Intervista a Ben LaMar Gay

Il polistrumentista americano suonerà venerdì 11 a Firenze alla Sala Vanni nell’ambito della rassegna A Jazz Supreme.

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Ben LaMar Gay_by_Alejandro Ayala

Afropunk, una comunità, ma anche un festival, che riunisce poeti, letterati, musicisti afroamericani, l’ha definito “sorprendentemente originale”. Pitchfork, una delle testate musicali più autorevoli e trendy del web, ne ha parlato come “uno degli artisti più difficili da catalogare” della scena moderna e il chitarrista Jeff Parker, una delle figure più creative di questi tempi, ha detto: “Senza dubbio Ben è uno dei miei musicisti preferiti di tutto il pianeta”. Lui si chiama Ben LaMar Gay, viene da Chicago e la sua musica è una delle miscele più eccitanti e inconsuete che ci sia capitato di ascoltare negli ultimi tempi. Se vi fermate a un incrocio in cui l’AACM di Chicago incontra l’elettronica di Theo Parrish, se allo stesso incrocio ciò che oggi (con una delle solite antipatiche etichette) viene chiamato avant-jazz inizia a flirtare con la poliritmia brasiliana e la slam poetry mischia le carte e sorregge una musica che cerca in ogni modo di essere “fuori dal coro”, allora probabilmente vi siete imbattuti nell’uomo del momento: Ben LaMar Gay.
È un polistrumentista, il suo strumento di elezione è la cornetta, ma compone e, soprattutto, muove suoni, colori, spazi aperti in cui trovano dimora poesia da strada, collage elettroacustici, narrazioni al cui servizio è sottintesa una tecnica sopraffina ma mai esibita. Artista “globale” in tutti i sensi – le sue esperienze sono la somma di variegate frequentazioni non solo musicali che lo hanno portato in giro per il mondo (ha vissuto per tre anni anche in Brasile) – LaMar Gay venerdì prossimo suonerà a Firenze alla Sala Vanni (l’inizio del concerto è previsto per le 21,15) nell’ambito della rassegna “A Jazz Supreme”. In quella occasione presenterà “Certain Reveries” in uscita proprio quello stesso giorno per la International Anthem l’etichetta con la quale finora ha inciso altri tre dischi. Con lui, sul palco, il chitarrista Edinho Gerber, il sassofonista (e vocalist) Matt Davis e il percussionista italiano (ma vive a Chicago) Tommaso Moretti. Un appuntamento da non perdere.

Ti faccio tre nomi: BAM (Black American Music), Black Lives Matter, Afrofuturismo. Quali dei tre ti rappresenta di più?
Io mi chiamo Benjamin LaMar Gay. Questi sono i tre nomi che mi rappresentano. Quelli che hai fatto tu sono tre aspetti di uno stesso universo. Il mio essere nero – la mia blackness – non è diverso dal mio suono e non c’è uno di quei nomi che mi rappresenta di più rispetto agli altri, mi sento rappresentato in egual misura da tutti e tre.

Ho ascoltato la tua musica molto attentamente. “500 Chains”, “Downtown Castles Can Never Block The Sun”, “Open Arms To Open Us”, i tuoi dischi pubblicati sinora li ho ascoltati tutti e tre. La tua musica è un miscuglio di un sacco di cose. Mi piacerebbe che tu mi parlassi di quelle che sono le tue influenze, non solo quelle musicali ma anche quelle letterarie, poetiche, eccetera?
Una sola parola: creatività. È l’unica cosa che perseguo davvero. Lascio che il mio corpo risponda alle diverse sollecitazioni che riceve nel corso della giornata. È lui che comanda, quando sento che risponde in maniera positiva allora quella sollecitazione va perseguita. È difficile e, nello stesso tempo, facile da spiegare, è una questione di attrazione, qualcosa di fisico che si relaziona con il tuo corpo. Da questo punto di vista mi influenza tutto, anche cose molto diverse tra loro. Vengo dalla zona sud di Chicago: è un posto dove accadono diverse cose, e se non ti apri al mondo è dura venir fuori da lì.

Ben LaMar Gay_by_Alejandro Ayala

Chicago è uno di quei luoghi in cui la black music, in tutte le sue diverse forme espressive, ha dato il meglio di sé. E oggi c’è una scena molto vivace con gente come Makaya McCraven, Joel Ross, e così via. Tu che ne dici?
Più che una scena è una comunità di gente che si ritrova e riconosce quello che hanno in comune tra loro. Si cementano rapporti di amicizia, di lavoro, è molto frequente che si diventi membro di una stessa band. Chicago, dal punto di vista musicale, è un posto molto aperto ed è molto frequente trovare musicisti che collaborano tra loro a diversi progetti a nome di uno o di un altro. Ed è qualcosa che va al di là delle generazioni: io, per esempio, mi diverto alla stessa maniera con Makaya McCraven e con Hamid Drake che è molto più grande di noi, almeno di un paio di generazioni. Siamo tutti molto connessi, abbiamo le stesse curiosità e un feeling che ci accomuna. È vero, Chicago è un posto molto vivace.