Se volete avere un’idea di cosa succede quando l’urgenza ritmica dell’Afrobeat incontra la profondità vellutata del soul provate ad ascoltare «Tuff Times Never Last», l’ultimo tassello del percorso musicale dei Kokoroko. Con questo disco la band londinese, punto di riferimento della nuova scena Afro-centrica, affina ulteriormente il proprio suono, virando verso territori più intimi, liquidi, vocali. Niente è perso del groove collettivo che li ha imposti all’attenzione che il pubblico internazionale da un po’ di tempo manifesta nei loro confronti, ma ora c’è spazio per un altro tipo di energia, più profonda, più soul, a tratti più spirituale, che non è solo estetica ma una lente attraverso la quale rileggere le radici. C’è un certo tipo di luce che solo Londra sa restituire, quella che filtra tra le case di Brixton al tramonto, sfumando tra le voci del mercato e i bassi lontani di una radio che trasmette Tony Allen. È in quella luce che si muovono i Kokoroko, figli della diaspora africana e del melting pot culturale londinese. E questo nuovo disco è insieme elegia soul e affermazione identitaria. «Tuff Times Never Last» non è solo un titolo ma una dichiarazione collettiva: il suono di chi ha attraversato le tempeste ma non ha mai smesso di danzare. Dall’Afrobeat la band evolve verso una forma musicale più morbida, ma non meno potente. I fiati si fanno più lirici, le chitarre accarezzano invece che aggredire e le voci salgono a galla come preghiere laiche. Una musica diasporica, fluttuante, che parla di resistenza e tenerezza. Ne abbiamo parlato con Sheila Maurice-Grey, la trombettista della band, e con Onome Edgeworth, il percussionista, per capire come nasce questa nuova stagione sonora e cosa significa, oggi, fare musica nera a Londra.
Ho ascoltato il vostro nuovo disco, «Tuff Times Never Last». Molto bello. Davvero. La vostra musica è sempre stata un mix tra jazz, soul e Afrobeat, ma questo disco sembra maggiormente orientato verso il soul…
Sheila Maurice-Grey: Innanzitutto grazie di ciò che dici. Tutto sommato, però, non è cambiato molto. Sicuramente la musica di questo album continua ad essere influenzata dal jazz e dall’Afrobeat ed è, come al solito, un amalgama di diverse cose, c’è anche l’amore per l’highlife nella nostra musica. Direi che «Tuff Times Never Last» segue il solco di quello che abbiamo fatto finora. Il soul è stato sempre un ingrediente per noi, ma non l’unico.

Mi raccontereste la vostra storia? Siete parte di questa eccitante «nuova» scena britannica…
Onome Edgeworth: La nostra è una città straordinaria che ha prodotto un sacco di buona musica ed è un posto in cui vivono persone che provengono da tutto il mondo. Una fortuna, per noi. Non ci sono tante città al mondo come Londra in cui esiste una miscela culturale straordinaria che ritrovi in tutto quello che fai, nei rapporti umani, nella musica. Un mix che influenza tutta la tua quotidianità e ti permette di integrarti e di crescere come musicista e come uomo. È qualcosa che ti mette costantemente davanti una nuova sfida. Londra è un posto speciale e ritengo di poter dire che siamo stati molto fortunati ad avere avuto la possibilità di iniziare il nostro viaggio nella musica in una città come questa.
Dove vivete? In che parte di Londra?
Onome: Io vivo a Clapton, East London, lei, Sheila, vive a Woolwich, South London.
Sheila: Vivo a South London… Ti prego di non confondermi con lui [… ride]
Sì. Ricordo anch’io Londra. Per quanto riguarda la musica è sempre stata uno dei miei posti preferiti. Era molto tempo fa però. Ero molto giovane e ricordo uno straordinario melting pot in cui il rock svolgeva un ruolo molto importante insieme al reggae – frequentavo abitualmente il Carnevale di Notting Hill – e un sacco di gente mischiava queste cose tra loro facendone derivare qualcosa di molto eccitante. Però non ricordo Londra come una città molto importante per il jazz, perlomeno non così importante come New York per esempio. Che sta accadendo adesso?
Sheila: È vero quel che dici. Se pensiamo al jazz ci viene immediatamente in testa il suo background culturale americano. Il jazz è musica americana, c’è poco da fare. Questo però non ci permette di ignorare che il Regno Unito, e in particolare Londra, ha in qualche modo partecipato alla sua evoluzione. Ti posso dire che io, in prima persona, frequento e incontro gente più grande di me, che mi parla costantemente del jazz come di qualcosa che ha cambiato profondamente il suo modo di ascoltare la musica. Sono soprattutto persone di colore che non hanno mai smesso di immergervisi per approfondire la loro cultura musicale. Credo che ogni generazione abbia avuto il suo eroe. Per me, ad esempio, Courtney Pine e i Jazz Warriors, all’inizio degli anni Novanta, hanno avuto un ruolo molto importante e per quelli che sono venuti dopo di me credo che Soweto Kinch abbia rappresentato molto. Oggi, con Internet, il mondo è diventato più piccolo e ognuno riesce ad avere accesso più facilmente alle informazioni, anche musicali ovviamente, e questo ci permette di essere più informati e consapevoli su quello che accade nel jazz, nel Regno Unito e non solo.
Parlatemi del vostro rapporto con quei musicisti che avete nominato prima. Soweto Kinch, Courtney Pine, Jazz Warriors, eccetera…
Onome: Musicisti di grande livello. E io credo che se ti capita di incontrare nella tua vita gente di quel calibro dovresti cercare di emularli. Il tempo non passa poi così velocemente e la memoria può aiutarti a scolpire nella tua testa delle cose. Quei musicisti di cui abbiamo parlato, per quel mi riguarda, mi hanno aiutato a fermare nella mia testa delle cose che mi sono utili ancora oggi. Ho sempre trovato qualcosa che lega il jazz alla musica africana e a quella caraibica, ma c’è tanto altro nella mia testa: il lover’s rock, gli Aswad. In quel gruppo suonavano dei musicisti incredibili che hanno influenzato molto quello che facciamo adesso. La Black music ormai è globale, viaggia in tutto il mondo e parla a chiunque, non solo ai neri. Per rispondere definitivamente alla tua domanda devo dirti che sento – e credo di poter parlare non solo a mio nome ma anche per gli altri componenti dei Kokoroko – di avere una forte connessione con ognuno dei musicisti che abbiamo finora nominato. Poi, è ovvio, io ho avuto i miei maestri, Sheila ne ha avuti altri, ma il livello di musica qui, a Londra, è molto alto e per niente omologato. Il più possibile aperto alle diverse influenze. Per noi è una sfida quotidiana.
Parlatemi delle vostre influenze musicali…
Onome: Io suono le percussioni. Ma la mia prima influenza musicale è stata quella di Pete Rock e, subito dopo, quella di J Dilla.
Quindi ti piace l’hip-hop?
Onome: Sì, per me è stato molto importante. Mi sono piaciuti anche i produttori londinesi che mi hanno fatto amare i campioni che poi hanno aperto la mia mente. Il loro era un modo diverso di fare musica. Per il jazz Ahmad Jamal è stato il primo che ho assimilato. Completamente.
Hai ascoltato le cose che J Dilla ha fatto D’Angelo?
Onome: Sì naturalmente. «Voodoo» è stato un disco basilare. Ho ascoltato il lavoro che ha fatto con i De La Soul, Common, dei lavori straordinari. Eclettici…
Ci piace la stessa musica…
Sì. La musica più bella per me.
Sheila: Quando ho iniziato a suonare la tromba, la mia insegnante mi registrò un cd con musica di Miles Davis che in quel momento era molto difficile per me apprezzare perché il mio livello, anche di ascolto, non era molto alto. Ricordo «Porgy and Bess» come una musica oscura, «Song for My Father» di Horace Silver era un po’ più accessibile. Quelli sono stati i miei primi ascolti in termini di jazz. Sono cresciuta in una famiglia con un’educazione cattolica, rigida, in cui si ascoltava il gospel la musica preferita da mia madre. Nella mia infanzia e adolescenza è stato quello il mio mondo musicale. Sino ai diciotto anni. Da quel momento mi sono immersa nel jazz.
La domanda è rivolta a entrambi. Conoscete Nicholas Payton?
Sheila e Onome: Sì.
Cosa pensate della sua idea di non chiamare più la musica afroamericana jazz ma BAM (Black American Music)?
Sheila: Credo sia un’opinione forte. Voglio dire… per essere d’accordo con lui dovrei capire meglio il contesto nel quale afferma una cosa di questo genere. E quindi discuterne. Io credo che sia un problema identificare i generi musicali come se fossero delle scatole, le definizioni, le etichette lasciano, a mio avviso, il tempo che trovano. Il jazz, nel suo insieme, ingloba così tanti diversi generi che diventa difficile indicarli con un solo termine. Perfino il termine jazz, nella sua accezione più consueta, può diventare riduttivo. Si sono già usati così tanti termini, bebop, hard bop, swing, smooth jazz. Per me non ha senso. Non so bene dove Payton voglia arrivare con una cosa di questo genere.
Onome: Il jazz è una musica così influente che non ha senso cambiarne il nome. Sheila, come altri musicisti che suonano con noi, arriva dal jazz; ma se vieni a uno dei nostri concerti e ti aspetti di ascoltare il jazz più consueto resterai deluso. Altri, magari abituati maggiormente ad ascoltare pop, invece resteranno soddisfatti convinti di aver ascoltato il «vero» jazz. Le categorie, le etichette, possono servire, soprattutto a chi si avvicina all’ascolto della musica ma se sei un musicista, se crei musica, questa cosa non ha alcun senso. È inutile, e anche, in qualche modo, fuorviante. Cerchiamo di essere liberi. Il più possibile.

La vostra connessione con altri tipi di musica. Tutto quello che ruota attorno al jazz…
Sheila: Come abbiamo detto, il jazz è una musica che ha dentro di sé una miriade di influenze, per cui le mie connessioni con altri tipi di musica si rifanno a questo concetto. In definitiva tutto, o quasi, ha un effetto su di me. Parlo di musica, ovviamente.
Onome: Io sono cresciuto in una famiglia africana, per cui la musica africana è prima di ogni cosa, poi il reggae. Anzi ti dirò che la mia connessione con questo tipo di musica è molto più profonda di quella che ho col jazz, che ho approfondito crescendo e ascoltando hip hop. I film di Spike Lee, i loro colori e le loro colonne sonore hanno rappresentato molto per me.
Sheila: A me piace molto il pop, anche quello più sdolcinato.
Verrete a suonare in Italia per promuovere l’album?
Sheila: Sì, il 24 ottobre all’Alcatraz di Milano per JazzMi.
Onome: Quest’anno abbiamo meno date del solito… Chissà perché. Il nostro primo spettacolo all’estero è stato proprio in Italia, uno dei posti più belli in cui suonare. Siamo stati benissimo e sempre trattati al meglio. E il pubblico è molto caloroso. L’Italia è davvero un paese speciale per noi.