiano forma, soprattutto quando suonati con musicisti capaci di dare anima alle linee melodiche attraverso i propri strumenti. La live session di Ma Che Maronn’ (la trovate su YouTube) ne è la prova.
«Unsapiens» apre un tuo nuovo capitolo artistico o chiude uno precedente?
Sicuramente un nuovo capitolo, che ha già una prosieguo in cantiere.
Leo, qual è il primo ricordo che ti lega alla musica? C’è un momento in cui hai capito che sarebbe diventata la tua strada?
Pino Daniele, le canzoni napoletane classiche, Bill Evans.
Come descriveresti il tuo percorso di crescita musicale? Chi sono stati i tuoi maestri — dichiarati o nascosti — e quanto hanno influenzato la tua voce artistica?
Roy Hargrove (e i suoi Factors), Soulquarians, Pino Daniele, Jamiroquai, Yussef Dayes, Kendrick Lamar, tanto jazz tradizionale e molti altri artisti: troppi per nominarli tutti.

Il tuo stile mescola elementi tradizionali e contaminazioni moderne. Come costruisci il tuo paesaggio sonoro? Hai un riferimento preciso per i tuoi arrangiamenti?
Parto quasi sempre da un groove. Il resto viene da sé.
C’è una figura o una collaborazione che ha segnato in modo particolare il tuo percorso? Come scegli le persone con cui lavorare?
Ogni artista presente nel disco ha lasciato un’impronta unica.
Quali sono i tuoi prossimi obiettivi e quali i tuoi prossimi impegni?
Portare «Unsapiens» in tour e lavorare alla mia prossima serie di mixtape.
Alceste Ayroldi