Sei cresciuto a Sebokeng, in Sudafrica: in che modo il tuo ambiente iniziale ha plasmato il musicista che sei diventato?
Sebokeng ha plasmato la mia anima e la mia visione. Lì, la musica non è un lusso o un hobby; è una funzione sociale. È una parte integrante della vita quotidiana: si canta alle feste, ai funerali, per strada. La musica è un rito di connessione. Ho imparato che l’arte è per tutti e che il suono è un modo per entrare in contatto con la comunità e con gli antenati. Questo senso profondo che la musica deve essere utile e relazionale è il fondamento di tutto ciò che faccio.
Il tuo lavoro fonde perfettamente la tecnica classica con gli idiomi africani e l’improvvisazione. Come sei arrivato a questa fusione?
Non è stata una fusione intenzionale: è stata una necessità. Quando sono andato in Inghilterra per studiare, ho abbracciato la maestria e la disciplina della tradizione classica. Ma non potevo mettere a tacere la musica che risuonava in me da Sebokeng. Ho capito che non dovevo scegliere e, quindi, posso dire che la fusione è arrivata dal bisogno di essere completamente me stesso. Ho dovuto dare voce al mio violoncello con i ritmi e le armonie che risuonavano con la mia storia, usando la tecnica classica come linguaggio per esprimere la mia vera identità culturale.
Cosa deve aspettarsi il pubblico che ti vedrà in scena a Milano per la Società del Quartetto?
Un programma che unisce capolavori classici, canti tradizionali e mie composizioni, e dà al pubblico il permesso di ascoltare senza applicare etichette di genere, semplicemente lasciandosi trasportare da un unico, grande, flusso sonoro.

Qual è il tuo rapporto con l’improvvisazione?
L’improvvisazione è la libertà e l’onestà del momento. È il luogo dove la musica accade davvero, dove non c’è più distinzione tra compositore, esecutore e pubblico. È un modo per onorare la tradizione orale della musica africana, dove ogni esecuzione è unica. Per me improvvisare è come parlare fluentemente un linguaggio. Più sono onesto con me stesso e con l’attimo, più l’improvvisazione sarà potente e connessa.
Le tue performance sono molto fisiche ed emotivamente coinvolgenti. Che sensazione si prova a esibirsi dal tuo punto di vista?
È un’esperienza totalizzante, a volte quasi trascendente. Non è solo un concerto, è un rituale. Sento il suono passare attraverso di me, il mio corpo diventa un canale per la musica. Sono consapevole del sudore, del respiro, del battito del cuore, e uso tutto questo. È un momento di completa onestà in cui mi concedo completamente al pubblico. È estenuante, ma incredibilmente rigenerante perché mi sento connesso a qualcosa di molto più grande di me.
Alceste Ayroldi