Benvenuta a Musica Jazz Coca. Hai due album all’attivo: «Panorama Olivia» e «Quasi a casa», colonna sonora dell’omonimo film di Carolina Pavone. Due album completamente differenti, seppur usciti nello stesso anno (2024). Nel primo emergono sonorità tra hip hop, nu-jazz, broken beat, neo-soul; mentre nel secondo, a parte Sequenza studio up-tempo in compagnia di Quasi a casa, troviamo sonorità ambient, ricche di trame elettroniche, a cavallo tra Brian Eno e i Tangerine Dream, e quasi esclusivamente strumentali: insomma, un vero e proprio paesaggio sonoro. Non voglio chiederti quali dei due album rappresenti Coca Puma ma, in primo luogo, come hai agito nella fase compositiva ed esecutiva di «Quasi a casa»? Hai dovuto forzare la mano rispetto alla tua visione della musica?
No, non direi. Ho lavorato a stretto contatto con una persona che conosce bene me e la mia musica, quindi nel momento in cui mi ha chiamata per il progetto sapeva già cosa aspettarsi. Uno dei due è il mio primo disco da solista, l’altro è una colonna sonora: è un lavoro dedicato a un film, che rispetta le necessità di un prodotto visivo, di una narrazione.
Invece, «Panorama Olivia» come nasce?
In realtà è nato quasi da solo. All’inizio avevo solo dei brani, non sapevo nemmeno che li avrei raccolti in un disco. Sono nati per esigenza creativa. Venivo da un gruppo che si chiamava Quiver, che poi si è sciolto. Con loro scrivevamo in inglese, facevamo musica più internazionale. Dopo quella esperienza, ho sentito il bisogno di scrivere in italiano e avvicinarmi un po’ di più al pop. Spesso dico che «Panorama Olivia» è un “pop fallito”, perché ci ho messo dentro tutto quello che mi piace. Ha un’intenzione pop, ma poi contiene tanti generi e influenze diverse. Quando ho iniziato a sviluppare meglio le idee, è nata l’esigenza di dare un titolo, un luogo, una meta ai brani. E così è nato il disco.
Ho letto che Olivia è la gatta dei vicini di casa di tua nonna, che ti veniva a trovare. Le hai dedicato un disco, quindi significa che per te è importante. Lo è stato anche dal punto di vista artistico? Perché?
È stata più una valenza simbolica. Stavo in una casa immersa nella natura, ho passato tanti momenti in solitudine, da “eremita”. E questa gatta veniva a farmi visita, era un po’ l’unica testimone di quei momenti sospesi. Da lì è nata l’idea di dedicarle il disco, come un piccolo omaggio.
Quali sono le tue fonti di ispirazione per i testi e quali per la tua musica?
Il disco è un po’ la somma dei miei ascolti nel corso della vita, un grande mischione. Quello che ho cercato di fare è stato scrivere di getto, senza troppo controllo, soprattutto per quanto riguarda i testi. Al liceo mi dicevano che avevo il dono della sintesi… Mi piaceva anche l’idea di lasciare spazio alla musica, creando un equilibrio tra parti cantate e sezioni strumentali.
Sei una ragazza misteriosa, ci tieni a non svelare completamente il tuo volto. Perché?
È nato in realtà in modo spontaneo. Quando il gruppo con cui suonavo si è sciolto, è stata una decisione condivisa, ma comunque mi sono ritrovata a dover ricominciare da sola. E si sa che gli inizi sono sempre momenti fragili. Il cappello è diventato per me una sorta di scudo, uno strumento di protezione. Col tempo ha assunto anche un valore simbolico. Mi piaceva l’idea di non mettermi troppo in mostra, di non concentrare l’attenzione sul mio aspetto fisico o sulla mia immagine, ma piuttosto sulla musica, su quello che scrivo, su ciò che faccio. È per questo che faccio questo mestiere.

foto di Brando Pacitto
Quali strumenti suoni?
Principalmente suono le tastiere. Suono anche un po’ la chitarra, ma non mi considero una chitarrista. Per comporre ho usato soprattutto la mia Nord Stage 3 Compact. Sono riuscita a comprarla qualche anno fa grazie a una piccola eredità che mi ha lasciato mia nonna. Non avendo troppe risorse economiche, per molto tempo è stato l’unico strumento che avevo, quindi ho cercato di sfruttarlo al massimo. Alla fine, il disco l’ho registrato quasi tutto con quella tastiera. Poi, andando avanti, mi sono comprata anche altre cose, come un Prophet. Utilizzo diversi software, principalmente lavoro su Logic. Ogni tanto mi capita di campionare qualcosa dai vinili, ma è piuttosto raro. Questi, comunque, sono i miei principali strumenti di lavoro.
Ho letto un articolo dove un giornalista si chiedeva se fosse finalmente arrivato il momento del cantautorato femminile. Tu cosa ne pensi? Siamo davvero a una svolta, oppure c’è ancora tanta strada da fare?
Guarda, per quanto venga spesso veicolata l’idea di un’assenza del cantautorato femminile, in realtà ci sono state – e ci sono – tantissime donne autrici. Sicuramente questo è un momento storico in cui viene data più visibilità a queste figure. In questo senso, sì, forse è davvero la volta buona. È un momento in cui queste voci stanno finalmente ottenendo lo spazio e l’ascolto che meritano.
Alceste Ayroldi