«Make It Happen». Intervista a Cesare Pizzetti

Nuovo disco per il poliedrico contrabbassista milanese. Ne parliamo con lui.

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Cesare, innanzitutto grazie per essere con noi. Dopo una carriera così ricca e variegata — dalla formazione classica al contrabbasso, dalla grande varietà di progetti e collaborazioni — cosa ti ha spinto a dare vita a «Make it Happen»? Qual è stato il motore / l’urgenza creativa dietro questo nuovo progetto?
Grazie a Voi per lo spazio e l’attenzione.   Questo disco, in realtà, nasce grazie a Maxx Furian. Io lo conoscevo e lo stimavo già come artista e come professionista, poi ho avuto il piacere di incontrarlo di persona quando abbiamo iniziato a collaborare nella stessa scuola, la NAM di Milano, dove insegno da oltre vent’anni e dove lui è arrivato nel 2013. Negli anni Maxx mi ha coinvolto in molte situazioni: mi ha fatto conoscere Gianni Cazzola, mi ha portato al suo fianco nel Get Loud Groove Contest 2018, organizzato da Mogar, Ibanez, Tama, Zildjian e altri partner importanti; e mi ha chiamato a suonare in una masterclass dove ho avuto l’onore di accompagnare Mike Mainieri. A un certo punto ho sentito il bisogno di ricambiare.
Mi è venuto naturale pensare di scrivere alcuni brani pensando a lui, proprio per coinvolgerlo in un mio progetto discografico. E da lì è cominciato tutto.

Che significato ha per te il titolo «Make it Happen»?
«Make it Happen» è un vero e proprio manifesto: significa non rimandare, trasformare la visione in musica, scegliere l’azione.
È un titolo che racchiude l’essenza del progetto: vivere il momento in cui nasce l’ispirazione e renderlo reale, immediato, condivisibile.
È una spinta gentile ma decisa a far sì che la musica accada, nel momento giusto, con la giusta energia e con le persone giuste.

Puoi raccontarci come hai concepito questo disco a livello musicale e compositivo? Hai seguito un fil rouge, un tema, un’idea narrativa o emozionale?
Per questo disco ho cercato di fare qualcosa di diverso rispetto ai miei lavori precedenti. Scrivo musica quasi tutti i giorni, anche solo per esercizio o per ricerca personale, ma questa volta sentivo il bisogno di uscire dai territori più classici dei miei primi due album, che erano decisamente più acustici e più «jazz», nel senso proprio di jazz classico. In quei lavori avevo costruito le composizioni con una struttura molto standard, lasciando poi uno spazio ampio all’improvvisazione. Qui, invece, ho voluto aprirmi ad altre sonorità: al funk, all’uso degli strumenti elettrici, a cominciare dal basso elettrico, che è lo strumento con cui ho iniziato e che ho sempre amato, ma che avevo un po’ messo da parte per dedicarmi al contrabbasso. In questo progetto l’ho voluto riprendere, e insieme a lui ho voluto inserire il piano Fender Rhodes, l’hammond, ritmi diversi, non solo lo swing ma anche il funk e in generale il portamento even eight. L’idea di fondo era ed è sempre la stessa: non ripetermi, provare a fare qualcosa di nuovo, qualcosa che non avevo ancora fatto.

In che modo la tua formazione classica e le tue precedenti esperienze hanno influito sulla musica di questo tuo album?
Devo tantissimo agli studi classici. Mi hanno insegnato il valore della disciplina, della costanza, della cura del dettaglio. Sono valori che mi accompagnano ancora oggi, anche se non sono un musicista classico: fanno parte del mio modo di lavorare, di ascoltare e di suonare. Per quanto riguarda le esperienze precedenti, in fondo siamo tutti il risultato del nostro percorso.
Mi considero soprattutto un ascoltatore famelico: mi piace la musica in tantissime delle sue forme, e cerco sempre di farmi ispirare da sonorità diverse, generi diversi, periodi diversi. Quando scrivo, provo a convogliare tutti questi spunti e a farne una sintesi. Mi piace farmi influenzare da situazioni differenti, anche perché non si è mai la stessa persona ogni giorno. Ci sono giorni in cui mi sento più funk, altri più swing, altri ancora più rock, e cerco sempre di assecondare il sentimento di quel momento. Penso che anche questo contribuisca a rendere la mia musica autentica e personale.

Quali sono per te i brani chiave del disco, e perché li consideri tali?
Ci sono alcuni brani del disco per me particolarmente significativi. In the Nick of Time nasce da un tema funk che poi si trasforma in swing. La traduzione più o meno letterale del titolo è «al momento giusto» o «proprio in tempo», e racconta quell’attimo sospeso in cui tutto può ancora accadere: il momento in cui l’urgenza diventa musica, prima che il tempo chiuda la sua porta. Miles’s Tones è un jazz fast pieno di swing ed energia. L’ho scritto come omaggio al genio di Miles Davis, anche in vista del centenario della sua nascita. È il mio tributo a un artista che ha saputo anticipare i tempi e reinventare la musica, e che continua a ispirare generazioni di musicisti, me compreso. December 23 richiama le sonorità degli anni Ottanta, gli anni della mia infanzia. Il 23 dicembre è sempre stato il giorno dell’anno per me più emozionate: la soglia delle feste più belle. Un momento in cui l’attesa stessa diventa gioia. Ho cercato di tradurre quella sensazione in musica. Lascia andare è una ballad onirica, sospesa nel tempo. Parte da un’introduzione molto scura, dalle cui ombre emerge un assolo di tromba luminoso e solare, quasi come una rinascita. È un brano che parla della necessità di lasciare andare i momenti bui, perché la vita accade ora e lo sguardo deve essere rivolto con gioia al presente e a ciò che verrà.

Come hai scelto i musicisti che sono al tuo fianco?
Come dicevo, tutto è partito da Maxx Furian, con lui c’è Tullio Ricci, che per me è davvero un mito, fin da quando ero molto giovane. È un musicista di riferimento e aveva già suonato nel mio precedente album: posso dire che è il mio sassofonista di fiducia. Poi, c’è il giovanissimo Leo Dalla Cort, che mi è stato suggerito da Maxx. Loro suonano insieme da tempo, Maxx me ne ha parlato come di un talento pazzesco e aveva ragione: è stato perfetto per il progetto. A chiudere il combo c’è Flavio Boltro. December 23 era stato concepito proprio in quintetto, con l’incastro di due voci nel tema, quindi con sax e tromba. Io e Flavio non ci conosciamo da molto. Abbiamo avuto occasione di suonare insieme e si è creato da subito un bellissimo feeling, soprattutto umano prima ancora che artistico. Così gli ho proposto di partecipare al brano e, presi dall’entusiasmo, i brani in cui ha suonato sono diventati tre. Ne sono felicissimo, perché Flavio è davvero eccezionale.

Qual è la sfida più grande che hai incontrato durante la realizzazione di questo disco? E cosa hai imparato da essa?
La sfida più grande è stata proprio lanciarmi in sonorità funk ed elettriche, uscendo dallo swing più classico che l’aveva fatta da padrone nei dischi precedenti. Volevo aprirmi a mondi nuovi, sperimentare strumenti elettrici, ritmiche diverse, colori che non avevo mai usato prima. All’inizio non è stato semplice: ogni volta che provavo qualcosa di nuovo mi chiedevo se stessi andando nella direzione giusta o se stessi forzando troppo la mano.
La vera sfida è stata fidarmi del processo, ascoltare quello che stava emergendo e permettermi di cambiare prospettiva senza paura. Quello che ho imparato è che la musica ti parla, se la ascolti. E spesso l’equilibrio arriva da solo quando smetti di controllare tutto e lasci spazio all’interplay, al respiro del brano. È stato liberatorio: si può crescere, cambiare, esplorare strade nuove, restando comunque se stessi.

Guardando al tuo percorso — dalla formazione classica, al contrabbasso, all’insegnamento, alle collaborazioni con stili diversi — come definiresti la tua identità musicale oggi?
Qui faccio davvero fatica a rispondere, perché non saprei definire con precisione una mia identità musicale. Quello che posso dire è ribadire che, prima ancora di essere un musicista, sono un ascoltatore famelico. Sono un grande appassionato di musica: ascoltare mi piace quasi più che suonare. Mi lascio rapire da forme diverse, sonorità diverse, periodi diversi, linguaggi diversi. Sono una persona curiosa, e non c’è ascolto che non mi faccia drizzare le orecchie. Se devo parlare di identità, forse penso più alla mia identità di ascoltatore che a quella di musicista.
È come se tutto quello che ascolto diventasse una cartina di tornasole: ciò che mi colpisce finisce, in qualche modo, per influenzare come scrivo e come suono. Più che definire un genere o un’etichetta, direi che la mia identità musicale nasce proprio da questa curiosità e da questa voglia continua di lasciarmi ispirare.

Cesare Pizzetti

C’è stato un momento della tua carriera che ha cambiato il tuo modo di suonare?
Un momento preciso forse non saprei individuarlo, però sicuramente c’è stato un cambiamento importante nel tempo. Gli studi accademici, il rigore, la disciplina da una parte sono fondamentali, ma dall’altra creano una forte autocritica: il voler fare tutto perfetto, impeccabile. Col passare degli anni – e questo lo devo molto al jazz – ho imparato a lasciare andare e a vivere il momento, a non suonare con la testa piena di giudizi, aspettative o paure. Ho capito che lo studio è fondamentale, ma poi, quando sei lì a suonare, devi saper fare switch e stare davvero nel momento, senza timori o paranoie. Oggi sento di esserci riuscito: tutto lo studio confluisce nel mio modo di suonare, ma senza appesantirmi.
È anche questo il senso di «Make It Happen»: prepararsi al massimo, ma poi vivere l’attimo. E questa è una cosa che ho imparato solo con gli anni, e di cui sono molto felice.

Quali sono gli artisti che ti hanno maggiormente influenzato?
Le mie influenze sono davvero tantissime, perché arrivo da ascolti molto diversi. Spaziano dal jazz al funk, dall’hip hop alla musica elettronica, dal pop al rock, dalla musica sperimentale fino alla musica classica. Uno dei miei idoli assoluti è Miles Davis: un modello non solo per il suono, ma per l’attitudine. Mi ha sempre colpito il suo modo di cercare sonorità nuove, di lasciarsi ispirare da ciò che lo circondava, di non fermarsi mai. Nel mio bagaglio ci sono davvero tanti artisti diversi, cantautori, rapper, produttori: Nina Simone, J Dilla, The Alchemist, Aphex Twin, Nas, Enzo Jannacci, Ozzy Osbourne, Sangue Misto, James Taylor e molti. E poi c’è Prince, che seguo da quando ero bambino: per me è l’esempio assoluto di poliedricità, di libertà artistica, di qualcuno capace di attraversare i generi senza perdere identità.

In un’epoca dominata dalle produzioni digitali, che spazio c’è per uno strumento acustico così “antico”?
Il contrabbasso ha ancora tantissimo spazio. Porta con sé un respiro, un’imperfezione naturale, una vibrazione fisica che fanno parte della sua bellezza. Allo stesso tempo, però, penso che autenticità, personalità e persino difetti si possano trovare anche nelle produzioni digitali.
La tecnologia, se usata con sensibilità, permette di creare risultati espressivi, profondi, pieni di carattere. Per questo non vedo i due mondi come opposti: anzi, credo che l’incontro tra acustico e digitale sia una delle frontiere più interessanti della musica oggi. Alla fine, che tu suoni il contrabbasso o programmi un synth, quello che conta davvero è la ricerca e l’autenticità dell’espressione. Sono valori comuni a entrambe le dimensioni. E quando queste strade si incontrano, possono nascere cose bellissime: la bellezza e la profondità dell’acustico e le infinite possibilità del digitale che convivono insieme.

Cesare Pizzetti

Quali sono i tuoi obiettivi come artista e quali i tuoi prossimi impegni?
Una cosa che mi accompagna da sempre è che, appena pubblico un disco nuovo, nella mia testa sono già al prossimo. È più forte di me: mentre un progetto prende vita, ne sto già immaginando un altro. In questo momento ho due lavori diversi in cantiere: un nuovo progetto jazz in trio (pianoforte, contrabbasso, batteria), una formazione che non ho mai esplorato fino in fondo e che mi affascina molto; poi un progetto hip hop, produzioni e rap incastrate con il contrabbasso, una ricerca sperimentale che mi sta stimolando tantissimo. Poi voglio continuare la mia attività live con i vari progetti con cui suono, in particolare con gli Ujig, gruppo jazz-rock con cui abbiamo pubblicato da poco «Delta», il nostro quarto album. E naturalmente voglio portare in giro il più possibile «Make It Happen», suonarlo tanto dal vivo, farlo respirare sul palco, vedere come cambia nella dimensione live. Perché è lì, sul palco, che un disco rivela davvero la sua anima.
Alceste Ayroldi

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