Pensando all’apporto autonomo del jazz all’estetica musicale (dato che quell’estetica del jazz autarchica e infarcita di etica storico-sociale forse non sarebbe interessata a rilevare o lo farebbe diversamente), Kenny Wheeler è un musicista che possiede al più alto livello il requisito fondamentale dell’autore: un’omogeneità esemplare fra le attitudini dello strumentista e del leader compositore. Il suono pastoso, vaporoso, ingombrante e mobile che ha alla tromba e al flicorno e il modale dalle ampie arcate ma insieme inquieto, melanconico, talvolta minore, delle sue composizioni, ben distinto anche nelle improvvisazioni da quello più fitto di gesti e più sfuggente nelle tonalità emotive rientrato nella lingua comune del jazz dopo Miles Davis. Per questa proprietà poetica, la musica di Wheeler tende a trascendere i confini del jazz, pur essendo totalmente inscritta nell’idioma jazzistico. Non contiene blues, ma neanche pop, rock, e qualche raro richiamo al classicismo è sempre molto mediato. Né la sua innegabile complessità ne fa esattamente una musica intellettuale. Wheeler non è mai stato tra i musicisti bisognosi di impersonare qualche costola della cosiddetta cultura. A essere un musicista complesso, d’avanguardia, lo ha portato al contrario un’onestà intellettuale strettamente connessa al suo status di individuo insicuro, la sua sostanziale fragilità psichica.
Nato nel 1930 a Toronto, Canada, da una famiglia numerosa dove padre, fratelli e sorelle sono tutti strumentisti semi-professionisti, a dodici anni riceve in regalo la cornetta del padre, comincia subito a suonarla e decide di diventare jazzista, appassionandosi insieme ad amici al bebop. Ma è il padre stesso che, abbandonato il jazz per un mestiere a suo avviso più affidabile, lo ostacola, costringendolo per qualche tempo a impiegarsi. Dovrebbe essere questo il motivo principale che lo spinge, per lavorare da jazzista, a stabilirsi a Londra anziché a New York; scelta bizzarra che deve aver messo insieme l’esigenza di sfuggire al controllo familiare e un bisogno individuale di situarsi in un altrove dall’occhio del ciclone, dato quel temperamento. Nella Londra dei primi anni Cinquanta la cultura del jazz moderno – diversamente da quanto avvenuto a Parigi, per esempio – sta ancora infiltrandosi in piccolissime dosi in quella del jazz tradizionale, situazione che comunque concorre a relegare la sua attività nelle file di formazioni poco promettenti, per lo più big band, pur portandolo presto a incidere e anche a scrivere qualche arrangiamento. Non gli dà evidenza neppure il lavoro con un musicista più di spicco quale John Dankworth, che per primo lo apprezza singolarmente e con la cui orchestra suona e incide dal 1959 al ’67. Lo ascoltiamo in qualche bell’assolo che potrebbe essere di chiunque bravo trombettista o flicornista, a seconda del caso. Niente composizioni né arrangiamenti: Dankworth, prolifico anche nell’ambito delle musiche per il cinema (film di Karel Reisz, Joseph Losey…), è abituato a fare tutto da sé.
A metà anni Sessanta, però, quando la scena del jazz britannico ha già cominciato a emanciparsi dall’imitativo e a vivacizzarsi (di qualche anno prima, la fiammata pseudo-free di Joe Harriott), è chiaro che Wheeler si scherma per non aver ancora messo a punto autentiche convinzioni. Sente di dover coltivare una posizione individuale rispetto al presente del jazz e all’incalzante contraddizione fra tradizione e avanguardia.
Da una delle sue rare interviste concesse, di solito anche avare di dichiarazioni precise, sappiamo che il nodo si sarebbe cominciato a sciogliere con l’ascolto di dischi di Booker Little, trombettista, compositore e arrangiatore che aveva lasciato ampia traccia della sua personalità nonostante una carriera brevissima (era morto a ventitré anni nel 1961). Wheeler ha con Little qualche affinità timbrica, ma ciò che di Little sente vicino al suo potenziale poetico è una combinazione di elementi formali e concettuali: formali, il modale ispirato da certo melodismo iberico e le polifonie con armonie di quarta; concettuali, la forte unità fra strumentista e compositore e l’emancipazione dalla tradizione del bop per tensione drammatica, cioè per proprietà emozionale, anziché abiura di un bagaglio culturale e linguistico. Wheeler, infatti, il suo debito con Little lo personalizzerà soprattutto stratificando su quegli elementi formali l’espressione di tensioni più sfaccettate, dalle traiettorie incerte, mai affermative, mai esattamente drammatiche. E lo personalizzerà molto. Detto al futuro, perché ci vorrà ancora del tempo prima che questo processo giunga a riempire i contorni di un’identità autoriale.
Wheeler vuole anzi affrontare il problema ancora alla lontana, preoccupandosi soprattutto di poter individuare il suo possibile spazio poetico rispetto a una conoscenza più ampia della musica. Sicché nel 1964, in parallelo al lavoro con Dankworth, oltre che a tanti ingaggi di seconda scelta, a volte anche uncredited, e a un costante impegno per migliorare la tecnica, dedica sei mesi allo studio del serialismo con Richard Rodney Bennett (compositore amico di Dankworth che era stato allievo di Pierre Boulez) e l’anno dopo studia composizione e contrappunto barocco con l’illustre Bill Russo (alle ultime propaggini del suo soggiorno londinese). Studi di cui pure farà tesoro.
Un esito immediato dell’approccio alla serialità potremmo eventualmente riconoscerlo, siamo agli inizi del 1966, nella sua collaborazione con il neonato gruppo di libera improvvisazione Spontaneous Music Ensemble, creato dal batterista John Stevens con i sassofonisti Trevor Watts e Evan Parker, il trombonista Paul Rutherford… (altri elementi in seguito muteranno). Benché intrapresa con dubitabile convinzione, piuttosto con lo spirito di chi è in cerca di aria nuova (cominciando quasi per pura curiosità a frequentare il Little Theatre, dove il gruppo prova regolarmente), questa collaborazione dura dal 1966 al 1971 e vede Wheeler perfettamente a suo agio nell’interpretare la rapida evoluzione del gruppo da un iniziale free post-colemaniano (il disco «Challenge» del marzo 1966) alle libere produzioni di segmenti sonori (a partire dal disco «Karyobin» del febbraio 1968), così come poco dopo nell’affrontare situazioni sonore appena più strutturate da membro dei gruppi del batterista Tony Oxley (i dischi «The Baptised Traveller» e «4 Compositions for Sextet» del biennio 1969-70).
Rispetto a ciò che concedono di espressione personale queste musiche di ricerca strutturale sul suono, è ovvio che il contributo di Wheeler alla Creative Music più «corretta», più analitica, del quartetto di Anthony Braxton, con cui suona e incide per buona parte degli anni Settanta (celebri almeno i dischi «New York, Fall 1974» e «Five Pieces 1975») è di gran lunga più significativo. Wheeler giustappone alle astratte tessiture del leader la sua distintiva proprietà stilistica e sonora. Con la Creative Music in genere instaura un rapporto comunque ambiguo. Da una parte, considera «terapeutica» la pratica dell’improvvisazione destrutturata, tanto che non taglierà mai i ponti con il sassofonista Evan Parker, presente sia nello SME che nei gruppi di Oxley e che talvolta ritroviamo suo sideman – oltre che restare suo amico e mentore a vita. Dall’altra, la «sua» musica non sarà mai creative. Anche i frammenti di chimica creative che accoglierà (essenzialmente in presenza di Evan Parker), saranno puntualmente inseriti in un contesto generale di segno opposto, cioè di espressione romantica, evocativa, complessa perché densa di interiorità.
Per reperirne i primi segnali bisogna tornare al gennaio 1967, quando Wheeler partecipa al disco «Deep Dark Blue Centre» del contrabbassista e compositore Graham Collier, qui leader di un septet e presenza singolare della nuova scena londinese. Wheeler suona solo in tre pezzi e solo in due è solista, ma l’impressionismo teso e accidentato della musica di Collier lo stimola a portare alla luce un proprio stile come finora non aveva fatto né il bop né l’avanguardia. E non si esclude che gli abbia anche chiarito le idee riguardo il suo potenziale spazio di leader compositore, data qualche vaga affinità con il carattere che Wheeler darà circa un anno dopo al primo disco a suo nome.
Questo disco in realtà nasce per iniziativa dell’amico Dankworth, che a Wheeler ha proposto di scrivere una suite per la sua orchestra mentre i postumi di un intervento dentistico gli impediscono di suonare per circa tre mesi. Poi la mano di Wheeler prevale al punto che il nome di Dankworth passa in secondo piano (sulla copertina si legge «Ken Wheeler and the John Dankworth Orchestra»). Wheeler ha composto e arrangiato l’intera suite, nel volersi ispirare a un soggetto narrativo ha scelto una figura perdente quale Don Chisciotte, motivo per cui il disco (pubblicato dalla Fontana) si chiama «Windmill Tilter. The Story of Don Quixote», e l’orchestra di Dankworth gli viene «prestata»: in tre pezzi la riduce anzi a un quintetto da cui il leader è escluso. Un quintetto completato da Tony Coe (sax tenore e clarinetto) e i giovani John McLaughlin (chitarra), Dave Holland (contrabbasso) e John Spooner (batteria).
Probabilmente, al di là di una personale simpatia per i perdenti, l’ispirarsi a Don Chisciotte ha rappresentato per Wheeler anche un pretesto per coinvolgere la Spagna, quel modale iberico ereditato da Little. In questo senso la suite prefigura alcune delle sue principali invarianti della maturità. C’è solo da osservare che le tracce di queste invarianti affiorano ancora un po’ a macchie di leopardo. Ferma restante la qualità ricca di tutta l’opera, tra i pezzi in cui è impiegata l’intera orchestra, che sono la netta maggioranza, ne troviamo ancora di segnati da passaggi brillanti, swinganti, in qualche modo ottimisti. Che la penna sia di Wheeler anziché di Dankworth lo avvertiamo soprattutto quando siamo in presenza di tonalità minori o modale minore o armonie di quarta – l’altro tratto che rimanda a Little. Ma anche fra i soli tre pezzi eseguiti dal quintetto c’è disparità: il brevissimo Preamble e Sweet Dulcinea Blue prefigurano il Wheeler più intimistico; Propheticape si lascia andare parecchio al jazz.
Ciò che nel disco si apprezza ovunque è Wheeler solista, al quale mancano ancora pochi tratti per completare quel suo stile inconfondibile che sarà definitivo: a spanne, un po’ di ulteriore estensione e i suoi improvvisi sovracuti strozzati. Già non sfuggono la sua sonorità corposa che si rabbuia sul registro basso, il suo fraseggiare anticipando il tempo di qualche frazione di secondo, il suo far calare impercettibilmente qualche nota prolungata già dall’attacco; non sfugge la sua conseguente facoltà di introdurre un proprio segno che toglie relax a ogni musica che si stia suonando. Motivo per cui dal 1968 in poi Wheeler è richiestissimo da tanti leader emergenti del jazz britannico, di vecchia e nuova generazione e di questo o quell’indirizzo, offrendo queste prestazioni caratterizzate anche a gruppi che non le contestualizzano. È un po’ il suo destino. Di solito chi ha una personalità così definita non accetta un’attività così indiscriminata. Fra le sue tante registrazioni del periodo 1968-71 (con leader che vanno da Tubby Hayes a Mike Westbrook, da Joe Harriott a Mike Gibbs, al gruppo Nucleus di Ian Carr…), si riescono a scontornare pochissimi interventi che ci mettano sulle tracce di quella che sarà la sua musica. Ed è chiaro che il discrimine lo suggerisca più il tipo di composizione che non la durata del singolo intervento.
Per esempio, assoli di pieno effetto Wheeler ne riconosciamo di certo in due pezzi del disco di Alan Skidmore «Once Upon A Time» del 1969 (il title piece, composto da John Surman, e ancora di più Old San Juan, composto da John Warren); due temi che sembrano concepiti a perfetta misura di Wheeler. Così può dirsi anche un pezzo di John Taylor, pianista della seduta di Skidmore, dal suo disco «Pause, And Think Again» del 1971 (Pause). In tal senso è un peccato che Wheeler sia pochissimo sfruttato come solista nel coevo disco di John Surman e John Warren «Tales Of The Algonquin», fatto interamente di composizioni modali e talvolta un po’ surrealistiche di Warren, ma dove sono i suoni sassofonistici (non soltanto dei due co-leader) a presidiare la scena dell’improvvisazione.
In questo periodo Wheeler stringe due importanti amicizie: con John Taylor, che resterà nel tempo una sorta di suo pianista di fiducia, e con la cantante Norma Winston, al tempo moglie di Taylor, che soprattutto da specialista di un moderno wordless vocal, ben distinto dallo scat boppistico, si rivela parte significativa del suo sound orchestrale già nel disco «Song For Someone», secondo realizzato da leader, al quale partecipano Taylor (al piano elettrico) e in due pezzi Evan Parker, che ne è anche il produttore (per la sua etichetta Incus).
Inciso agli inizi del 1973, rispetto al precedente «Windmill Tilter» (anteriore di quasi cinque anni), «Song For Someone» mostra un’immagine di Wheeler compositore e arrangiatore polifonico (anche qui l’organico conta una ventina di elementi) molto più vicina a quella che sarà il suo marchio di fabbrica. Piuttosto, un’immagine che nuovamente non occupa l’intero schermo, questa volta perché fratturata dalle schegge di improvvisazione radicale dei due pezzi in cui è presente Evan Parker, di cui uno piuttosto lungo (The Good Doctor) accoglie anche il chitarrista Derek Bailey, altro pilastro della scena creative britannica (come Parker, passato per lo SME, per i gruppi di Oxley e per il gruppo Iskra 1903). Per quanto inseriti in trame musicali tipicamente wheeleriane con considerevole perizia, sono episodi che non stabiliscono alcuna relazione logica né emozionale con l’assetto formale che Wheeler ha maturato nei toni più dinamici come in quelli più evocativi, e di cui fa parte anche il delicato song finale in cui la Winstone canta un proprio testo.
Wheeler ha voluto includerli nella seconda tappa della sua tardiva e non fitta produzione da leader come per mostrare di sé due facce. Ma sarà proprio il divenire di questa produzione ad avvertirci che il mondo creative, ora come poi, è per lui una sorta di luogo di scambi emotivi slegati dall’emozione musicale, frequentato per esigenza psicologica di valorizzare con la complicità musicale certe importanti relazioni di amicizia. Pertanto, due facce risultano dalla sua discografia, ma non si leggono nella sua personalità di artista. Il volto di Wheeler come leader si consolida invece, quasi senza riserve, con il successivo «Gnu High», inciso nel giugno 1975 per la ECM e che segna l’inizio del suo duraturo, benché intermittente, rapporto con Manfred Eicher. Un disco importante soprattutto come rivelazione del possibile, perché il gruppo non è che un trumpet quartet: ovvero Wheeler unico fiato, accanto al piano di Keith Jarrett, il contrabbasso di Dave Holland e la batteria di Jack DeJohnette. Varo della coppia Jarrett-DeJohnette, il quartetto è ovviamente creazione di Eicher. Wheeler, quanto meno, al posto di Jarrett (disabituato da anni a essere sideman) avrebbe voluto il fido John Taylor, giunto nel frattempo ad affrancarsi dall’influenza evansiana con uno stile molto personale. E probabilmente dai principi dell’ambizioso produttore teutonico proviene anche la scelta di strutturare il disco con un solo lungo brano (Heyoke) in prima facciata e solo due, rispettivamente di durata normale (Smatter) e medio-lunga (Gnu Suite) in seconda.
Qui però siamo alla prova che Wheeler, in presenza di convinzioni, fa sopravvivere alle sue autocensure caratteriali una solidissima determinatezza. In questo disco nulla offusca l’espressione della sua musica: né le lunghe durate, né l’assenza di polifonia, né Jarrett, che pure dimostra di aver intuito come contenere i suoi tipici accenti in un comportamento discreto, cosa che fa anche in assoli lunghi. Questa musica per piccolo gruppo infatti Wheeler la domina a tutto tondo con il suo suono possente, un suono che «gira», e la marchia precisando ulteriormente il suo distintivo stile di composizione. Melodie ampie, che dietro una superficie rilassata, a volte cantabile, nascondono sequenze di accordi improbabili quanto quelle di Wayne Shorter, ma che attraverso questo sprigionano una melanconia palpabile, anche se mai sentimentale: qualcosa di ben distinto dall’alterità raggelata delle più tipiche composizioni del sassofonista. Wheeler anzi, proprio in un contesto come questo, mostra una straordinaria capacità di far vivere il suo messaggio emozionale oltre la composizione. Se la prima parte del Heyoke e Smatter lo rispecchiano limpidamente nella struttura tema-chorus-tema, così come Gnu Suite attraverso più temi, la seconda parte di Heyoke (separata dalla prima da un’estesa parte di Jarrett) riproduce una simile atmosfera in chiave di improvvisazione, con riferimenti scritti assai vaghi. Sottolinea perciò il valore dell’intero disco come modello esemplare di improvvisazione non straniata da un musicale semantico.
Sulla scia del discreto successo di «Gnu High» (forse dovuto anche alla presenza di Jarrett, reduce da quello di «The Koln Concert»), Eicher giustamente si preoccupa di restituire a Wheeler l’espressione polifonica, e per questo concepisce il successivo disco, «Deer Wan», del luglio 1977, per quintetto con due fiati, concedendo a Wheeler anche qualche scorcio di sovraincisione del suo strumento. Nuovamente unilaterale è piuttosto la scelta di riunire un gruppo composto esclusivamente di nomi di spicco della scuderia ECM, cioè musicisti connotatissimi come Jan Garbarek, John Abercrombie e Ralph Towner (presente in un solo pezzo), accanto ai riconfermati Holland e DeJohnette, e forse anche la riproposta di esecuzioni di durata medio-lunga o lunga (così tre su quattro) che a ciascuno di questi musicisti danno giusto spazio e giusto rilievo. Pertanto ci troviamo di fronte a temi che sono tutti iper-wheeleriani e forse persino più approfonditi di quelli di Gnu High, che siano di quell’ariosa melanconia sovrastante, come Peace for Five e l’eponimo Deer Wan, o raccolti come ¾ in the Afternoon e Sumother Song, ed esecuzioni che splendono anche per le direzioni date loro da questi grandi musicisti fuori dalle esposizioni corali dei temi (alle quali il suono e il carattere di Garbarek risultano in ogni caso propizi): se si vuole, ben più che non da Jarrett in «Gnu High». Qui neppure l’accorgimento di suddividere le esecuzioni lunghe o medio-lunghe con un intermezzo composto risolve granché. Per alcuni anni Wheeler ha giudicato «Deer Wan» il suo disco migliore: del resto è un disco «bello», riuscito in ogni punto. Il che significa però che l’accogliere negli spazi di un suo disco espressioni altrui tanto compiute e brillanti quanto poco correlabili alla sua, in sé così singolare e complessa, non costituiva per lui un problema. Continuava a fidarsi degli altri più che di sé stesso.
Proprio riguardo queste attitudini caratteriali, il disco «Around 6», terzo ECM inciso nell’agosto 1979, rappresenta un relativo passo avanti. Dopo che Eicher gli ha lasciato ampio arbitrio riguardo la composizione del gruppo, Wheeler riunisce un sestetto con trombone, sassofono, vibrafono, contrabbasso e batteria, idealmente consono all’espressione delle sue composizioni, qui ancora tutte nuove. Particolarmente consoni il trombonista svedese Eje Thelin e il vibrafonista Tom van der Geld e forse più attenti dei precessori il contrabbassista Jean-François Jenny-Clark e soprattutto il batterista Edvard Vesala (unico elemento di stretta cerchia ECM). Le composizioni, oltretutto, sono più estese o più articolate, rivelandosi in questo o quel modo più influenti sulle atmosfere delle rispettive esecuzioni, anche nelle due sole di durata medio-lunga. Le interrompono ancora una volta gli interventi solistici di Evan Parker, che Wheeler ha voluto come ancia del gruppo. Un contrasto neppure meglio governato che negli arrangiamenti di «Song For Someone».
Wheeler potrebbe anche essersi posto per la prima volta il problema di stabilire una compatibilità logica tra la sua espressione di musicista totale e l’estetica creative, e per questo distribuito nelle esecuzioni episodi di libertà formale decisamente maggiore. Ma parliamo di un pezzo improvvisato per solo flicorno, denso di tensione drammatica e in definitiva anche intelligibile (Solo One), della lunga introduzione a Follow Down di lui e Thelin a cappella, che pure è insieme libera e intelligibile, e di vari assoli molto liberi, dalle linee dilaniate, soprattutto quelli che si ascoltano nel pezzo Riverrun. Parliamo di «espansioni» del linguaggio wheeleriano che non ne contraddicono la profonda radice poetica. Gli interventi solistici di Parker sono lo specchio di un linguaggio la cui radice processuale/comportamentale/estetica è infinitamente più certa di quella poetica e che Wheeler, ora sapremmo anche perché, continua invano a voler accorpare al suo.
Questa sezione malgrado tutto importantissima della produzione di Wheeler da leader si conclude con il disco «Double, Double You» del maggio 1983. Un disco pressoché privo di forze centrifughe e di impatto wheeleriano benché abbastanza gestito in linea con le prassi di un generico jazz aggiornato. Il gruppo è un quintetto al quale Eicher potrebbe forse non aver neppure messo mano, a parte il ripristino, semmai un po’ automatico, di Holland e DeJohnette. A condividere con Wheeler la front line è Michael Brecker (coinvolto da Holland), interprete del sax tenore già prodigo e ricco di pathos, mai in contrasto con lo spirito del leader, né da armonizzatore né da solista, e il pianista è il garantito John Taylor. Le durate, una lunga, una breve, una media e una lunghissima, ma ripartita in tre segmenti, non danno indizi particolari. Ne danno piuttosto i titoli, compreso quello del disco, che testimoniano il sempre più compiaciuto gusto di Wheeler per il calembour. Le esecuzioni sono quindi omogenee, costantemente suggestive e tutte beneficiano di scritture tipicamente wheeleriane, dalle ampie melodie su medium tempo di Foxy Trot e W. W. al raccolto benché accidentato Ma Bel, in duo con John Taylor (formula che rifiorirà una ventina di anni dopo). Il diversificato trittico Three for D’reen / Blue for Lou / Mark Time perde intensità nell’esecuzione di quest’ultimo segmento, essendo occupata dall’inizio e in gran parte da lunghissimi assoli, prima di Brecker e poi di DeJohnette: il tema, tutt’altro che trascurabile, compare solo in conclusione. Un vuoto di regia che da parte di Wheeler non stupisce affatto.
Non a caso Mark Time è un pezzo che ricorrerà nei repertori wheeleriani. Già se ne ascolta una bella versione con Norma Winstone come leading voice nel cd «Live At Roccella Jonica» (1984), dove è presente anche Foxy Trot e soprattutto dove nasce il fosco The Widow In The Window, tema che Wheeler rivisiterà in circostanze tra le più felici.
A questo stesso periodo appartengono collaborazioni con leader e gruppi tra loro diversissimi, in cui Wheeler non appare quasi mai un sideman intercambiabile, ma spesso grazie soltanto alle diverse declinazioni che ha saputo imprimere al suo strumentismo – come negli ambiti creative (Globe Unity, Tony Coe etc.) – e solo di rado potendovi trasporre qualcosa della sua poetica coltivata da leader.
La più difficile da valutare è quella tanto duratura con il trio Azimuth, in cui affianca John Taylor, che ne è il leader di fatto, e Norma Winston, in prevalente qualità di wordless vocalist. Attivo dal 1977 fino a buona parte degli anni Novanta, è un gruppo sui generis e no genre; di un camerismo iper-eclettico, ricettivo di classicismo novecentista quanto di moduli statici o ripetitivi di impronta minimalista (con Taylor all’organo o al sintetizzatore) e di studi sul suono vagamente new age. Wheeler infatti lo caratterizza soprattutto sul piano del suono (a volte anche sovrainciso, a volte quasi di sfondo), ma realmente lo caratterizza: contribuisce al suo carattere. Se non è la «sua» musica, è musica che «richiede» il suo linguaggio come parte di un contesto con esso coerente più o meno in tutte le sue varianti, già compresenti nei tre dischi ECM del periodo 1977-79 («Azimuth», «The Touchstone» e «Départ», dove è ospite Ralph Towner).
È senza dubbio una circostanza più significativa di quelle trovate collaborando con altri gruppi di area cameristica ECM (i quartetti di Arild Andersen e di Rainer Bruninghaus) e per certi aspetti di segno opposto sia a quella della free improvisation, che il suo linguaggio lo accoglie selezionandone proprietà specifiche – la presunta altra faccia di Wheeler – per contestualizzarlo nell’aleatorietà, ma anche a quella della chiassosa musica africanista dell’ottetto di Louis Moholo, diretta emanazione dell’orchestra Brotherhood of Breath (di cui Moholo è batterista).
I casi in cui Wheeler realmente offre da sideman ciò che è da leader sono comunque pure eccezioni: in definitiva due soli dischi, e ciascuno a suo modo anomalo.
Primo in ordine di importanza, quell’improbabile prodotto ECM che è «Sound Suggestions», disco del marzo 1979 a nome di George Adams, l’estroverso tenorista degli ultimi gruppi mingusiani. Improbabile per l’associazione del leader sia all’etichetta che a Wheeler stesso e agli altri musicisti del gruppo (il sassofonista Heinz Sauer, il pianista Richard Beirach e la gettonata coppia Holland-DeJohnette). Ma la sensazione è che il difficile compenetrarsi di questi due mondi, quando non persiste un’inevitabile suddivisione delle parti da un pezzo all’altro, sia soprattutto Wheeler a sovrintenderlo, un po’ da leader di fatto di una seduta di gruppo. Ascoltiamo due temi suoi, uno vagamente accostato alla cultura afro-blue del leader (Baba), l’altro (A Spire) per nulla, e in quasi tutti i rimanenti pezzi – tutti meno uno, per l’esattezza – ampissimi scorci delle sue tipiche atmosfere, e che gli assoli di Adams interrompono molto meno brutalmente di quelli di Evan Parker.
L’altro disco, quasi estraneo al mondo del jazz, è il misconosciuto «Long Shadows», a nome di Bob Cornford (ex-pianista di Dankworth, presente anche in «Windmill Tilter»), qui in veste di arrangiatore e direttore della NDR «Pops» Orchestra, con Tony Coe e Wheeler solisti esclusivi. Un disco di pop orchestrale, affine a certe colonne sonore, contenente song più o meno sentimentali di varie estrazioni, anche a firma di Coe e di Wheeler e, indipendentemente da questo, alcuni a misura di Coe e altri di Wheeler. Per l’occasione Wheeler ha composto Old Ballad, frutto della sua vena più lirica destinato a tante rivisitazioni future, ma il suo particolare modo di essere lirico dà intensità anche a tutte le altre esecuzioni di cui è protagonista.
Dopo «Double, Double You», inciso già a cinquantatré anni, Wheeler continua per l’intero decennio a lavorare molto più da sideman che da non leader, e ancora migrando di tanto in tanto da un genere all’altro. Tra il 1984 e il 1999 appare su ben tre dischi di un singolare cantante e autore art rock come David Sylvian. La sua collaborazione più importante, almeno in quanto la più stabile, è quella con il quintetto dell’amico Dave Holland, che nel corso degli anni Ottanta incide per la ECM i ragguardevoli «Jumpin’ In» (1983), «Seeds Of Time» (1984) e «The Razor’s Edge» (1987). In questo quintetto pianoless con due ottoni e un’ancia, un po’ erede aggiornato dei gloriosi quintetti di Max Roach con Booker Little di fine anni Cinquanta, Wheeler appare valorizzato sia come perno di svariate situazioni polifoniche, talvolta neppure estranee a quelle armonie di quarta tanto care a Little, sia come solista che dall’assenza di strumenti armonici ricava espressioni piene e libere. Resta che la sostanziale componente ritmica delle composizioni e gli arrangiamenti di Holland e in parte anche la stessa assenza di strumento armonico fanno della musica di questo gruppo, in tutto jazzistica, un post-bop terreno nel quale Wheeler non ha motivo di far viaggiare la sua fondante anima metafisica – tranne, ovviamente, nei soli due pezzi a sua firma inclusi nei repertori dell’amico (il preesistente The Good Doctor in «Seeds Of Time» e 5 for Six in «The Razor’s Edge»).
In assenza di strumento armonico Wheeler sembra collocarsi più a tutto tondo nelle trame delle composizioni riflessive del sassofonista Claudio Fasoli, con il quale suona più volte dal vivo e in questo periodo incide due dischi, «Welcome» nel 1986, in quartetto con sezione ritmica, e «Land» nel 1988, addirittura in trio di due fiati e contrabbasso (Jean-François Jenny-Clark). Quest’ultimo disco è una magistrale sintesi cameristica di composto e improvvisato, una prova esemplare di espressione soggettiva e libera nel tessuto della composizione. Pezzi brevi e densi, di abbandono introspettivo o di suspense, dove non ci si imbatte in un solo passaggio che giri a vuoto. Di rado si è ascoltato Wheeler così complice di un sassofonista con cui condividere armonie e forse mai così naturalmente immerso in una musica altrui. Tra le composizioni di Fasoli e quelle di Wheeler c’è indubbiamente dell’affinità: magari di un certo ordine emotivo che guida la forma. Di ordine emotivo sono le proprietà che conducono entrambe oltre i confini di genere del jazz.
A Wheeler, per esempio, è capitato negli stessi anni di collaborare con l’astro nascente Bill Frisell (il disco «Rambler» del 1984) senza realmente inoltrarsi nella sua musica. Lo si riconosce abbondantemente e i suoi assoli sono tutti pertinenti, ma questa musica situata ai margini del jazz per tutti altri intenti e nutrita di tutt’altra alienazione – al tempo un po’ influenzata dalle composizioni di Paul Motian, che di Frisell era il principale leader e in questo disco il batterista – non sarebbe granché diversa senza di lui, né nella forma né nell’emozione.
Torniamo ora all’attività da leader, che negli anni Ottanta, dopo «Double, Double You» si riduce a un solo disco, «Flutter By, Butterfly», inciso a Milano per la Soul Note di Giovanni Bonandrini nel maggio 1987: non più «pensato» del precedente, jazzistico in un senso persino più classico e di nuovo in quintetto, con il vecchio amico britannico Stan Sulzmann al posto di Brecker e l’americano Billy Elgart a quello di DeJohnette. Anche le sei nuove composizioni costituenti il repertorio, privo di esecuzioni lunghe, appaiono in gran parte creazioni di un Wheeler che si muove a distanza dai suoi registri più amari. Ed è tra queste che riconosciamo le sue più tipiche, nonché almeno un paio di memorabili: Everybody’s Song But My Own e Miold Man, che infatti avranno scorci di vita futura (anche per mano di altri leader). Mentre l’eponimo Flutter By, Butterfly, che è un impressionistico pezzo bucolico (con Sulzman al flauto) copre un’ispirazione transitoria, e Gigolo, un tango ai cui toni sarcastici concorrono passaggi materici e stridenti, resterà anche in nuove versioni (dal titolo di Sly Eyes) un pezzo anomalo, per quanto rimarchevole.
Sono indubbiamente segnali che non portano ad alcuna conclusione, se non che Wheeler è arrivato a cinquantasette anni senza aver mai realmente scoperto tutte le sue carte, liberato l’intero flusso di energia che le collega. Ma se finora, come abbiamo visto, ogni tappa del suo percorso di leader ha un punto d’ombra, qualcosa che manca o che guasta, ferma restante la qualità importante di ciascuna, «Flutter By…» potrebbe essere una tappa ambigua per cause (più) naturali, infatti seguita dall’occasione che a Wheeler avrebbe dato lo stimolo giusto – o il giusto incoraggiamento – a divincolarsi dalle sue trappole endemiche, confluite ormai, soprattutto a contatto con il mondo ECM, in un’abitudine alla fuga dalla responsabilità del leader.
Si tratta di un lavoro (puntualmente poco noto) commissionatogli dalla Guildhall Jazz Band, un disco orchestrale di cui è solista featuring e che riempie in gran parte con sue composizioni da lui stesso arrangiate. Il titolo «Walk Softly», un po’ pop, suggella un pop ben più «alto» di quello del disco con Bob Cornford e Tony Coe del 1979. Qui Wheeler riscopre l’importante legame della sua indole poetica al sound orchestrale e all’arrangiamento come mezzo per caratterizzare l’intera esecuzione, riabilitando anche il contributo sonoro del wordless vocal (anche se non in mano alla squisita Winstone) e presenta pezzi che sembrano aggiungere ulteriore respiro e articolazione al suo stile di compositore (il solo preesistente, del resto giustificatissimo, è The Widow In The Window), oltre che ribadire implicitamente la sua appartenenza a un’area limitrofa del jazz. Getta le basi del capolavoro integrale che inciderà a sessant’anni: The Sweet Time Suite, nucleo preponderante e di maggior valore dell’ambiziosa opera «Music For Large & Small Ensembles».
Realizzata tra gennaio e febbraio 1990 in un doppio cd nuovamente ECM, «Music For Large & Small Ensembles» non risente dello spirito ECM che nelle esecuzioni riservate ai piccoli gruppi, che sono pezzi improvvisati ora da un trio di Wheeler con Dave Holland e Peter Erskine, ora da un duo di John Taylor con Erskine. Ed è il caso di osservare che non sono questi a connotare l’opera come jazz dai confini sfumati – uno dei fondamenti estetici di Eicher. Ad appannare quei confini è unicamente la musica per large ensemble che Wheeler ha concepito in funzione della sua estesa e sfaccettata idea di musica, dove l’identità del jazz è quasi per forza sorretta dalla presenza di un corpus di quattordici fiati, ancora di più da quella degli assoli di strumento a fiato (tra cui Stan Sulzmann, un Evan Parker eccezionalmente integrato nel contesto, Ray Warleigh, Julian Arguelles, Paul Rutherford… oltre Wheeler stesso), se non di tutti gli assoli, cioè anche di piano (Taylor), chitarra (Abercrombie), contrabbasso (Holland) e batteria (Erskine) e talvolta anche dal beat, ma già arricchita di qualcos’altro dal carattere degli interventi vocali della Winston, che siano a mo’ di strumento o con testo (come sempre suo), e senz’altro sfigurata dalla varietà delle suggestioni musicali che concorrono alle forme delle composizioni e degli arrangiamenti, dove neppure è necessario ascoltare note di Wheeler (che non in tutti i brani è solista) per riconoscere la singolarità delle sue atmosfere.
The Sweet Time Suite, composta interamente per l’occasione, è suddivisa in otto parti: un tema sontuoso e sognante che fa da prologo (eseguito solo dalla Winstone, gli ottoni e Holland) e da finale (con l’aggiunta di Wheeler solista), e in mezzo altre gemme che perquisiscono a fondo la riserva poetica wheeleriana, anche se più nei versanti luminosi che in quelli ombrosi, sequenziate secondo una logica musicale fluidissima e nei cui arrangiamenti sembrano giustificarsi anche certi inserti di libera improvvisazione da parte di pochi strumentisti.
Piuttosto un peccato che solo due di queste belle composizioni avranno vita indipendente. In particolare l’ariosissima Part II – For H., che Wheeler rivisiterà con organici diversi chiamandola Kind Folk, e la Part VI – Consolation, song tenero e pop scritto per il canto della Winstone, che con questo stesso titolo sarà tesaurizzata da altri leader (Taylor, la Winstone, anche insieme, e recentemente Fred Hersch). Fuori dalla lunga Suite (corrispondente all’intero primo cd), tre autonomi pezzi orchestrali (i primi tre del secondo) posseggono ciascuno il proprio peso specifico concentrato in durata media (scarsi 9 minuti): Sophie, Sea Lady e Gentle Piece – questi ultimi due fortunatamente destinati a rivivere in seguito. Tre pezzi densissimi sul piano della composizione, dell’arrangiamento polifonico, della regia di frammentazione dell’organico e delle interpretazioni solistiche; prime quelle della Winstone, insostituibile dal melodismo pseudo-strumentistico al canto su testo (come in Sea Lady).
Ma persino la sezione dei pezzi improvvisati presenta sintomi collegabili a ciò che Wheeler è in termini di musicalità. Non sono sintomi di quella presunta, fantomatica «altra faccia». Piuttosto di una visione registica estensiva che qui infatti lo coinvolge allo stesso livello come esecutore (i trii con Holland e Erskine) e come tutelare della musica incisa a suo nome (i duetti di Taylor e Erskine). In nessuno di questi pezzi il processo improvvisativo porta alla consueta neutralità semantica: ci sono sempre atmosfere che lo guidano, evidentemente evocate e perciò provocate nell’improvvisare, da Wheeler come da Taylor.
Probabilmente questi pezzi non mostrerebbero pari valore se non fossero moduli in certa misura logici di un’opera contenitore provvista di una propria logica d’insieme. Ed è così che acquista valore anche la versione dello standard By Myself usata come finale, dove suonano Wheeler, Abercrombie, Taylor, Holland e Erskine. Seppure per Wheeler il mondo degli standard non è mai stato importante, la mappa dell’opera così com’è vanta un’integrità da non toccare.
Con lo stesso quintetto di By Myself e nella stessa seduta (la seconda e ultima di «Music For Large & Small Ensembles», datata febbraio 1990), Wheeler incide il disco «The Widow In The Window», comprendente un’esecuzione molto lirica di questa ragguardevole pagina ancora oscura, inserita tra cinque composizioni nuove. Un disco che fa degno seguito alla grande opera orchestrale come straordinaria prova di complicità poetica instaurata anche nel piccolo gruppo, situazione in cui nessun arrangiamento dettagliato e pervasivo avrebbe senso.
Come sempre nei dischi di Wheeler, sono le composizioni a marcare il primo strato di qualità musicale. Composizioni che, come il preesistente title piece, esprimono l’atto puro di tratti che a Wheeler appartengono da sempre e che in ciò si assomigliano, pur essendo ordite con gesti diversi. Si assomigliano per logica a monte e soprattutto per tonalità emotiva, quella melanconia che si agita sempre lentamente e a mezz’aria, che non abbandona la sua quota per scendere sulla terra a dissodare l’humus dei sentimenti, che al sentimento dà le vibrazioni di un ricordo desolato, il rimpianto di qualcosa che non abita più il presente. Quasi mai la musica ci ha permesso di intuire una corrispondenza così probabile con il soggetto psichico suo creatore. E le composizioni di questo repertorio sono anche più pessimiste di quelle concepite per il large ensemble (insolitamente drammatico il tema che introduce e conclude la lunga esecuzione di Ana).
Dire però che il valore del disco «si completi» attraverso i contributi dei quattro compagni di gruppo sarebbe approssimativo, persino riduttivo. La libertà che si concedono questi sensibili musicisti – di cui ciascuno è a sua volta leader – appare inscritta nel mondo wheeleriano, dal quale non si discosta dunque nessun segmento di nessuna esecuzione al di là della sua durata. Anche il modale chitarristico degli assoli di Abercrombie esprime un abbandono che significa qualcosa, che non è solo fantasia e mani a briglie sciolte. Tutto converge in una grande prova di superamento culturale del free. Il punto che Wheeler ha fissato nella sua carriera con questa coppia di capolavori tra loro complementari potrebbe anche essere funzione della sua età biologica, dell’ampia porzione di vissuto che gli è occorsa per sedimentare, organizzare e liberare del tutto un pensiero così connesso al profondo dell’esistenza. Rientrerebbe in certi meccanismi un po’ perversi della psiche sensibile. I pezzi per large ensemble come espressione di uno spettro completo delle sue risorse poetiche e il disco per quintetto come prova di determinatezza del suo status di leader «oltre l’interplay», facoltà che da questo momento non verrà mai scalfita più di tanto. Da questo momento, inoltre, non dovrebbe essere una pura coincidenza, Wheeler tende ad avere un suono sempre più scuro e pastoso alla tromba, in parallelo a un impiego preponderante del flicorno, dal suono pastoso in sé, e il tutto in nessun attrito con le sue graffianti impennate sul sovracuto. Sembra tendere a un’espressione ovunque densificata, liberata nell’accezione opposta a quella che s’intende per «free». Di free improvisation continua come sempre a praticarne da sideman, come sempre quando ha accanto l’amico Evan Parker e anche in un duo con Paul Bley del 1996 («Touché»), dove sarebbe stato il pianista a decidere che piega dare all’incontro. Ma in tutto ciò che realizza da leader in questo ampio arco di tempo, con gruppi piccoli o grandi e fino agli ultimi anni, domina la sua espressione più intensa e inconfondibile, contro quelle «leggi della natura» delle quali il jazzista della sua generazione era ancora abbastanza vittima. Il disco che succede al dittico ECM del 1990, «Kayak», inciso nel 1992 per la piccola etichetta britannica Ah Um, ne è la prima conferma. Un nuovo capolavoro del Wheeler polifonico, che qui utilizza un tentet composto da cinque ottoni, due ance, piano e sezione ritmica (tutto nelle mani di compagni fedelissimi), e una sorta di proiezione del precedente large ensemble in chiave più raccolta e antispettacolare. Le emozioni che viaggiano a mezz’aria si muovono entro un volume definito che le rende più scrutabili.
I pezzi sono per metà recuperati dal recente passato, e neppure scelti soltanto tra i già vocazionati a questo clima, quali senz’altro Gentle Piece, Old Ballad e Sea Lady. L’eponimo Kayak (nato con la Guildhall Jazz Band), che in quanto tema non lo sarebbe, lo diventa qui, e così i nuovi 5 4 6, See Horse e C Man (da cui si dirama quello che si chiamerà Mabel), tra loro piuttosto diversi, ma che nelle loro esecuzioni suscitano atmosfere fosche, quasi cupe o tutt’al più dolcemente crepuscolari. Esce un po’ dal contesto soltanto C. C. Signor, che si illumina di luce latina, data la dedica a Chick Corea.
Volutamente meno abbagliante di «Music For Large & Small Ensembles», «Kayak» è un disco rimasto un po’ nell’ombra essendo uscito per quell’effimera etichetta e poi mai più rieditato. Non se ne trova traccia neppure nei siti di recensioni. Fortunatamente la rete ci consente di ascoltarlo.
Per un bel po’ di tempo non è comunque la tipologia del lavoro pensato, accuratamente controllato, lo specchio più limpido dell’energia peculiare che Wheeler ha acquisito grazie al lungo accumulo congiunto di esperienza e vissuto psicologico. Forse non è un caso se a questa fase ne appartiene uno solo, l’ambizioso «A Long Time Ago» del 1997, realizzato con John Taylor, il chitarrista John Parricelli e un ensemble di nove ottoni soggetto a direzione (Tony Faulkner): ambizioso quanto «Music For Large & Small Ensembles» ma chiaramente frutto di un progetto congelato e riesumato come una reliquia. Ciò che più colpisce è una certa differenza di messaggio emotivo tra gli intervalli in cui suona solo il trio Wheeler-Taylor-Parricelli e le preponderanti parti con gli ottoni, che le frequenze metafisiche della musica wheeleriana sembrano trasmetterle irrigidite, asservite a un intento di sontuosità classicista. Lo avvertiamo soprattutto nell’eponima suite, della durata di oltre mezz’ora; ma neppure le altre esecuzioni vengono risparmiate da un certo effetto di pesantezza che devia la forza della composizione (esempio estremo, la gloriosa Gnu Suite del 1975). Wheeler ha rimesso in gioco la sua remota passion baroque con il preciso proposito di ricostruirne le condizioni di partenza, di renderle un omaggio letterale, inequivocabile, rinunciando alla mediazione dialettica che in altre occasioni lo avevano portato a derivarne opere tanto ricche di moderna vitalità (prime «Music For Large & Small Ensembles» e «Kayak»). Per altre vie, anche i due pezzi incisi in solo con overdubbing possono apparire estetizzanti: rimandare a quel modello di «sfida estetica» del jazz inaugurato, grosso modo, da Bill Dixon con i suoi Nightfall Pieces del 1966 (in duo con il flautista George Marge).
Ora il fenomeno autoriale di Wheeler si sarebbe invece riconnotato soprattutto come segno che plasma il contesto condizionandolo, per così dire, affettivamente. In questo senso assume importanza persino una registrazione con trumpet quartet, la prima dopo «Gnu High», realizzata nel 1993 con Taylor, Furio Di Castri e Joe LaBarbera e pubblicata solo quattro anni dopo nel cd «All The More» della Soul Note. Sezione ritmica di circostanza e disco stesso, volendo, creato con le poche pretese che competono al jazz di routine. Non si può dire che la situazione musicale appartenga a un’area limitrofa del jazz, né che Wheeler influenzi indistintamente gli svolgimenti delle esecuzioni. Wheeler, piuttosto, aderisce al caso concedendo abbondante spazio ai suoi compagni senza per questo rinunciare a farne un’epifania: accanto a un vigoroso rilancio di Mark Time, compaiono nuove composizioni destinate a permanere nei repertori wheeleriani, di cui almeno Phrase One, Introduction to No Particular Song e Nonetheless piuttosto significative per le rispettive esecuzioni, e in via eccezionale compare uno standard, Summer Night, nel quale ha sentito di poter riporre una mirata passione, dopo averlo eseguito più volte dal vivo come encore.
Caso in tutto opposto il cd «Angel Song» inciso per ECM nel febbraio 1996. Wheeler suona in quartetto con Lee Konitz, Bill Frisell e Dave Holland. Dunque un quartetto drummerless, idealmente cameristico, al quale partecipano due musicisti distanti dal suo mondo per generazione, cultura e forte connotazione di ciascuno, e una situazione che pone in termini assolutamente altri il problema del rapporto tra spirito wheeleriano e piccolo gruppo. Il grande valore di questo disco infatti è dato dal verificarsi di un «intreccio degli affetti» che approfondisce, altera, sofistica questa definizione – usata a proposito di trii di Bill Evans, Jimmy Giuffre, Paul Bley… Wheeler appare «più leader» che nel gruppo jazzistico di circostanza perché il carattere moody di tutte le composizioni presenti, tutte sue e tipicamente sue (sette nuove, più Kind Folk e Nonetheless), detta già in sé condizioni alle esecuzioni. Mentre sia Konitz che Frisell sembrano operare con la convinzione di chi esegue da leader musica di un altro leader, evidentemente amato, invitandolo nel gruppo. E ciò si verifica per entrambi nell’unità di tempo e di luogo che è ogni esecuzione, nessuna esclusa. Ovvero, in nessuna esecuzione manca il mondo di Konitz o quello di Frisell e in nessuna qualcuno dei due si astiene dal viaggiare in quello di Wheeler, che questa affermazione radicale della sua anima introspettiva sembra aver reso ancora più infettante.
Un filone moody di Wheeler compositore in realtà potrebbe anche non esistere: non ha comunque contorni precisi. Wheeler nel corso degli anni Novanta, senza modificare né la logica né la tecnica con cui compone, tende a strutturare le sue pagine con melodie più diradate che in passato e a selezionare dal passato le più adatte a riletture in questa direzione (unica eccezione Mark Time, che utilizza più spesso per siglare esecuzioni con tanta improvvisazione), insieme al privilegiare l’uso del flicorno, come abbiamo visto, fino a renderlo in più circostanze esclusivo. Ed è questo assetto espressivo d’insieme l’energia che da leader trasmette al gruppo. La situazione di «Angel Song» è significativa anche in quanto unica. Sono due altre registrazioni del periodo a indicare le tendenze chiave.
Anzitutto cinque pregevolissime esecuzioni incise al londinese Gateway Studio tra il settembre 1995 e il gennaio 1996 in sestetto, quintetto o quartetto con colleghi amici (Warleigh, Sulzmann, Parricelli…), dove compaiono tre titoli in comune con Angel Song (Kind Folk, Unti e Nonetheless), ma l’elemento moody cede piuttosto il passo a un lirismo più pacatamente riflessivo, e con questo spirito Wheeler si appropria di un altro pezzo prelevato dalla tradizione del jazz, A Flower Is a Lovesome Thing di Billy Strayhorn (esecuzioni pubblicate insieme ad altre successive nel cd «Dream Sequence, prodotto da Evan Parker per la sua Psi).
Quindi il cd «Still Waters» del 1998 (oggi ristampato da Dodicilune), in duo con il pianista canadese Brian Dickinson, dove Wheeler, influenzando non poco, si direbbe, anche le composizioni a firma del partner (circa metà repertorio), sfocia in una fluida, sensibilissima musica moderna per flicorno e piano. Musica piuttosto no genre che solo l’individualità/informalità dello strumentismo di Wheeler rivela discendente dalla cultura del jazz.
Il Wheeler del nuovo millennio sembra dunque disporre la parte più significativa della sua produzione su due coordinate relativamente distinte dell’espressione cameristica: duetti o trii con pianoforte, rapportandosi sempre al ricco, articolatissimo pianismo di John Taylor, e piccoli gruppi drummerless in cui condividere scorci di polifonia con altri fiati o chitarre o, vedremo, anche archi. Alle grosse formazioni ricorre in casi eccezionali e soprattutto quando il proposito è di ospitare espressioni altrui (come nello scintillante concerto tenuto a Londra per il suo settantacinquesimo compleanno, al quale danno contributi significativi Lee Konitz, Norma Winston, Evan Parker…).
Nei primi lavori con Taylor, tutti di forte carattere e nessuno del delicato no genre di «Still Waters», i due musicisti operano in regime di parità dalla presenza strumentistica alla paternità delle composizioni, apparendo come due totalità che si giustappongono in un olimpico equilibrio. Nel cd «Moon», inciso a Perugia per la Egea nel febbraio 2001, è piuttosto la presenza del clarinettista Gabriele Mirabassi, limitata a tre pezzi, a spostare l’asse verso un camerismo più levigato, quando il dialogo Wheeler-Taylor si muove su un lirismo informale, a tratti grave e non privo di spigolosità né di qualche suggestione sperimentalista. Il successivo «Overnight», inciso nel novembre dello stesso anno per la parigina Sketch con l’aggiunta del contrabbassista Riccardo Del Fra in tutti i pezzi (e dove in copertina il nome di Taylor compare per primo e in un pezzo il pianista suona solo con Del Fra), Taylor e Wheeler si accordano come compositori e come esecutori su un lirismo appena un po’ più impregnato di negatività (al quale allineano anche il tenero Old Ballad, ma in una versione particolarmente mesta), e Del Fra lo cattura prevalentemente in pieno.
Poi è la volta del capolavoro, il cd «Where Do We Go From Here?», inciso per la Cam nel febbraio 2004, che vede i due senza terzi, coinvolti in un dialogo straordinariamente sfrondato di certi passaggi un po’ calligrafici del pianista, e lo strumentismo di Wheeler a un’indubbia vetta di espressione. Wheeler prevale anche come regista del disco, ponendo in apertura il suo amato Summer Night, una versione memorabile, riempendone quasi l’intero repertorio di sue composizioni, tutte nuove tranne Mabel (tema germogliato come finale del pezzo C Man del 1992), e anche ripristinando un lirismo più sognante. Nasce qui il primo tema della serie dei Canter (Canter n. 1), che non sono affatto «galoppate», ma temi che il movimento lo sottintendono attraverso la strategia tipicamente wheeleriana di adagiare linee melodiche distese su ritmi articolati, in fondo neppure irrequieti. Solo i due pezzi di Taylor (soprattutto l’artificioso Au Contraire) provocano reazioni centrifughe: altrove Taylor pianista vive questa situazione con evidente passione. Le due successive date della coppia Wheeler-Taylor, entrambe per la Cam e di grande valore, pur lasciando insuperata la precedente, ci danno soprattutto la misura di quanto Wheeler incarni qualità esclusive dell’uomo del jazz nell’accezione che più attribuisce al jazz autonomia e non autarchia: quanto la «situazione» dia un destino alla sua ispirazione, indipendentemente da quanto risieda nel lessico del jazz la composizione. La prima, del 2005 (pubblicata una decina di anni dopo nel cd «On The Way To Two»), appare grosso modo un rimbalzo di quella del 2004, di cui, per circostanze inqualificabili, non possiede la forza – è una seduta più breve e comprendente anche tre pezzi di libera improvvisazione quasi nell’ordine del sound piece. La seconda, del 2006 (pubblicata cinque anni dopo nel cd «One Of Many»), con l’aggiunta del basso elettrico di Steve Swallow, ci fa ascoltare un Wheeler più affine a quello del passato, che i confini di genere del jazz li sfibra per lirismo. Motivo per cui il disco è pregevolissimo da tutti i punti di vista. L’altro versante cameristico decolla con passo più incerto e a partire da circostanze in cui Wheeler non è neppure leader. Prima in ordine cronologico la collaborazione, iniziata nel 2000, con un trio comprendente Marc Copland e John Abercrombie, con il quale incide due splendidi cd («That’s For Sur»e nel 2000 e «Brand New» nel 2004) e suona più volte dal vivo. In questo raffinatissimo chamber jazz amministrato soprattutto dal gusto impressionistico di Copland (l’ordine dei nomi riportato sulle copertine è Copland, Abercrombie, Wheeler) si inserisce come una voce di contrasto, ma che ne rispetta il più possibile lo statuto. I suoi bagliori di luce imperfetta appaiono spesso smorzati e forse non godrebbero della loro naturale facoltà di espandersi senza l’opportuna mediazione di Abercrombie. Stabilisce invece qualche esile legame alle belle esecuzioni del biennio 1995-96 la musica di un altro trio, in cui Wheeler figura come terzo nome dopo quelli degli amici Stan Sulzmann (sassofoni e flauto) e John Parricelli (chitarre acustica, elettrica e synth). Un solo cd inciso («Ordesa», nel 2001 per la britannica Symbol), nel complesso non eloquente come i due con Copland e Abercrombie, e di peso parziale per Wheeler, nonostante tutto. Più che le sue tre nuove composizioni, spicca una nuova, raccoltissima versione di A Flower Is a Lovesome Thing. È evidente che su questo fronte ha ancora una volta bisogno di tempo per organizzare le sue idee.
Forse per questo, prima di riprendere il discorso, passa nuovamente per un quartetto drummerless con due fiati, formula che evidentemente lo rassicura: un nuovo cd per la Cam, «What Now?», inciso nel 2004 con il brillante e versatile Chris Potter al sax tenore e i fedeli Taylor e Holland. La bellezza delle composizioni (tra cui For Tracy, nata in «Where Do We Go From Here?»), delle esposizioni armonizzate dei loro temi e degli assoli di Wheeler è ancora una volta contestualizzata da quella di magniloquenze altrui e che portano un po’ altrove: di Potter senz’altro, ma volendo anche di Taylor. Nulla in comune con la situazione del quartetto di «Angel Song».
Del resto, se a Wheeler capita periodicamente di perdere di vista ciò che occorre all’espressione piena della sua musica, soprattutto combinandosi la sua perenne insoddisfazione al suo spontaneo inseguire nuove idee, ora è giunto al punto di immaginare un piccolo gruppo che faccia da cassa di risonanza al clima emanato dalla composizione: un piccolo gruppo che potrebbe quindi essere completato da partner jazzisti, ma soggetto ad arrangiamenti dettagliati come quelli per big band, oppure da esecutori di studio o di estrazione accademica adatti a interpretare scritture che unifichino composizione e arrangiamento anche fuori dagli ortodossi canoni classici. Due ipotesi che hanno nuovamente messo alla prova la sua capacità di determinatezza e con risultati di assoluto rilievo.
L’ipotesi «jazzistica» la concretizza riunendo un quartetto con due chitarre in alternanza acustiche ed elettriche (Parricelli e Abercrombie) e un contrabbasso (Chris Lawrence), gruppo che collauda dal vivo e immortala (con lo svedese Anders Jormin al posto di Lawrence) nel cd del 2005 «It Takes Two» (inciso per la Cam).
È di gran lunga il suo lavoro più introspettivo, più lirico, e forse l’ambientazione ideale del suo spirito musicale del periodo nell’intera esecuzione. Adopera esclusivamente il flicorno, in molte composizioni si ispira a una melanconia mediterranea e nel repertorio inserisce anche una breve fanfara per flicorno solo in overdubbing, una versione di Love Theme from «Spartacus» per sole corde, dove quindi non suona, e due pezzi di improvvisazione di gruppo condotti con una certa regia: i soli ad essere oggetto di sola regia di massima anziché di dettagliato arrangiamento. Mai Wheeler aveva gestito così un piccolo gruppo. Eppure non può essere che questo ad avergli consentito di creare a breve distanza da «Where Do We Go From Here?» un capolavoro per molti aspetti ad esso complementare. Lì c’è il jazz, spinto oltre i suoi confini dall’energia di valori che si combinano (le composizioni e il dialogo fra due totalità di espressione strumentistica); qui c’è la «musica di» Wheeler, sintomatica anche quando Wheeler non suona né ha composto lui, e pur trattandosi, appunto, di un organico che rende riconoscibile l’individualità strumentistica di ogni membro.
Da questo specifico punto di vista, «It Takes Two» supererebbe il successivo cd «Other People», inciso sempre per la Cam pochi mesi dopo con Taylor e il quartetto d’archi classico Hugo Wolf String Quartet. Ma da questo specifico punto di vista, condizionato da affezione – jazzofila – ai suoni singolari. Altrimenti «Other People» è giusto vederlo accorpato ai due precedenti in un trittico di capolavori tra loro complementari. Nella maggior parte delle esecuzioni Wheeler, con o senza l’assistenza di un Taylor impeccabile e non di rado simpaticamente classicista, si combina al quartetto in forma concertante, suonando con la sua espressione strumentistica al naturale questi temi nuovi, tutti riflessi articolati del suo filone più mesto, sulle loro estensioni composte e arrangiate per il lavoro del quartetto. Ma qui l’effetto «musica di» Wheeler, che nella composizione ha sempre un epicentro solido, investe le due composizioni per solo quartetto con la stessa limpidezza in assenza di quel suono di tromba o flicorno e in presenza di richiami lessicali preromantici. Ascoltando certi passaggi dell’esteso String Quartet N. 1, si sfiora la sensazione di ascoltare una tipica esecuzione wheeleriana per gruppo jazzistico.
Dopo queste date, o forse quella dell’ultima spettata al duo con Taylor (il cd del 2006 con ospite Steve Swallow), Wheeler dirada la sua produzione, soprattutto di lavori a suo nome, e non si muove più in direzioni granché divergenti dal jazz. Fa il «suo» jazz, che cosiddetto jazz non lo è di per sé, e mettendo a frutto anche la recente esperienza che lo ha condotto a quel livello desiderato e per lui opportuno di influenza della composizione sull’esecuzione.
Si potrebbe per questo considerare sua opera testamentale un nucleo di nuove composizioni votate all’esecuzione jazzistica ma fitte di dettagli distribuiti tra melodia, armonia e ritmo che le rendono ciascuna passibile di un’importante influenza sull’esecuzione. Composizioni in tal senso «studiabili», che meritano «studio» come esempi di un paradigma delle pratiche contemporanee del jazz e, nelle loro singolari concretezze, esempi elevatissimi di poesia wheeleriana.
La quasi totalità di queste composizioni (Seven Eight Nine, Canter N. 6, The Long Waiting, Four Five Six, Ballad N. 130 e Upwards) la vediamo nascere in una seduta del 2008 in sestetto con Sulzmann e Bobby Welling ai sassofoni, Taylor, Chris Lawrence e l’acutissimo batterista Martin France, scoperto da Taylor; la felicissima seduta corrispondente al cd «Six For Six» che la Cam, non si sa perché, sfodera solo nel 2013. Ma lo stesso materiale ricompare quasi intatto nel cd orchestrale «The Long Waiting» del 2011 (che la Cam pubblica invece in pochi mesi): un solo titolo (Ballad N. 130) viene sostituito da uno nuovo (Enowena) in funzione di questo organico di diciotto elementi, con il quale Wheeler riprende aggiornato il discorso di Music For Lange & Small Ensembles», compreso l’uso strumentistico del canto (qui dell’italiana Diana Torto). Musica che attira l’aggettivo di «gustosa».
Nel dicembre 2013, a scarsi ottantaquattro anni e in condizioni di salute piuttosto critiche, Wheeler entra per l’ultima volta in studio di registrazione (gli Abbey Road Studios di beatlesiana memoria), con accanto Sulzmann, Parricelli, Chris Laurence e Martin France. Quattro stretti compagni di strada, tre di vecchia data e uno che lo ha giustificatamente entusiasmato dalle prime prove. Nel repertorio inserisce ancora nuove composizioni, tutte in vario modo di dominante pensativa, anzi melanconica, e le colloca accanto ad alcune preesistenti che sembrerebbero selezionate per estendere all’intera seduta un principio di «sintesi organica» di camerismo e proprietà del jazz; camerismo nonostante l’impiego di un quintetto provvisto di batteria. Questo potrebbe anche essere l’atteggiamento di un Wheeler che non sa quanto gli resta da vivere: ci avrebbe lasciati nel settembre 2014. Ma di segni di stanchezza ne riconosciamo tutt’al più nella sua prestazione strumentistica. Suona con meno energia e quantitativamente un po’ meno, ma non con meno espressione. Non fa mai vacillare l’equilibrio di queste esecuzioni, ancora tali da confermare in tutti i sensi la sua unicità e la sua grandezza di musicista.
Forse dice qualcosa che il cd «Songs For Quintet» ricavato da questa seduta sia uscito da casa ECM, prodotto da Eicher insieme al critico inglese Steve Lake.