Ethan Iverson, pianista divenuto famoso come co-fondatore del trio leaderless The Bad Plus (che ha lasciato nel 2017), non è soltanto un musicista, ma anche una figura di pensatore a tutto tondo, titolare di un blog assai apprezzato, Do The M@th, dove si alternano interviste, saggi (non soltanto di carattere musicale su jazz e classica, ma anche relativi a opere di narrativa poliziesca), lezioni, partiture e analisi musicologiche. In questa intervista – che trae la propria occasione dall’esordio in casa Blue Note – conferma in modo assai lucido e coerente la centralità, nella propria visione, di alcune coordinate artistiche, che contribuirono alle fortune personali e di quel trio: la scomposizione e ricomposizione, entro un originale melange, di influenze, spunti variegati e materiali «altri»; la trasfigurazione delle componenti d’origine; il senso teatrale e dello humour. Pure il suo non è – e non è mai stato – semplice citazionismo postmoderno, né pigra importazione entro il perimetro «jazz» di materiali allogeni: questo atteggiamento è parte di una precisa cultura. Iverson non rinuncia ad affermarla, con forza quieta da intellettuale.
Ethan, cosa puoi dire ai lettori del tuo nuovo trio e dell’album appena pubblicato? A quale nuovo stimolo artistico rispondono?
Dopo aver lasciato i Bad Plus ho avuto molta più testa per scrivere musica e ho sorpreso me stesso, componendone molta di più. Quasi non è passata una settimana in cui non abbia pensato ad una melodia e l’abbia scritta. I brani di «Every Note Is True» sono tra i migliori. La pandemia ha chiuso molte porte, ma ne ha aperte anche alcune altre. Avevo sempre desiderato suonare con Jack DeJohnette, e dato che nessuno aveva concerti, Jack ha avuto modo di incontrare me e Larry Grenadier in studio per due giorni. Così ho scelto della musica relativamente facile, che potevamo imparare velocemente e registrare in modo appassionato. Poi c’è il brano di apertura, The More It Changes, che è una novelty song fatta con gli amici, la maggior parte dei quali non ho visto di persona tutto l’anno ma che mi hanno mandato dei messaggi vocali con la loro sovraincisione. Alla fine, uno deve cercare di adattarsi a qualsiasi circostanza.
Come hai formato il trio? Vi siete trovati spontaneamente o c’era già un piano?
Avevo lavorato un po’ con Larry, è nel mio disco con Lee Konitz. Per molti, è il bassista «di classifica» della sua generazione. La prima volta che l’ho visto suonare era con Joe Henderson, al Fat Tuesday’s: forse nel 1993 o giù di lì. Era estremamente giovane ma già faceva tutto alla grande: Larry è un serio virtuoso, ma crede anche nella funzione tradizionale del basso. Vidi Jack DeJohnette per la prima volta dal vivo all’Orchestra Hall di Minneapolis, con Keith Jarrett. Avrò avuto dodici anni. L’esperienza fu così profonda che da spingermi a comprare un set di batteria il giorno successivo. È uno dei più grandi batteristi di tutti i tempi, punto e basta.
Incidere per la Blue Note può considerarsi un punto di arrivo, in questo momento, per te e per la tua carriera?
Ovviamente sì. È molto strano per me pensare a tutto questo, perché non riesco a credere a quanto sono stato fortunato: I Bad Plus debuttarono per la Columbia quando l’etichetta era ancora una vera forza per il jazz, grazie a Yves Beauvais, che in quel periodo era responsabile del settore Artists & Repertoire. Amo Manfred Eicher ed ECM, e i progetti che ho realizzato per loro sono state esperienze meravigliose, forse soprattutto la seduta in duo con Mark Turner, per la quale Manfred, in studio, ci ha offerto un notevole riscontro. Più di recente ho dato il nastro di «Bud Powell In The 21st Century» a François Zalacain, che lo ha fatto uscire per il catalogo Sunnyside, che Dio benedica anche loro. Il catalogo Blue Note non ha rivali l’umanità intera ama i loro classici! Ma ammiro anche molto la convinzione di Don Was, ovvero che la musica non smetta mai di crescere. È riuscito a curare un’etichetta che non si riposa sugli allori, e per questo rimane importante. Devi credere nella musica più che nella carriera: se ti siedi tutto il giorno a preoccuparti della carriera, non farai la musica che devi fare. Tuttavia, lasciare i Bad Plus è stato un rischio per la mia carriera, questo è un fatto oggettivo. Pubblicare ora un disco con la Blue Note è la prova che lasciarli è stata la giusta decisione.
Quali sono le tue fonti di ispirazione, sia interne sia esterne al fatto musicale?
Conosco tutti i pianisti jazz, ma amo anche altre cose. Quando mi metto in relazione con la letteratura, con i film o con la televisione, questo mi aiuta a vedere che i parametri del «genere» non sono restrittivi, ma liberatori. Mi piacciono i generi. Alcune persone non credono in essi e vorrebbero vivere una vita «genre-free». Questa prospettiva non mi interessa. Sono più il tipo di persona che si chiede: «Qual è il genere?» Se sappiamo di che genere si tratta, allora possiamo riempire il contenitore con il materiale giusto. Tutto ciò che è «nuovo» è una combinazione di cose precedenti. Ciò che conta davvero è quanto conosci bene ogni elemento che stai combinando. Se stai scrivendo un romanzo poliziesco che riguarda anche il soprannaturale, devi chiederti quanto bene conosci il genere «soprannaturale» e quanto quello «poliziesco». Le persone spesso conoscono un aspetto più dell’altro. Questo è sempre stato un problema nelle arti, ma ora che siamo nell’epoca postmoderna del XXI secolo, tutto è a portata di un clic. Tutto è mescolato. La domanda è quanto bene puoi controllare tutti gli aspetti che stai collegando al prodotto finale. A volte, uno studente di musica del college dice: «Non voglio essere etichettato. Non chiamarlo neppure jazz; è tutto oltre categoria». Lo riconosco, lo capisco, ma allo stesso tempo, ogni singola frase che puoi suonare su uno strumento è una discendenza, quindi devi chiederti in quale eredità ti poni. E se conosci il tuo lignaggio, puoi accettarlo o lavorare contro di esso. In ogni caso, alcune delle mie numerose influenze pianistiche evidenti sono Thelonious Monk, Paul Bley, Mal Waldron e Frederic Rzewski.
Quanto è importante avere dei mentori? E riferirsi a un maestro è necessariamente un fatto reale, o può essere anche un ideale?
Posso onestamente dire che i maestri sono sottovalutati. Non sto scherzando: finché non ti sei misurato con un maestro non ne sai niente! Nella mia vita, Billy Hart è la persona cui devo di più. Non sapevo nulla di jazz finché non ho iniziato a suonare e parlare con lui.
Secondo Craig Taborn «la tradizione musicale africana americana è innovazione: sono la stessa cosa». Cosa ne pensi? Si assume un punto di vista diverso se si fa parte della comunità africano-americana?
Non c’è jazz senza la tradizione africano-americana, proprio no. Craig può parlare di questo argomento in modo più eloquente di me, ma sono d’accordo sul fatto che in qualche modo la comunità sia importante: ma anche il presente è importante-. A proposito, amo Craig.
Ma, più precisamente, qual è la tua tradizione? Ha a che fare di più con la musica classica dei compositori americani ed europei?
Riuscivo sempre a leggere bene la musica, e se le carte che avevo in mano mi fossero state distribuite in modo diverso, forse avrei potuto essere un pianista classico o semplicemente un compositore. Tuttavia, nella musica americana, qualsiasi cosa può adattarsi a qualunque situazione, se gli elementi sono nella giusta proporzione. Parte di ciò che mi caratterizza come musicista sono – ovviamente – gli elementi classici europei. In effetti, credo che nessun altro pianista «jazz» abbia fatto esattamente quello che ho fatto in «The Rite Of Spring» dei Bad Plus, che è semplicemente leggere – e suonare – una partitura di migliaia di note insieme a una forte sezione ritmica. Ma nella mia estetica c’è anche un bel pizzico di rock radiofonico degli anni Ottanta, temi televisivi e pop melodico à la Burt Bacharach.Per quanto ogni tipo di musicista africano-americano utilizzi anche questi elementi, essi vengono tradizionalmente considerati generi «bianchi» e probabilmente aiutano a rendere la mia interpretazione valida e interessante. Tutti i migliori musicisti suonano ciò che sono. La razza può essere una falsa pista. In termini puramente musicali, io suono molte triadi. Molti dei miei coetanei suonano di rado le triadi pure. Durante la seduta, Jack DeJohnette mi ha detto: «Suoni molte triadi. È davvero diverso». Gli ho risposto: «Jack, uno dei primi pezzi in cui sono rimasto così colpito da una triade pura è stato il finale del tuo Blue». Jack lo aveva registrato al pianoforte su un album dei Gateway, poi me lo ha insegnato in studio e così è finito sul disco.
Uno degli aspetti che più ti caratterizzano è la tua visione intellettuale ad ampio raggio. Non sei soltanto un musicista, ma anche un musicologo, un blogger molto influente, un intervistatore, un giornalista, un divulgatore… In sostanza un «pensatore musicale». Come sono posti in relazione, questi aspetti, con il tuo fare musica?
Mi sento vicino a certi eroi che hanno fatto anche lavori storici. Johannes Brahms raccolse vecchi spartiti e curò edizioni di partiture allora difficili da trovare, di François Couperin e altri. Mary Lou Williams ha verificato l’intero canone in modo eloquente e il suo «Tree Of Jazz» è uno dei migliori strumenti pedagogici mai prodotti. Donald Westlake ha scritto alcuni pezzi di critica letteraria davvero significativi oltre a pubblicare quasi cento romanzi gialli. I diari degli artisti – prima di Internet, intendo – sono spesso un’ottima lettura. Nell’era di Internet, nel momento in cui pensi a qualcosa, puoi metterla online, nel bene e nel male. Così la mia opera di pubblico sostegno per la musica, in grande stile, è anche il mio diario. Questo interagisce certamente con le mie performance e registrazioni, in una relazione molto letteraria.
Ti pensi come un compositore o come un pianista, piuttosto? O credi che tra i due aspetti non vi sia una reale differenza?
Nei Bad Plus, Dave King e Reid Anderson scrivevano così tanta musica che non dovevo preoccuparmi io di quell’aspetto. In particolare, considererò sempre Reid un grande compositore. Da quando ho lasciato i Bad Plus, non riesco a smettere di scrivere musica, come ti ho già detto. Inclusi lavori più ampi, in cui la mia parte di pianoforte non è poi così importante. Così, questo aspetto è leggermente cambiato e potrebbe cambiare ancora in futuro. Ho in mente di produrre sinfonie per gruppi jazz, in un paio d’anni. Dico sul serio!
C’è – o ci sarà – nella tua musica uno spazio per il pianoforte solo?
Decisamente! Ci sto lavorando. Suonare favolose rapsodie in forma libera è facile per me, ma mi sono esercitato con il bop e lo stride piano per anni e soltanto ora sto vedendo dei risultati davvero positivi. Sì: pianoforte pieno di swing e suonato a due mani, questo è l’obiettivo.
Qual è la vera sfida per un jazzista oggi: cercare un nuovo linguaggio o riassemblare materiali?
Come ti dicevo prima, «nuovo» è la combinazione di materiali preesistenti. Non puoi tornare indietro, ma è meglio conoscere la tradizione ed è sempre stato così. Jack DeJohnette ne è un esempio perfetto.
Che musica ascolti e come ti eserciti?
Scrivo (o almeno twitto) sulla maggior parte delle cose che ascolto, ma ho alcune playlist di assolo che mantengo in costante rotazione, cercando di impararle con l’esercizio quotidiano. Lester Young, Charlie Parker, Bud Powell, John Coltrane, Joe Henderson, Dewey Redman…
Quali sono i tuoi piani per il prossimo futuro? Ti vedremo in Italia?
Sì, perché amo l’Italia! Sto valutando chi portare in tour: purtroppo non potrò avere Larry e Jack. Potrei suonare in trio con altri musicisti in estate, ma dipenderà da alcuni fattori tra cui, ovviamente, il Covid. Tuttavia sono confermati alcuni tour con Billy Hart, Mark Turner e Ben Street. Incredibile: non ho più date libere per il 2022. Oltre al quartetto con Billy Hart, accompagnerò il cantante londinese Mark Padmore in qualche concerto e presenterò in anteprima le mie musiche per il Mark Morris Dance Group e per Dance Heginbotham. Ci sono anche alcuni progetti che non posso ancora annunciare, ma dovrebbero essere davvero fantastici, se si realizzeranno. Sono incredibilmente grato di essere nelle condizioni di fare ciò che faccio.