Intervista a Joe Sanders

Parliamo col forte contrabbassista statunitense, che il 4 novembre si esibirà al Roma Jazz Festival con Jure Pukl al sax tenore e Jeff Ballard alla batteria. L'intervista completa uscirà sul numero di dicembre di Musica Jazz.

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Cresciuto artisticamente negli Stati Uniti, il contrabbassista Joe Sanders si è imposto come uno dei più sensibili della sua generazione suonando al fianco di giganti come Herbie Hancock e Charles Lloyd, e di coetanei che come lui portano alto il vessillo dell’idioma afro-americano in questo inizio di millennio. Alcuni nomi: Gerald Clayton, Ben Wendel e tanti altri che ne hanno riconosciuto la profondità e il rigore musicale. Ma è in Europa, in particolare nelle vicinanze di Marsiglia, in un piccolo villaggio dalle parti di Montpellier, che lo ha accolto negli ultimi anni, che la sua voce sembra essersi fatta più limpida e concentrata. Lontano dalle logiche spesso caotiche del mercato americano, il contrabbassista ha trovato il tempo e lo spazio per riflettere e costruire un linguaggio che non ha bisogno di esibire ma di comunicare. Il suo inserimento nel contesto del Roma Jazz Festival, dove si esibirà il 4 novembre, ci risulta azzeccato: Roma è una città di stratificazioni, di storie che si sovrappongono come voci di una polifonia millenaria. Portare qui «Parallels», il suo ultimo album, significa inserire una nuova linea in un tessuto di echi e rimandi in cui il basso pulsa come un battito antico pur parlando la lingua del presente. È un dialogo tra mondi, proprio come quelli che Sanders evoca nel titolo, tra l’America e l’Europa, tra la tradizione e la sperimentazione, tra il corpo e lo spirito. Quando Joe Sanders salirà su quel palco a Roma – insieme a Jure Pukl al tenore e Jeff Ballard alla batteria – porterà con sé non solo le corde di un contrabbasso ma un’intera filosofia dell’ascolto. Perché la sua presenza scenica non è mai teatrale, è più simile a quella di un monaco del suono, assorto, misurato, ma capace di vibrare in profondità. In un’epoca in cui ci si emoziona sempre meno Joe Sanders ci ricorda che la nota più importante non è quella suonata, ma quella che resta sospesa.

Foto di Emra Islek

Joe, «Parallels» è un titolo evocativo. A quali «paralleli» ti riferisci, quelli tra mondi musicali, tra epoche o tra diverse versioni di te stesso come musicista?

A tutte e tre le cose messe insieme. In realtà è la mia vita che si esprime in diversi modi. Io sono un padre, per esempio, e faccio le cose che fanno tutti i papà, mi piace cucinare – a casa mi considerano uno chef – in studio non faccio altro che il mio lavoro. Mi divido. Come tutti: oggi, ad esempio, ho preparato dei tacos e nello stesso tempo dovevo essere pronto per fare questa intervista… Devo dire che tutto questo è un po’ stancante… Devo continuamente cambiare durante la giornata. Se poi dobbiamo parlare dell’aspetto meramente musicale dell’album devo dirti che ho cercato in questo disco, soprattutto nella seconda parte, di rappresentare una parte di me meno conosciuta rispetto alle cose che faccio di solito, quella più intima. La seconda parte dell’album è stata composta durante la pandemia. Il titolo è stato scelto perché vuole indicare appunto quello che ti ho detto, un parallelismo tra la mia dimensione di sideman, quella per la quale sono maggiormente conosciuto e per la quale mi chiamano di solito per suonare in trio o in quartetto o in quintetto, e quella più interiore. Parallele sono anche la vita di un musicista – viaggiare, andare in tour, stancarsi – e quella di un uomo qualsiasi con la sua quotidianità. Quello che vivo di continuo.

Nel disco si percepisce una forte componente spirituale e meditativa. Quanto conta per te la dimensione interiore della musica, e come si traduce nel tuo modo di suonare il contrabbasso?

Ogni nota per me ha il suo valore. Per parafrasare una sigla oggi molto in voga userei il termine «black notes matter». Il mio mentore, Ron Carter, è un acceso sostenitore di questa affermazione. Quando studiavo con lui mi ha inculcato questo concetto in maniera così profonda – qualche volta insistente – che non posso fare a meno di dimenticarlo. E non si tratta di avere un do regolare sulla linea del basso ma di capire l’effetto che fa, sia con quelli con cui sto suonando che con quelli che stanno ascoltando, con il pubblico. Condivido quello che hai detto, c’è molto di meditativo in quello che faccio e nel mio modo di suonare lo strumento. E non si tratta solo di musica ma di vere e proprie vibrazioni che devono essere trasmesse a quelli che ti stanno attorno. Tutto questo in qualche modo mi rende vulnerabile. L’aspetto emotivo della musica è per me molto importante: posso talvolta sentire della bella musica che però non mi trasmette nulla ed è quello che io cerco di evitare. Cerco di mettere sullo stesso piano l’aspetto emotivo, intellettuale e comunicativo della musica. Ovviamente, va de sé, ho passato venticinque anni a fare pratica sul mio strumento per migliorare tecnicamente – suono anche il piano e la batteria – ma il fatto è che la tecnica, quando si acquisisce, passa in secondo piano rispetto a quello che ti ho detto. Sì, la spiritualità è fondamentale perché ti pone ad un livello diverso in termini di evoluzione.

Foto di Wolf-Peter Stienheisser

Hai lavorato con giganti come Herbie Hancock, Charles Lloyd e con gente come Gerald Clayton e Ben Wendel. Cosa hai imparato da questi musicisti che hai poi portato nel tuo linguaggio personale?

Non ho solo suonato con questi signori. Sono entrato nelle loro vite, vi ho trascorso un sacco di tempo insieme. Uno dei miei maestri, Gerald Clayton, diceva che non facciamo altro che mettere tutto in un secchiello dimenticandoci del fatto che il suo contenuto continua a crescere senza che noi ce ne rendiamo conto. A un certo punto il secchiello si riempie e il suo contenuto fuoriesce facendo venir fuori anche le cose che tu pensi di aver dimenticato. Non facciamo altro che imparare. Sempre. E le cose che impariamo si stratificano negli anni e vengono fuori senza che tu te ne accorga. Le tournée sono molto importanti da questo punto di vista perché quello è il momento in cui passiamo più tempo insieme assimilando non solo i suggerimenti tecnici ma anche stili di vita, modi di fare, di relazionarsi con gli altri. Non sono sempre rose e fiori ovviamente, vi sono anche delle negatività che però servono a comprendere te stesso e il tuo modo di rapportarsi agli altri sia come uomo sia come musicista. Suonare con Roy Hargrove, per esempio, è stato molto importante per me perché lui era molto malato – doveva fare dialisi per quattro o cinque volte alla settimana – ma nonostante questo suonava come un dio, con un’urgenza espressiva che ho visto davvero poche volte nella mia vita. Suonava come se quella dovesse essere l’ultima volta. È solo un esempio, per carità, ma quello che voglio dire è che tutti i musicisti con cui suoni ti danno qualcosa in termini di energia, di karma, di espressività.

Nicola Gaeta

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