Intervista a Simone Alessandrini

In occasione della pubblicazione di «Mania Hotel», secondo album con la sua formazione Storytellers, abbiamo incontrato il sassofonista Simone Alessandrini

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Simone, vuoi provare a raccontare ai lettori le tue esperienze, le tue collaborazioni e i tuoi dischi sinora?
Ho iniziato la mia carriera musicale nell’ambito della musica classica e contemporanea, sia come solista che in gruppi da camera. Mi sono avvicinato al jazz all’età di 25 anni e ho avuto varie esperienze con molti jazzisti italiani che suonavano però in ambiti diversi. Questo mi ha aiutato, e continua ancora oggi, a trovare sempre di più la mia dimensione di musicista. Tra i progetti più longevi c’è la collaborazione con il fisarmonicista Natalino Marchetti (con cui ho un disco all’attivo) e il duo con l’arpista Marcella Carboni. Ho trovato molto significativa anche la permanenza nell’Orchestra Nazionale Giovani Talenti di Paolo Damiani. Ultimamente, ho avuto modo di suonare con Ralph Alessi nel gruppo di Ferdinando Romano, di cui faccio parte stabilmente, ed ogni volta la trovo un’esperienza illuminante. Inoltre, ho partecipato a molti dischi come sideman, anche in ambito pop. A mio nome, invece, ne ho incisi due, con il mio progetto Storytellers.

Quali sono le tue principali fonti di ispirazione, interne ed esterne, per così dire?
Sia strumentalmente che dal punto di vista compositivo, cerco di mettere in pratica tutte le mie conoscenze e i miei ascolti, evitando di seguire degli stilemi e approcci efficaci, ma poco personali. Il rischio di avere una buona conoscenza del materiale è quello di portare a un’autocensura della personalità, per dare spazio a un’estetica limpida e cristallina, ma allo stesso tempo asettica. Per evitare questo, cerco volutamente un approccio naїf, mettendo in campo idee grezze ma sincere, magari contrastanti tra loro, per poi modellarle e dargli uniformità.

Due dischi, «Storytellers» e «Mania Hotel» e davvero tante storie raccontate… quanto è importante, per te, il fatto narrativo, nella musica? Fare musica è «raccontare storie»?
In ogni situazione musicale per me è fondamentale avere un tema di fondo da seguire, al di là della storia da raccontare. Sapere, quindi, quale pensiero c’è dietro ogni brano. Non vorrei cadere nella retorica, ma è pur vero che ogni volta che si suona un brano si racconta una storia, e risuonarlo diverse volte fa sì che si racconti una storia sempre diversa. Nel caso dei miei due dischi, oltre al pensiero di fondo, c’è il racconto che va di pari passo con la musica. In alcuni casi, può diventare un limite, ma per me ha una valenza molto importante seguire un sentiero tracciato, con tutte le sue difficoltà.

Perché proprio il tema della follia, che è l’oggetto di «Mania Hotel»?
È un argomento che mi ha sempre affascinato. In verità, penso a questo progetto da tanti anni, forse ancora prima di pubblicare il mio primo album. La follia (o il grado di follia) non parte sempre da un dato oggettivo. Spesso il contesto storico o sociale è stato determinante nella valutazione e ha condizionato le vite di molti individui, vite che oggi avrebbero preso sicuramente altre strade. In questo modo, così come l’individuo «folle» può creare una realtà propria, anche la società nella sua malattia può fare lo stesso, condizionando i singoli elementi. Ho voluto raccogliere storie di persone semplici. Storie che se fossero accadute in periodi storici diversi, probabilmente avrebbero avuto altri esiti.

 

Che tipo di leader pensi di essere?
Credo di essere più un buon leader che un buon sideman. Mi sto rendendo conto sempre di più che è un ruolo che assumo in modo naturale, ovviamente con tutti i pro e i contro. Spesso, nei gruppi in cui ero solo il sassofonista, mi è capitato di essere riconosciuto come leader dai musicisti con cui suonavo. Lessi un libro tempo fa in cui si diceva che il capo si riconosce tale, mentre il leader viene riconosciuto. Credo che la chiave giusta sia proprio questa. In Storytellers cerco sempre di comunicare ai musicisti il mio pensiero e la direzione che voglio prendere di volta in volta. È importante avere un atteggiamento inclusivo e convincente per farmi seguire da loro, ma anche conoscere tutte le loro qualità e farle esprimere al meglio, cercando di mantenere un equilibrio generale costante.

E cosa puoi dirci dei tuoi compagni di viaggio?
Sono tutti musicisti con una personalità ben definita. In questo album, è stato molto stimolante scrivere la musica pensando alle loro peculiarità, più che all’organico in generale. In particolar modo, nel caso della batteria di Riccardo Gambatesa. Alcuni dei miei compagni di viaggio sono a loro volta leader di altri progetti, anche di ambito differente. Federico Pascucci, per esempio, ha una grande attività nella world music, con una profonda conoscenza della musica balcanica. Antonello Sorrentino, oltre ad essere un trombettista, è un arrangiatore e direttore di big band, mentre Riccardo Gola affianca la professione di musicista a quella d’illustratore (è lui l’ideatore delle copertine dei due album). In questo lavoro, ho voluto anche la partecipazione di Giacomo Ancillotto alla chitarra, dotato, a mio avviso, di un colore molto originale e una grande componente folk, essenziale per la mia musica.

Quali sono i tuoi prossimi progetti?
Sto lavorando a due nuovi progetti molto differenti tra loro. MAS, un gruppo di musica elettronica nato in occasione di una residenza artistica tenuta al Mattatoio di Roma, insieme a Simone Pappalardo e Mauro Remiddi. In questo lavoro ho ripreso in braccio anche la chitarra dopo molti anni. Inoltre, sto scrivendo un repertorio per quartetto di sassofoni, una formazione cameristica con un vasto repertorio, con cui ho fatto molte esperienze quando ero alle prime armi. Sto cercando di omaggiare la letteratura di questa formazione in maniera non convenzionale, con musicisti che vengono da un mondo tutt’altro che classico.
Sandro Cerini

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