«I Got Strings». Intervista a Eleonora Strino

Per il suo nuovo album, la chitarrista napoletana ha al suo fianco Greg Cohen e Joey Baron. Ecco cosa ci ha raccontato.

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Buongiorno Eleonora. Se sei d’accordo, vorrei iniziare dal tuo ultimo disco «I Got String» con Greg Cohen e Joey Baron. Quando l’ho ascoltato, ho avuto la piacevole impressione che voi tre vi siate incontrati un pomeriggio (forse d’estate) e vi siate messi a suonare degli evergreens, per il vostro diletto. Insomma, ciò che traspare da questo disco è che vi sia una gran gioia da parte vostra di suonare quei brani e di stare insieme. Mi sbaglio? Come è nata l’idea di questo disco?
Buongiorno Alceste. La sensazione è giusta, solo il periodo è sbagliato. Ci siamo riuniti in un freddo pomeriggio di fine novembre. Tra ottobre e novembre 2021 ho fatto un tour di un mese in Germania. Ogni giorno un concerto in un posto diverso per 30 giorni. Era il tempo in cui si intravedeva il primo spiraglio della fine della pandemia. Un po’ come tutti, specialmente gli artisti e le categorie direttamente coinvolte, sono stata molto provata psicologicamente da quell’intensa esperienza. Così quel tour l’ho fatto con molta fatica: ero molto stanca, ansiosa, spaventata. L’ultima data era a Schwerin, una cittadina a circa due ore da Berlino. Prima della fine del tour ricevo una telefonata da Greg Cohen il quale mi dice che aveva fatto ascoltare qualcosa di mio a Joey Baron e gli ha domandato se avesse avuto piacere a registrare un disco con me. La sua risposta è stata positiva è così la proposta che mi è arrivata da Greg è stata quella di registrare in un bellissimo studio al centro di Berlino, un disco totalmente acustico, registrato analogicamente in 2 type ed in un’unica giornata. Sarei dovuta partire due giorni dopo la fine del tour, esattamente il 17 novembre 2021. Devo dire che ho avuto un attimo di smarrimento: ho pensato che ero molto stanca, non sapevo cosa avrei potuto suonare, non avevo mai suonato con Joey Baron che per me è una leggenda vivente. Poi ho respirato ed ho pensato: ho dedicato tutta la mia vita al Jazz, non c’è nulla di più jazz di concepire un disco in questo modo. Mi sono ricordata di Duke Ellington che portava le sue composizioni direttamente in sala, di Miles Davis, del povero Tommy Flanagan che ha dovuto leggere e registrare a prima vista «Giant Steps», e di tutti gli album live che ho macinato nella mia vita. Così ho preso le mie paure, le mie perplessità̀, la mia stanchezza e sono andata ad improvvisare! Ciò che amo di questo album è il suono del trio. Joey Baron mi ha spiegato cosa faceva Jim Hall per ottenere un suono così acustico, mi diceva che ascoltava uscire quel suono direttamente dal contrabbasso e così abbiamo provato a fare più o meno la stessa cosa. Greg da sempre è il mio mentore e mi ha spinta verso la ricerca di un suono acustico, la chitarra che ho e con cui ho registrato il disco, una Gibson L7 del ’33, me l’ha portata lui dall’America. Direi quindi che quest’album nasce dal legno, dalla ricerca del suono, è un incontro tra tre artisti in un piovoso e freddo pomeriggio berlinese oppure usando le parole di Joey Baron, quest’album è «The End of the Day».
Per quanto riguarda gli evergreens, hai perfettamente ragione: quello che ci ha fatto riunire è stata proprio la passione per le belle canzoni, la passione per Duke Ellington, per Thelonious Monk, per Jim Hall.

Il tuo incontro con Greg Cohen, invece, quando e come è avvenuto?
Greg Cohen è il mio angelo custode, lo conosco ormai da dodici anni. Quando avevo circa 23 anni feci un’audizione a Berlino per il JIB (Jazz Institute Berlin) dove all’epoca insegnava Kurt Rosenwinkel. L’audizione andò bene, riuscii a passare la prova pratica ma non quella teorica per la lingua. Qualche giorno dopo mi contattò Greg Cohen scrivendomi che era rimasto colpito dalla mia musicalità e così mi chiese se avessi piacere a registrare un disco a Roma, disco però che non è mai uscito data la mia forte tendenza all’autocritica. In ogni caso quello fu l’inizio di una collaborazione musicale e umana che mi ha cambiato la vita. Greg è uno degli artisti più eclettici ed una delle persone più straordinarie che abbia mai conosciuto. Posso dire che mi ha seguita molto durante tutta la mia evoluzione, e questo è stato fondamentale per la mia crescita artistica. Joey Baron l’ho conosciuto proprio il giorno in cui abbiamo registrato il disco, l’emozione è stata davvero forte. Joey è una delle leggende viventi del jazz, suonare con lui è stato come prendere un ascensore per il paradiso. Quando hai la possibilità di confrontarti con una personalità artistica così profonda, senti di venire trasportato in un’altra dimensione. La sensazione è stata quella di suonare sulle nuvole. I miei musicisti preferiti sono Jim Hall e Bill Frisell ed ho macinato tutti i dischi in cui c’era Joey Baron con loro. Inutile dire la gioia di quando ho riascoltato la mia chitarra sorretta da una tale ritmica.

Sette brani, come dicevo prima, immortali. Qual è il criterio che hai utilizzato nella scelta?
Li abbiamo scelti insieme, ci siamo incontrati ed abbiamo scelto cosa suonare. Abbiamo pensato anche che fosse carino includere dei brani che mi rappresentavano di più, per questo troviamo nell’album l’arrangiamento di Il Postino di Luis Bacalov ed Estate di Bruno Martino.

Di certo si comprende il tuo debole per Duke Ellington, visto che ben tre brani sono attinti dal suo vasto repertorio. C’è qualcosa in particolare che ti lega a Ellington?
Ho sempre adorato la musica di Ellington ed anche della sua spalla destra Billy Strayhorn. Qualche anno fa ho trascritto l’intero l’album «Thelonious Monk Plays the Music of Duke Ellington» e così per un periodo la mia ricerca artistica è stata quella di portare sulla chitarra il pianismo di Monk unito alla bellezza e alle viscere della musica del Duca.

Non ci sono brani scritti da te. Perché hai voluto tenere fuori la tua verve compositiva?
In un primo momento ho pensato di includere anche brani originali, ma come dicevo questo disco è stato un incontro estemporaneo e non avrei voluto compromettere in qualche modo la spontaneità della situazione. Il disco è uscito a mio nome ma di fatto è stata un’idea condivisa, anzi in quel momento io mi sentivo solo un umile servitore nelle mani di due artisti straordinari. Devo anche dire che le mie composizioni vanno in una direzione quasi totalmente diversa, e quindi non ci sarebbe stata una coerenza tematica. Le composizioni originali confluiranno nel nuovo album che ho quasi terminato di concepire. Si tratta di composizioni alle quali sto lavorando da diversi anni e il disco sarà orientato verso sonorità più moderne, senza però mai tralasciare il suono acustico e di sicuro le mie origini partenopee. È da qualche tem che traggo molta ispirazione artistica dalle sonorità di Julian Lage e di Bill Frisell, due artisti eclettici e, ciascuno a suo modo, geniali.

Dopo aver studiato al Conservatorio di Napoli hai scelto di proseguire presso quello di Amsterdam. Cosa ti stava stretto dell’Italia?
Dopo Napoli mi sono trasferita a Torino e poi sono andata ad Amsterdam. A Napoli non abbiamo una grande cultura del jazz, è una città dall’incredibile fermento artistico ma il jazz non riscuote grande interesse. Così molti miei colleghi del conservatorio spesso mi scoraggiavano parlando dell’inutilità di suonare questa musica «ormai vecchia». Ma io per fortuna ho avuto sempre le idee molto chiare e così ho deciso di andare alla ricerca di luoghi più affini al mio percorso. Al conservatorio di Amsterdam c’erano musicisti da tutto il mondo con la mia stessa passione per il jazz. Passavamo intere giornate a suonare gli standard più ricercati, le canzoni americane che sentivi suonare solo alle jam session di NY.

Oggi qual è il tuo rapporto con il sistema musicale (jazzistico, in particolare) italiano?
Oggi mi ritengo comunque molto fortunata perché posso vivere della mia passione. Da quest’anno insegno anche al conservatorio e devo dire che è un’esperienza molto bella e gratificante. L’Italia è un bel posto per un jazzista, ci sono moltissimi festival, molte rassegne, diversi jazz club e tanti jazzisti superlativi. Spesso sento l’esigenza di confrontarmi con musicisti stranieri ma per fortuna suono all’estero molto spesso.

Eleonora, vorrei fare un passo indietro. Il tuo amore per la chitarra quando è sbocciato?
Il mio amore per la chitarra nasce a quindici anni. È stato un colpo di fulmine. Sono cresciuta in una famiglia d’arte, mio padre era uno straordinario pittore figurativo e mia sorella, la primogenita, ha seguito le sue orme. Ma in casa non c’era una grande cultura musicale: la musica più vicina al jazz, e che sicuramente mi ha molto influenzata, era quella di Pino Daniele. Fortuna che le mie sorelle avevano i loro rispettivi ragazzi dell’epoca che amavano il jazz e così lo portarono in casa. Ascoltai l’album di Pat Metheny e Charlie Haden «Beyond The Missouri Sky» e poi quello di Jim Hall e Bill Evans «Undercurrent», e ne rimasi talmente incantata che andai di corsa da mio padre e gli dissi: Papà, voglio fare la chitarrista di jazz!

Il tuo stile è di quelli che si ascoltano oramai di rado. Si sente che hai particolarmente a cuore la tradizione jazz. La prima domanda è: in quale direzione va la ricerca musicale di Eleonora Strino?
Sì, ho particolarmente a cuore la tradizione jazzistica. Devo dire che non c’è nulla che mi piace di più del pensare di ritrovarmi in un vecchio e fumoso club di NY con incredibili musicisti e suonare tutte le più belle canzoni del repertorio americano. Ovviamente il bop è stata la mia principale ricerca. Ho provato a decodificarne il linguaggio passando intere giornate a trascrivere interi dischi. Quello che insegno ai miei allievi, l’argomento delle masterclass che faccio in giro per il mondo è la proprio il linguaggio del bop. Ho scritto anche un libro per una delle più importanti case editrici musicali mondiali, la Fundamental Interchanges. Il libro si chiama Bebop Scales for Jazz Guitar, sta vendendo molto bene e ne sono davvero felice.

La seconda, invece, riguarda la tradizione musicale in generale. Tu sei napoletana. Quanto incidono i tuoi natali nel tuo approccio alla musica?
Napoli incide totalmente nella mia ricerca artistica: ogni mia composizione ha dentro la voce di Partenope, come inevitabile conseguenza. Non vorrei peccare di campanilismo ma Napoli è una città straordinaria, la sua bellezza è talmente disarmante che per un artista non può che essere fonte di ispirazione, anche con tutti i suoi contrasti, con tutti gli aspetti negativi che ci sono. Basti pensare che Pino Daniele ha costruito una carriera sulla dicotomia napoletana.

Tra le tue collaborazioni, quali sono quelle alle quali sei particolarmente legata?
Devo dire che sono stata molto fortunata perché tanti artisti straordinari mi hanno “scoperta” e inclusa nella loro musica. Tra le collaborazioni più importanti annovero sicuramente quella con Dado Moroni, con il quale abbiamo registrato un disco per il Parco della Musica dal titolo «Itamela» presentandolo al Teatro Morlacchi di Perugia lo scorso luglio, durante Umbria Jazz. Poi faccio parte dell’ultimo progetto di Emanuele Cisi «Far Away», disco registrato su una barca a vela e prodotto dalla Warner Music. E ovviamente c’è quella con Greg Cohen.

Quali sono state le tue prime passioni/influenze?
Come ho dicevo poc’anzi, Jim Hall è stata la mia prima passione. Ma in parallelo sono rimasta incantata dalla musica di Tom Jobim e di conseguenza da tutta quella brasiliana. Da adolescente scoperto il jazz conservavo i soldi della paghetta per comprare un disco ECM a settimana, compresi quelli in cui suonava John Scofield. Direi quindi che è stato un processo a ritroso.

Per la maggior parte degli artisti, l’originalità è preceduta da una fase di apprendimento e, spesso, di emulazione degli altri. Come è stato per te questo periodo? Come descriveresti il tuo sviluppo come artista e la transizione verso la tua “voce” personale?
È andata assolutamente così, per un periodo ho trascritto talmente tanto Barney Kessel che non riuscivo a non suonare come lui, ovviamente con le dovute differenze. A quel punto poi l’ho abbandonato e ho iniziato con tutti gli altri chitarristi ma prendendone dei pezzettini ed includendoli nella mia musica. Poi sono passata ai pianisti: Hampton Hawes, Monk, Bud Powell, Stanley Clark. I sassofonisti: da Parker, Paul Desmond, fino a Michael Brecker e poi qualsiasi altro strumento. Ho passato anni a ricercare il suono che mi piaceva, cambiando tecnica in continuazione. L’emulazione è stata fondamentale per la creazione della mia voce personale che, comunque, è sempre in continua evoluzione.

Cosa è scritto nell’agenda di Eleonora Strino?
Debutterò al Blue Note con questo nuovo album e con altri due musicisti straordinari: Jason Brown e Daryl Hall. L’idea è quella di portare poi questo progetto in giro per il mondo. Quest’estate lavorerò molto anche come insegnante; mi trovo in questo momento a Tirana per tenere delle Masterclass all’ Università delle Arti, e in seguito andrò a insegnare a Barcellona al Taller de Musics, poi al conservatorio di Nizza. Sostituirò Peter Bernstein per i seminari di Albissola Jazz con l’organizzazione del grande Dado Moroni. Infine terrò un workshop insieme a Pietro Condorelli e Frank Gambale al Moncalieri Jazz festival. Ah, anche tanti concerti!
Alceste Ayroldi