La storia della Black music è un viaggio lungo più di un secolo che affonda le sue radici nella tradizione afro-americana e nelle lotte per l’emancipazione sociale e culturale. Dalle prime forme di espressione nate negli Stati Uniti all’inizio del novecento fino alle sue più recenti evoluzioni, la musica nera ha saputo plasmare la cultura popolare di intere generazioni influenzando generi, artisti e scene musicali in tutto il mondo, aggiungendo che in tutte le sue ramificazioni (blues, jazz, soul, funk, r&b, hip-hop, reggae, Afrobeat, eccetera) ha sempre rappresentato un motore di cambiamento e innovazione. I suoi artisti «meno popolari» non sono necessariamente meno influenti, spesso hanno seminato idee che magari in modo sotterraneo, hanno poi germogliato in nuovi movimenti e stili ed è importante ricordare che la sua storia è viva e in continua evoluzione vissuta in prima persona da megastar e outsiders, da giovani leoni e vecchi giganti. Se dovessimo individuare tra i nomi di oggi colui che sintetizza la conoscenza della sua grande tradizione, la consapevolezza e l’orgoglio di una blackness rivendicata con fierezza e la voglia di esplorare e mettere insieme gli elementi di una ricerca portata avanti con intelligenza e maestria, allora dobbiamo pensare a Orrin Evans. La nostra rivista da più di un decennio ha testimoniato con i suoi articoli – nonostante le sue cassandre e i suoi detrattori che con le loro affermazioni dimostrano di non leggere neanche una delle sue pagine – un’attenzione particolare ad una scena in cui la musica nera, intendendo con questo termine qualcosa in cui il jazz si ramifica in mille direzioni esprimendo una sintesi molto seguita soprattutto nel mondo anglosassone, ha un ruolo di primo piano. Noi non parliamo mai – o quasi – di lustrini e paillettes, parliamo di musica e quando parliamo di musica lo facciamo indicando artisti che vi si immergono, senza fronzoli e sovrastrutture, cercando semplicemente il consenso di un pubblico che si muove seguendo le coordinate della passione. Orrin, pianista fuoriclasse e artista consapevole e intelligente, è uno di loro, rappresentando con la sua personalità una figura piuttosto singolare nel panorama musicale contemporaneo. Innanzitutto grazie alla sua versatilità si muove con disinvoltura tra tradizione e avanguardia mettendo insieme l’eredità del post-bop con una spiccata sensibilità per il groove e l’improvvisazione collettiva. La sua carriera è caratterizzata da una costante tensione tra mainstream e sperimentazione, tra il ruolo di leader e quello di sideman, tra il jazz (anche se lui preferisce chiamarlo BAM) più strutturato e quello più libero. Se dobbiamo pensare ad una personalità che incarna una contemporaneità capace di mischiare il passato e il presente senza cadere in eccessi di manierismi, dobbiamo pensare a lui. L’ esperienza con la Captain Black Big Band, per esempio, dimostra come Evans sappia rivitalizzare il formato orchestrale con una carica espressiva e una compattezza che non si limita a riproposizioni pedisseque ma a una loro rilettura in chiave attuale. Provate ad ascoltare «Walk A Mile In My Shoe», l’ultimo disco della band, uno dei progetti in cui la straordinaria versatilità di Evans si sposa all’attitudine a elaborare eleganti sfumature. Vi renderete conto di ciò che stiamo scrivendo: arrangiamenti brillanti caratterizzati da costruzioni liriche e fortemente raffinate si sposano con la modernità e la naturalezza di chi non solo conosce la materia di cui si occupa, ma la vive sulla sua pelle ogni santo giorno della sua vita. Ed è persino inutile dilungarsi su due delle più belle versioni di capisaldi della soul music come Save the Children di Marvin Gaye e Overjoyed di Stevie Wonder. In quel disco ascoltiamo degli autentici fuoriclasse (Nicholas Payton, Caleeb Wheeler Curtis, Vicente Archer tra gli altri) tutti riuniti per dar vita ad una delle esperienze più raffinate della musica del nostro tempo. E la sua militanza nei Bad Plus – per quel che mi riguarda una dimensione che non rende piena ragione dello status della sua musicalità – per quanto breve (2017 – 2021), è la testimonianza della sua apertura a territori crossover che mantiene intatta la sua identità stilistica. Orrin Evans è uno dei cinque musicisti (gli altri erano il trombettista Nicholas Payton, i sassofonisti Gary Bartz e Marcus Strickland e il contrabbassista Ben Wolfe) che il 6 gennaio del 2012 al Birdland di New York organizzarono un panel per discutere sulla necessità di prendere le distanze dal termine jazz, ritenuto da loro offensivo per la musica afro-americana e indicarla con l’acronimo BAM, che sta per Black American Music e di cui su queste pagine si è più volte scritto. Sono passati tredici anni da allora, e Orrin è qui per rispondere alle nostre domande.
Innanzitutto mi piacerebbe conoscere meglio qualcosa di te. Dove sei nato, com’è iniziata la tua passione per la musica eccetera.
Abito a Filadelfia, ma sono nato nel New Jersey. A Filadelfia ho vissuto in un quartiere in cui non c’erano molti bambini, per cui non facevo altro che suonare il pianoforte. Tutto il giorno. Mia madre è una cantante e mio padre era uno scrittore, per cui sin da piccolo sono stato immerso in qualcosa in cui le arti avevano un ruolo di primo piano. Ma Filadelfia e il suo ambiente sono stati molto importanti, direi fondamentali, per il mio avvicinarmi alla musica.
So che hai suonato e collaborato con molti importanti musicisti, famosi e non. Tra tutti loro chi ha lasciato un segno dentro di te?
Sono tantissimi. Kenny Barron con cui ho studiato, Bobby Watson, Roy Hargrove, Ralph Peterson, te ne potrei nominare molti altri. Avevano in comune il fatto di essere leader di band formate da musicisti eccellenti e ho imparato qualcosa da ognuno di loro. Da Bobby, per esempio, ho imparato a prendermi cura della band facendo sì che tutti fossero contenti, come comportarsi in tour, tramite lui ho conosciuto promoter e addetti ai lavori. Da Roy invece ho imparato il modo di imporre una leadership, e mi spiego meglio: Roy, a prescindere da chi suonasse con lui, è sempre riuscito a fare in modo che quella band suonasse al massimo delle sue possibilità. Questa per me è stata una grandissima lezione. Bobby mi ha insegnato a stare sul palco, Roy la professionalità. E sono cose che ho ritrovato in termini di insegnamento da gente come David Murray, per esempio. A Filadelfia c’erano davvero tanti musicisti che frequentavo e attorno ai quali mi muovevo, pianisti come Shirley Scott, Eddie Green, Sam Dockery. Da alcuni di loro ho preso anche delle lezioni. Ma soprattutto per me è stata una grande emozione ascoltare la loro musica e aver avuto la possibilità di frequentarli in qualche modo. Forse è stata la cosa più bella che mi è successa nella mia vita di musicista. Andare in tour con Bobby Watson , poi, mi ha dato la possibilità di incontrare molti musicisti che ho stressato con le mie domande e da loro ho imparato davvero tante cose che non puoi apprendere andando a scuola. Ed è un atteggiamento che ho mantenuto. Ancora oggi continuo a imparare dagli altri musicisti che frequento e con cui suono.
Parlami delle tue principali influenze musicali. Come pianista e come compositore.
Sembra una domanda semplice, ma a questo tipo di sollecitazione talvolta riesce difficile rispondere. Per esempiose ti facessi il nome di Thelonious Monk e ti dicessi che lui è una delle mie influenze – tra l’altro è vero – tu potresti rispondere che in effetti senti nella mia musica qualcosa di lui. La stessa cosa se ti nominassi Herbie Hancock o Keith Jarrett. Tutto questo però può risultare fuorviante, perché influenza il tuo interlocutore. Nel nostro caso tu. Io invece vorrei che tu mi riconoscessi in quello che sono io, con il mio stile e la mia musica. Per cui la mia risposta oggi è: chiunque abbia suonato questa musica professionalmente da pianista, gente come Geoffrey Keezer, Kevin Hays o Peter Martin, gente della mia età o anche più giovane di me, gente come Benny Green oppure un pianista di New York che ho conosciuto a Philadelphia, un altro che è stato di grande ispirazione per me, Ronnie Matthews – da lui viene fuori parecchio del mio modo di suonare – non è altro che il risultato della musica che i grandi pianisti hanno fatto prima di loro. Lo stesso è successo per me. Credo sia la risposta più sensata a questa domanda. Come compositore posso dirti che sono stato influenzato all’inizio non da pianisti, in seguito il pianista Anthony Wonsey, con cui ho trascorso parecchio tempo ad ascoltare musica, ha esercitato un’influenza su di me dal punto di vista compositivo. Mi è piaciuto tutto quello che ha scritto e penso che la sua abilità compositiva non sia stata usata come avrebbe dovuto e meritato. Lui ha suonato con molti musicisti ma, credetemi, le sue composizioni sono straordinarie. Ho davvero una grande ammirazione per lui. Ovviamente potrei fare altri nomi come quello di Herbie Hancock, dal quale ho imparato come si suonano gli standard in maniera non banale. In realtà ho imparato, e continuo a imparare, da tutti.
Ho molto apprezzato, e continuo a farlo, il tuo lavoro con la Captain Black Big Band. Ricordo con piacere dischi come «Mother’s Touch», «Presence» e l’ultimo «Walk a Mile in My Shoe». Ho sentito che hai avuto una nomination ai Grammy quest’anno e nello stesso tempo mi è capitato di sentire una storia piuttosto sgradevole: Milton Nascimento, una vera e propria leggenda della musica brasiliana, e Esperanza Spalding sono stati nominati per un disco che hanno registrato insieme ma mentre lei è stata invitata a salire sul podio Milton no. Com’è potuto accadere e che idea ti sei fatto di questo episodio?
In realtà non so esattamente cosa sia successo, ma credo che ci sia molta ignoranza da parte degli addetti ai lavori. Io faccio parte della Recording Academy e cercherò di contribuire a colmare questa ignoranza. E comunque nelle giurie – si sa, e penso che questo accada dappertutto – non sempre c’è gente competente. Dobbiamo cercare di correggere il tiro e non solo per quello che riguarda il jazz. Mi piace come ha reagito Milton Nascimento, con eleganza. Ma in effetti è stato imbarazzante. Non so, forse ci sono troppe categorie nei Grammy che creano confusione a chi magari non ha grandi conoscenze non solo di quello che accade nella musica moderna ma soprattutto in quella del passato. Ma è certo che qualcosa, a mio avviso, deve cambiare.
Negli Stati Uniti, ma direi in tutto l’Occidente, c’è una sgradevole recrudescenza del razzismo e movimenti come Black Lives Matter stanno facendo sentire la loro voce in tutto il mondo occidentale. Come vive tutto questo un uomo di colore della tua età?
In realtà il razzismo esiste da sempre, ma è vero che oggi molti stanno venendo fuori in tutta la loro protervia e stanno tirando fuori quello che pensano davvero, togliendosi la maschera e rivelando la loro vera natura. Sto parlando di quelli che sono razzisti e magari hanno cercato di tenerlo nascosto. Soprattutto dopo le ultime elezioni questa gente è venuta allo scoperto. Adesso noi dobbiamo capire come possiamo rapportarci a tutto questo. Che faccio io e che fanno quelli come me? Sono un musicista e devo lavorare, cercare di sopravvivere e interagire con questa gente. Sto cercando di rapportarmi a loro nella maniera più pacifica possibile. Quello che sto cercando di fare è non evitare di andare a suonare nei luoghi dove si sa che il razzismo è presente, ma cercare di essere me stesso e di dire quello che penso in quegli stessi luoghi, sperando che qualcosa possa cambiare. Ma sarà difficile. Aggiungo che quello di cui stiamo parlando accade non solo in America, anche in altre parti del mondo. Il mio motto è «Darò sempre il massimo di me stesso e sarò il vostro problema, perché non mi troverete mai impreparato».
E come si inserisce in tutto questo l’idea che tu e Nicholas Payton avete avuto più di dieci anni fa, ovvero quella di non chiamare più jazz la musica afro-americana ma BAM (Black American Music)? Credi che utilizzare ancora questo acronimo oggi abbia una sua rilevanza?
Innanzitutto voglio sottolineare che il merito di quella idea è di Nicholas, quell’acronimo è una sua creatura. Io ovviamente lo sostengo. Questa musica è stata imbastardita dalla percezione di quello che oggi viene considerato il jazz. Molti amici e familiari pensavano che, siccome io suonavo del jazz, non potessero assistere alle mie esibizioni. Il jazz, nel mio mondo, viene percepito come qualcosa per bianchi, ed è un limite per noi musicisti afro-americani che suoniamo questo tipo di musica. Barry Harris uno dei nostri grandi maestri, ha detto «Chiamiamola semplicemente musica, perché dobbiamo darle un’etichetta?» Oppure semplicemente «Musica che proviene dall’esperienza afro-americana». Spero di aver risposto in maniera esauriente alla tua domanda. Secondo me, più usiamo questa nuova terminologia per indicare la nostra musica, e meglio è. Sono ancora costretto ad utilizzare la parola jazz, al novanta per cento i festival dove vado a suonare sono festival di jazz, e credo che sarà difficile liberarsi del tutto da quella parola; ma a me piace pensare di star suonando semplicemente musica, che non ha necessariamente un’etichetta e, di conseguenza, delle limitazioni. Potrebbe essere la musica di Charlie Parker oppure quella di Norman Connors, la musica di Ella Fitzgerald o quella di Phyllis Hyman, ma è solo musica ed è musica afro-americana. Se suono Roberta Flack che cosa significa? Che non sto suonando jazz? Ron Carter ha suonato con tutti, per dire, eppure è un musicista di tutto rispetto. Insomma, la parola jazz mi limita e limita la percezione della musica e della sua bellezza che arriva a chi ascolta.
Quanto è importante la tradizione per te?
Una volta che la si conosce deve essere cambiata, ma è necessario rispettarla. Sono cresciuto con l’idea che il giorno di Natale si debba fare l’albero, e i miei genitori ogni anno hanno rispettato il rituale di uscire, comprare l’albero, allestirlo, invitare a casa un certo numero di persone e tutti insieme festeggiavamo. Quando mi sono sposato ho trasferito quella tradizione nella mia famiglia, anche se dopo un po’ di anni abbiamo iniziato a modificarla, magari allargando il numero e il tipo di persone invitate. Per cui continuo a rispettare quella tradizione ma l’ho modificata in base a quelle che sono le mie attuali esigenze. Faccio lo stesso con la musica.
Tu sei il leader di una big band che spesso recluta giovani talenti all’interno delle sue fila. Quali tra questi sono quelli che ti hanno colpito di più in questo momento?
In questo momento mi piace il pianista Brandy Gober, credo stia studiando alla Juilliard, una giovane batterista che si chiama Maria Marmarou, Jordan Williams, un notevole pianista di Filadelfia. Ci sono tanti giovani che stanno venendo fuori. Cerco di ascoltarli il più possibile. La musica non è morta, e noi dobbiamo continuare ad innaffiare il suo terreno.
La tua connessione con l’hip-hop. A me sembra che questo mondo stia perdendo, meglio abbia già perso, la sua autenticità. Non ha più nulla di culturale ma è solo pop, show business. Tu cosa ne pensi?
Rispetto a quello che ci propongono i media è sicuramente come dici tu, ma se approfondiamo e andiamo a ricercare qualcosa in più di quello che ci viene proposto allora scopriamo che c’è gente che ancora si muove cercando di andare oltre i lustrini e il bling-bling e cercando di suonare in maniera autentica. C’è un mondo che non si presenta sulla scena con il solito beat ma si avvale di produttori e musicisti di tutto rispetto e sto pensando in questo momento a Kendrick Lamar, un rapper che adoro, ma ce ne sono tanti altri che magari non conosciamo ma affollano l’underground. Anche l’hip-hop si sta evolvendo mediante un processo di trasformazione che darà i suoi frutti sulla lunga distanza.
Qual è il progetto importante attorno al quale stai lavorando in questo momento?
Ho deciso che lavorerò attorno a questa cosa sino alla fine della mia vita, ed è il progetto che ruota attorno a me fin da quando ho iniziato il mio viaggio da musicista. È lavorare sodo, cercare di continuare ad avere una visibilità anche utilizzando i social media e cercare di convincere la gente ad ascoltare la musica dal vivo. Perché è quella che ci permette di sopravvivere.