Highest 2 Lowest: il noir senz’anima di Spike Lee

Tante buone intenzioni – e la presenza di Denzel Washington – suscitavano grandi speranze, ma il risultato è deludente e fin troppo patinato

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La scena finale del nuovo film di Spike Lee, Highest 2 Lowest, – dal 5 settembre scorso su AppleTV – in cui David King (Denzel Washington) e il rapper Young Felon (A$AP Rocky) si incontrano in carcere, racchiude la sua chiave di lettura: un confronto che diventa allegoria dell’America contemporanea, dove la musica non è più linguaggio di liberazione ma prodotto volatile, e i social media sono la nuova gabbia culturale.

Stavo contando i giorni e avevo segnato sul calendario la data del 5 settembre. Highest 2 Lowest: il nome di Spike Lee in regia, Denzel Washington protagonista, un soggetto tratto da Ed McBain già passato dalle mani di Kurosawa. Gli ingredienti erano perfetti e l’attesa era carica di promesse. Un grande autore decide di confrontarsi con un classico. Ci si aspetta una scintilla, un nuovo approccio alla visione di un vecchio film. Un po’ quello che era accaduto con Per un pugno di dollari di Sergio Leone. Nella mia idea avrei visto un film che doveva essere il ritorno alla rabbia, alla lucidità, alla potenza visionaria di un regista che aveva fatto della strada e delle sue contraddizioni il proprio territorio naturale. E invece lo schermo ha restituito altro: una black comedy debole, incerta nei toni e avvolta da una patina di leziosità che soffoca la tensione narrativa. Un film elegante nell’aspetto ma povero di urgenza, in cui il nome del regista pesa più del suo contenuto. 

Highest 2 Lowest

La trama è nota e si basa su un intreccio classico: David King, magnate della musica, che mira a riconquistare il controllo della sua etichetta discografica, la Stackin’ Hits, si ritrova a fronteggiare un rapimento sbagliato – invece di suo figlio rapiscono quello del suo autista, interpretato da Jeffrey Wright – che lo costringe a scegliere tra la sua fortuna e la vita di un ragazzo che non è il suo. Una scelta morale difficile. Il romanzo di partenza è un ormai classico police procedural di Ed McBain, King’s Ransom, decimo romanzo della lunghissima saga dell’87° Distretto, pubblicato nel 1959 e tradotto poco dopo in italiano col titolo Due colpi in uno. Il libro aveva già ispirato Akira Kurosawa per il suo film del 1963, High and Low, (uscito in Italia come Anatomia di un rapimento). La dichiarata intenzione di Lee era quella di rileggere il testo di partenza alla luce dell’America contemporanea, ma il risultato appare indeciso: troppo caricaturale per essere drammatico, troppo imbalsamato per essere davvero una satira corrosiva. La tensione si perde in scene stiracchiate, l’umorismo in gag prevedibili, la critica sociale in osservazioni didascaliche.

Se Sergio Leone seppe reiventare Kurosawa spingendo il western dentro la leggenda – ispirandosi a Yojimbo (in italiano La sfida del Samurai) – per costruire un cinema epico, mitico, dominato dalla musica di Morricone, se David Simon e George Pelecanos hanno trasformato il noir televisivo in cronaca sociale con The Wire, Spike Lee qui sembra incapace di imprimere una direzione. Né mito né realismo, solo un compromesso estetico che non trova identità. Eppure un attore come Denzel Washington meriterebbe ben altro. La sua carriera è una galleria impressionante di ruoli diversissimi e sempre incisivi. Lo abbiamo visto freddo e implacabile nella trilogia di The Equalizer, in cui riusciva a trasformare tre revenge movies convenzionali in una prova di carisma glaciale. Lo ricordiamo premio Oscar in Training Day di Antoine Fuqua, in cui scolpì un poliziotto corrotto e magnetico, ambiguo e spietato, che ancora oggi resta uno dei suoi personaggi simbolo. E di recente ha prestato la sua autorevolezza a Il gladiatore II rafforzando, con la sua presenza, un contesto da colossal hollywoodiano. Washington ha sempre saputo plasmare la materia che gli veniva affidata, anche quando non era di primissima qualità. Ma in Highest 2 Lowest la scrittura lo tradisce: il suo David King rimane imbrigliato in un cliché, privo della tensione morale che un attore del suo calibro avrebbe potuto amplificare. È un gigante costretto a muoversi in una cornice troppo fragile e, pur restando grande, appare meno incisivo di quanto dovrebbe, penalizzato da una messa in scena che non lo valorizza.

Highest 2 Lowest

A sorprendere, semmai, è A$AP Rocky nel ruolo di Young Felon. La sua interpretazione porta un soffio d’aria fresca, un’eco della strada che si fa sentire almeno per qualche minuto. Rocky riesce a incarnare quella tensione tra autenticità e spettacolo, tra ribellione e brandizzazione, che il film avrebbe potuto sviluppare come asse portante. Ma resta un lampo isolato, un guizzo che non basta a tenere in piedi un racconto che altrove si affloscia.    

La musica, nei film migliori di Lee, era un personaggio a sé. Il jazz di Mo’ Better Blues, il rap di He Got Game, persino il gospel di Chi-Raq, suoni che non accompagnavano ma spingevano in avanti la narrazione. In Highest 2 Lowest, invece, il funk di James Brown, il rap più stradaiolo, la salsa di Eddie Palmieri, Ain’t No Stoppin’ Us Now di McFadden & Whitehead, non diventano mai motore, restano cornice decorativa. La colonna sonora colpisce l’orecchio, ma non scuote, non incide.

E lo stesso accade per i social media. Nel film sono onnipresenti, invasivi, capaci di trasformare il rapimento in spettacolo virale. Eppure, anziché essere detonatori di senso, rimangono ridotti a cliché: basta un hashtag, un’inquadratura di un telefono, un accenno a una diretta per suggerire la dittatura dell’immagine. Ma la critica resta superficiale: non graffia, non colpisce, non lascia traccia. 

Highest 2 lowest

Il dialogo in carcere tra Young Felon (A$AP Rocky) e David King (Denzel Washington) è, almeno sulla carta, il cuore del film. Da un lato il rap come sogno, trasformato in business tossico, dall’altro il magnate che ha visto la musica ridursi a merce volatile. In quel dialogo c’è tutta la contraddizione dell’America di oggi: il talento che diventa prodotto, il rap che da voce di strada si trasforma in brand. L’ingerenza dei social, lo streaming, la musica liquida, un universo in cui conta più l’apparire che il suonare. E la società è prigioniera degli schermi. È un finale amaro che rovescia il noir classico in commedia tragica in cui non c’è giustizia, non c’è redenzione, c’è solo un paese riflesso nei suoi fantasmi digitali. È il momento in cui la commedia nera poteva diventare tragedia morale Eppure, anche qui, la scrittura manca di profondità. Le battute scorrono didascaliche, la tensione non decolla. Quella che avrebbe potuto essere la scena memorabile del film resta un epilogo sprecato, incapace di chiudere con forza o di restituire l’urgenza politica che ci si aspettava. Ed è qui che emerge il vero problema. Spike Lee sembra aver perso (ma non da oggi) il contatto con ciò che lo aveva reso unico: la strada, la comunità, l’urgenza. Dove c’era la poesia indipendente e audace di Lola Darling e la rabbia incendiaria di Do the Right Thing oggi c’è un cinema levigato, elegante, ma lontano dalla realtà che pretende di raccontare. Su tutto aleggia una patina di leziosità: movimenti di macchina calcolati, colori raffinati, musiche inserite come ornamento più che come carne viva. È cinema che si compiace della propria confezione, più interessato alla posa che al graffio.

La delusione arriva fino ai titoli di coda, chiusi da una sorprendente Prisencolin (Americano Joint), la rivisitazione internazionale del celebre nonsense di Adriano Celentano. Per ottenerne i diritti, Lee è volato di persona in Italia, bussando alla porta del «molleggiato» per avere l’autorizzazione. Un gesto che racconta la passione di un regista ancora capace di inseguire intuizioni folgoranti, ma che rende ancora più amaro il contrasto con il film che precede quella scelta musicale: un’opera raffinata in superficie, ma senza il mordente che ci si aspettava.

Highest 2 Lowest non è l’epica di Leone, non è il realismo di Simon e Pelecanos, e non è nemmeno la commedia nera corrosiva che prometteva. È un film elegante e patinato, ma svuotato della rabbia e della poesia che hanno reso Spike Lee un autore indispensabile. La delusione è bruciante proprio perché l’attesa era alta. Non basta la grandezza di Denzel Washington, non basta il lampo di A$AP Rocky, non basta evocare Kurosawa o Celentano. Quello che manca è l’urgenza, la necessità di raccontare qualcosa che non sia solo spettacolo, ma vita. Spike Lee sembra oggi un autore che vive più della propria aura che della propria fame. E questo, per chi non vedeva l’ora di rivederlo in azione, è la ferita più profonda.

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