Dino Massa: un’anima divisa in due

di Flavio Caprera

827

Intervista al pianista napoletano, artista versatile e dotato di profonda sensibilità

************************************************************************

Allievo di Bruno Tommaso, Dino Massa (Napoli, 1964), è pianista e compositore colto, melodico, solare e eclettico. I suoi dischi, l’uno diverso dall’altro, mettono in mostra una rilevante versatilità progettuale e strumentale. Tra le altre cose, Massa è anche uno scrittore di polizieschi dall’ambientazione musicale. Il suo ultimo romanzo s’intitola L’orchestra jazz si tinge di giallo.

Dino, so che hai cominciato con la chitarra e poi è subentrato il pianoforte; ma in mezzo c’è stato un terzo incomodo, la fisarmonica. Com’è andata?
Sono quei tentativi che si fanno da bambini. Avevo inutilmente cercato di imparare a suonare la chitarra classica. Poi mi giunse tra le mani una fisarmonica e capii che quelli che mi interessavano davvero erano i tasti! Un mio cugino, nel nostro palazzo, aveva una tastiera. Me ne innamorai subito. La usavo soltanto io, naturalmente da autodidatta. Avevo undici anni, e da quel momento cominciai ad ascoltare tanta musica.

So che, tra i tanti gruppi dell’epoca, fu il Return To Forever di Chick Corea a provocarti un autentico shock.
Proprio così. In seguito passai velocemente dal jazz-rock al jazz più classico. A quindici anni ero immerso in John Coltrane – consumando letteralmente tutti i suoi dischi – e amavo in maniera viscerale lo stile del suo pianista, McCoy Tyner. Del jazz mi attirava soprattutto la libertà creativa che sentivo risiedere nell’improvvisazione.

Fu quindi Tyner a condizionarti, come pianista, dal punto di vista tecnico?
Direi di sì. Ciò che mi ha sempre affascinato del jazz è l’aspetto ritmico, e McCoy di ritmo ne possedeva davvero tanto. Poi, nel corso degli anni, mi sono innamorato di tanti altri pianisti, uno su tutti Bill Evans, che mi ha fatto scoprire «l’altro» pianoforte, quello delicato, melodico, intimistico. È così che ho imparato a curare anche gli aspetti melodici e armonici del mio pianismo.

Del tuo bagaglio artistico fa anche parte l’impressionismo francese, o sbaglio?Certo che sì. La mia formazione adolescenziale è andata avanti a blocchi. Lo studio della musica classica mi ha sempre attirato molto, in particolare quella degli impressionisti francesi come Debussy, Ravel e altri. Mi è sempre piaciuto il loro elaborato sonoro, e penso che mi abbia notevolmente influenzato nel modo di suonare. Del resto io sono sì un pianista jazz, però europeo, perché oltre al jazz risento molto della tradizione classica e in qualche modo ne vengo condizionato: lo dimostra, credo, il mio disco «Suite pour le piano».

Sei un musicista dalle diverse sfaccettature, sia musicali sia progettuali. Quando hai cominciato a suonare da professionista, con che tipo di formazioni ti sei accostato al mondo del jazz?
Ho cominciato con piccoli gruppi Il primo era un quintetto. Al trio sono arrivato in seguito. Più avanti ho avuto anche una band più ampia, dal nome Piccola Orchestra, con cui ho inciso anche un disco, ovvero «Strani effetti della globalizzazione sulla musica Afroamericana: Uh’Anema». Mi sono divertito molto a scrivere e arrangiare, che sono tra gli aspetti che più mi piacciono nel jazz”.

Come è stata la tua prima registrazione da leader?
Avevo lavorato per mesi agli arrangiamenti utilizzando i sintetizzatori. Poi, quando mi ritrovai in sala di registrazione e vidi il pianoforte, stracciai tutto e incisi un disco interamente acustico.

Mettiti nei panni del critico di te stesso e dicci cosa ne pensi della tua musica.
Come dicevo, penso credo che la mia musica sia assai imparentata con il jazz ma influenzata anche da altro, soprattutto dalla classica. In piano solo, ma anche in gruppo, mi piace molto lavorare con le dinamiche, che nella tradizione europea sono molto diverse da quelle che troviamo nella musica di matrice afro-americana. Anche le produzioni ECM degli anni Settanta, perlopiù di musicisti europei, non mi hanno lasciato indifferente, compresi Keith Jarrett e Kenny Wheeler che ovviamente non sono europei. Insomma, sono un jazzista europeo con una componente afroamericana, soprattutto di natura ritmica.

La tua è una lunga carriera spesa tra la musica e la didattica. Chi sono i musicisti con cui hai suonato che ti hanno lasciato un ricordo indelebile?
In primis John Abercrombie. Un chitarrista straordinario, semplice, senza manie di sopraffazione, umanamente empatico. Ricordo che a un certo punto, mentre stavamo suonando Nardis, John inserì il distorsore e mi ritrovai a vivere in prima persona ciò che avevo ascoltato per anni nei suoi dischi: fu davvero un momento magico.

Negli ultimi anni hai allestito svariati progetti, uno diverso dall’altro, con gruppi anche internazionali: il Kansas City Quintet con Christopher Burnett, il Dino Massa Quartet e il Polish Quartet. Come riesci a gestire questi diversi aspetti della tua musica?
La bellezza del jazz, quando suoni in gruppo, è quella di riuscire a far condividere le tue idee. Per la riuscita dei tuoi progetti hai ovviamente bisogno dell’apporto dei tuoi collaboratori. È un aspetto direi fondamentale, perché i miei brani si arricchiscono con il contributo di idee e suoni portato da chi suona con me. E per fortuna ho sempre trovato musicisti di altissima professionalità e bravura.

Hai pubblicato un nuovo disco, «Live in Warsaw», realizzato con il tuo Polish Quartet. È uscito adesso ma lo avevi inciso nel 2016. Perché questo ritardo? E quali sono le origini della tua esperienza polacca?
Anni fa mi capitò di dare alcuni concerti al Jazz Club di Varsavia. Al gestore piacquero molto, tanto che mi invitò a tornare anche l’anno seguente. All’inizio suonai in trio, servendomi del contrabbassista Pawel Puszczalo. In seguito il gestore del club mi chiese di mettere in piedi un quartetto e suonare nella nuova sede del locale, dove si esibivano anche importanti musicisti americani di passaggio in Polonia. La pubblicazione è nata in modo casuale, in seguito a un video che postai su YouTube. Un amico lo vide e si complimentò per la riuscita del brano, chiedendomi se esistesse un disco da poter acquistare. Così mi ricordai di aver registrato tutto il concerto e di possedere il master. La pubblicazione è nata per questo motivo. Con il sassofonista del quartetto, Tomasz Grzegorski, ci siamo rivisti qualche anno dopo, suonando a un festival di Cracovia sia in duo sia in quartetto, ma con altri musicisti.

Visto che frequenti spesso la Polonia, com’è adesso il panorama jazzistico di quel Paese?
È di primissimo ordine. Il livello del jazz del nostro continente è molto alto. Del resto i Paesi dell’ex blocco sovietico hanno una lunga tradizione jazzistica, e soprattutto in Polonia il jazz ha ben poco da invidiare a quello che si fa, per citare due nazioni tra le tante, in Francia o in Olanda. Il jazz è entrato in quasi tutti i conservatori e c’è una grossa attività concertistica tra jazz club e festival.

In «Live in Warsaw» ci sono quattro standard ma anche due brani scritti da te, Mari del Nord e Paris. Direi che il primo rappresenta la tua anima «nordica», mentre il secondo è più caldo, più «afro»: ha un aspetto mediterraneo, più vicino alle tue origini.
Qualche anno fa intitolai un mio disco «Anime diverse», proprio per far vedere che avevo parecchi modi di intendere la musica. Aggiungerei che proprio un brano, McCoy’s Blues, certifica la mia forte passione per il grande pianista di Coltrane. Quando scrivo, certe volte prevale la matrice afroamericana e altre quella europea, che spesso finisce per diventare predominante. Uno dei miei ultimi lavori si intitola proprio «Echoes of Europe».

Mi dicevi che tra i tuoi progetti attuali c’è un lavoro su Bill Evans.
Sì, sono tutte musiche di Evans con soltanto un mio brano originale. È la prima volta che gli rendo omaggio e tutto è nato in maniera molto casuale. Suono in trio con due musicisti napoletani: Dario Spinelli al basso elettrico e Marco Castaldo alla batteria. Chiaramente non intendo riprodurre pedissequamente la musica di Bill Evans ma cerco di filtrarla attraverso la mia personale visione, che va a impattare soprattutto sulla scelta dei tempi e sul ritmo.
Flavio Caprera