Il fiume in piena dell’afrofuturism dilaga a New York

I due mesi di festival alla Carnegie Hall istituzionalizzano, per così dire, la portata del fenomeno

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Come un fiume ormai in piena che trova sfogo e straripa dilagando dappertutto, l’Afrofuturism si diffonde fra le strade di quella che potremmo definire come la sua città d’adozione: New York. Che in fondo la metropoli americana sia stata «afro-futuristica» da sempre è quasi un dato di fatto: il mescolamento di etnie diverse, la centralità culturale di matrice afroamericana (contesa forse dalla sola Chicago), l’attenzione per ogni forma artistica «deviante», la propensione verso il futuro «whatever it takes», il livello perlomeno decente del rispetto verso la comunità di colore e le sue più disparate espressioni (certamente superiore ad ogni altra città degli States), sono componenti inalienabili di un territorio assolutamente fertile per il radicamento di quella che è la forma artistica multidimensionale più forte dei nostri tempi. Dall’Africa si parte, dunque, e sempre all’Africa si ritorna, anche per vie traverse, scorciatoie, stati alterati, visionarietà a trecentosessanta gradi. Gli «sciamani» che hanno reso inarrestabile questo movimento hanno nomi ormai consolidati, ma che un tempo erano quantomeno discussi, se non bistrattati: Sun Ra, Samuel R. Delany, Jean-Michel Basquiat, Melvin Van Peebles, George Clinton. Jazz, funk, letteratura di fantascienza, arte visiva, cinema, danza, dunque: ogni forma creativa che sia plasmabile con depistaggi allucinati. Il ritmo innanzi tutto. Ecco che quei nomi hanno oggi i loro eredi naturali in Damon Locks, Octavia Butler, Janiva Ellis, Kendrick Lamar, Black Panther. Assistiamo allora alla nascita di una nuova mitologia, con i suoi dei e i suoi eroi, che probabilmente avrà lunghe e insospettabili diramazioni nel tempo. Se un’istituzione così importante come la Carnegie Hall ha finalmente promosso, in un tempo di pandemia via via dileguante, un festival di ben due mesi, collegandosi ad altri luoghi culturalmente attivi, come gallerie, teatri, cinema e centri artistici d’ogni genere, allora vuol dire che l’Afrofuturism è entrato decisamente a fare parte del tessuto connettivo della società americana, in una prospettiva che non può ormai essere disconosciuta a livello planetario. I mesi di febbraio e marzo di quest’anno sono stati investiti da questo fiume in piena: se è stato difficile seguire tutti gli eventi, sia dal vivo che in streaming, di sicuro l’immersione è stata totale e per molti aspetti gratificante. L’indice dell’alto livello d’attenzione generale si è avuto con il concerto d’apertura alla sala grande della Carnegie: un tutto esaurito per l’esibizione di Flying Lotus. È da parecchi anni che seguiamo Steven Ellison (questo è il suo vero nome), con la curiosità che è dovuta a quello che è ormai un fenomeno di massa. Riempire i 3.000 posti del leggendario Stern Auditorium, che da Čajkovskij in poi ha visto sul suo palcoscenico tutti i più grandi nomi della musica sulla faccia della Terra, non è certo da tutti. Se poi si considera che il nostro loto volante altri non è che un intelligente manipolatore di suoni elettronici, con un occhiolino sempre bene aperto sulla messa in scena e le luci, allora qualche perplessità insorge, visto che i suoi dischi sono certamente più complessi e accattivanti. Vestito interamente di bianco, con aria da santone indiano davanti ad una grande consolle piena di fiori, pareva più un residuato del flower power californiano degli anni sessanta che un innovatore del linguaggio musicale afroamericano dei nostri tempi. Coadiuvato dal violinista Miguel Atwood-Ferguson e dall’arpista Brandee Younger, la quale è in piena ascesa anche lei sulla via dello stardom, Ellison (che è anche il cugino di Ravi Coltrane) ha creato una magnifica, iridescente, scatola vuota, dove ognuno per circa un’ora si è potuto rannicchiare dimenticando il resto del mondo. Successo palpabile, dunque, ma più come sostituto di oppiacei che come iniezione di creativa adrenalina. 

Le cose sono andate molto meglio nelle settimane seguenti, con l’orchestra di Sun Ra, diretta da un immarcescibile Marshall Allen, ma con l’innesto della poetessa Moor Mother, quindi con il Black Earth Ensemble della straordinaria flautista Nicole Mitchell e la stravolgente clarinettista-cantante Angel Bat Dawid, poi con Mwenso and the Shakes, Carl Craig, Theo Croker. Tutto ciò per rimanere solo nell’ambito della Carnegie Hall, ma come si è detto, molti altri eventi, non di natura musicale, hanno costellato il programma di questo grande festival. L’enorme caleidoscopio dell’Afrofuturism ci pone, allora, varie domande nei suoi iridescenti e contrastanti punti vista: consideriamoli pure come incroci di linguaggi diversi con semafori impazziti. La cultura afroamericana può ritrovare ancora una volta se stessa in una dimensione psichedelica accostandosi ad esperienze sonore anche distanti dalla sua natura originaria? E questo nuovo flusso che arriva e tocca in maniera trasversale tante fonti culturali avrà un suo effettivo consolidamento, tale da marcare indelebilmente almeno questi anni Venti del XXI secolo? È difficile, forse impossibile dare ora una risposta compiuta: siamo nel mezzo della corrente e stiamo nuotando. A venirci incontro ci sono altre affascinanti iperboli musicali che originano da radici di diversa specie, ma che sono altrettanto vive e che possono indicare strade alternative, anche – perché no? – non estranee alle stesse direttive dell’Afrofuturism. Nello stesso periodo e subito dopo ci sono due festival di musica contemporanea: l’Ecstatic Music alla Merkin Hall, ormai un classico, sempre interessante, del quale ci siamo occupati più volte e il Bang On A Can festival «Long Play» a Brooklyn a fine aprile. 

Dunque molte sono le confluenze e le correnti musicali che interagiscono nel territorio newyorkese in questo periodo, che forse rappresenta di per sé la voglia di tornare a galla dopo anni di involontaria sommersione. L’Afrofuturism è il movimento più forte e con maggiore seguito anche da parte del pubblico più giovane. C’è un evidente bisogno di uscire «fuori strada», e forse anche di allontanarsi da una realtà fin troppo opprimente: del resto la storia ci insegna che in tempi e modi analoghi sono nati alcuni dei movimenti artistici più importanti nel passato. Non resta che seguire gli eventi con attenzione, magari lasciarsi meravigliare, incuriosirsi, e forse trovare qualcosa di veramente compiuto, senza tanti orpelli e velature, che possa gratificare appieno il nostro costante bisogno di novità culturali rigeneranti. Dopo che siamo andati a farci il bagno da Baxter, come dicevano in modo paradigmatico i vecchi Jefferson Airplane. Che venga un giorno anche il loro ritorno in auge? Improbabile, ma non si sa mai.

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