Buongiorno Enrico, parliamo del concerto che terrai con il tuo trio a Pavia per La Milanesiana, rassegna ideata e diretta da Elisabetta Sgarbi. Il prologo è affidato ad Andrea Moro con le letture di Kamel Daoud, Giulia Caminito e Hadley Freeman. Quale sarà il repertorio che affronterai?
Il titolo del concerto, Unlimited, spiega tutto, perché si salta da brani miei originali a qualche standard, a probabilmente qualche incursione nel campo della musica per film, con Cinema Paradiso e un omaggio a Fellini. Quindi è un repertorio appunto senza limiti, multidirezionale per così dire.

Ci vorresti dire qualcosa sui tuoi compagni di viaggio?
Di Luca Bulgarelli e Mauro Beggio posso dire solo cose stupende. È un trio che ormai è consolidato, è un’unità e c’è molta empatia. Sono personalità che hanno la doppia qualità di avere talento e anche di essere disponibili a interagire, a dar vita al famoso interplay, che non è solo un’espressione ma è piuttosto un modo di essere, un modo di porsi rispetto alla musica e soprattutto agli altri quando si fa musica con loro. Quindi secondo me sono due grandi musicisti.
Il tema di quest’anno de La Milanesiana è «Intelligenza». Un tema vastissimo e di particolare attualità soprattutto con riguardo all’intelligenza artificiale. Quali sono le tue riflessioni sull’intelligenza artificiale applicata alla musica?
Chiaramente sono terrorizzato, perché è chiaro che in questo momento gli artisti soprattutto ma anche quelli che una volta si chiamavano gli intellettuali (termine oggi ormai abolito o addirittura caricato di una certa negatività per motivi di contingenza storica) si trovano coinvolti in un discorso della creatività in cui già ci sono esperimenti e realtà inquietanti. Sono comunque contento che il tema della rassegna sia l’intelligenza, perché in musica l’intelligenza è la capacità di essere appieno se stessi e di mescolarsi, fondersi con gli altri. Soprattutto, l’intelligenza è secondo me la capacità di amministrare il proprio linguaggio con grande umiltà da una parte ma anche con grande energia comunicativa dall’altra.
A tal proposito, l’elettronica si fa sempre più presente anche nel jazz. Qual è il tuo pensiero al riguardo? Tu la utilizzeresti?
Sì, si può utilizzare tutto, la creatività non pone limiti agli strumenti. Tutto può essere utile se c’è una disponibilità al creare sincera e capace. Quindi non ho nessuna preclusione rispetto all’elettronica, assolutamente. Purché poi non diventi una one way, l’unico linguaggio, l’unica strada espressiva possibile.
Bisogna sempre essere aperti a tutte le strade espressive, anche a volte recuperando cose del passato che sembravano ormai da archiviare.
Ritornando al trio, qual è il tuo concetto storico di piano jazz trio?
Il trio che mi ha fece crescere come riferimento metodologico e di approccio alla musica è il trio di Bill Evans con Scott La Faro e Paul Motian, Molti anni fa misi insieme un trio italiano, lo Space Jazz Trio, che si richiamava a quel modello ideale. Poi ci sono stati altri esempi. Chick Corea, un pianista che mi ha molto ispirato, e che, anche, ha avuto anche trii straordinari. Direi che questi due sono stati i miei modelli, anche se poi ci sono tanti altri colleghi bravissimi. Storicamente però il trio di Bill Evans con Scott La Faro e Paul Motian ha messo sul tavolo qualcosa che prima non c’era rispetto alle funzioni dei tre strumenti coinvolti e quindi secondo me è un modello che mantiene tuttora una grande validità.
Enrico, tu affronti tanto il repertorio jazzistico, quanto quello classico. Non sono, quindi, due emisferi distanti come molti sostengono. Giusto?
Sono stupito che ancora molti lo sostengano. Ormai i due emisferi si sono avvicinati, si sono mischiati da tempo. Il crossover, la fusione dei linguaggi è una realtà di tutti i giorni, in tutte le zone della musica. Questi pregiudizi sono veramente antistorici. Da tempo si fanno ormai operazioni di crossover che sono assolutamente all’ordine del giorno. E il grande trait d’union tra le due musiche è paradossalmente proprio l’improvvisazione. Perché chi sostiene che la musica classica è appunto classica eccetera eccetera, tutta scritta eccetera eccetera, ignora o finge di ignorare che i più grandi compositori della storia della musica classica, da Scarlatti e Bach su fino a Liszt e addirittura a Debussy erano dei grandi improvvisatori. Insomma la vicenda è molto più ampia di quanto si creda….
Alceste Ayroldi