Perché hai scelto «Weirdo» [strana, ndr] come titolo del tuo album? Puoi dirci come è nata l’idea di questo disco?
Certo. In origine, il concetto di base dell’album era che si trattasse dell’accettazione e della celebrazione delle cose di me che mi rendono strana, come il fatto di essere cresciuta sentendomi un’altra persona, un’emarginata, una persona neurodiversa, come l’autismo, l’ADHD, tutte cose che causano molto dolore e sofferenza, ma che contribuiscono anche a rendermi ciò che sono, a rendermi diversa e speciale e tutto il resto, a rendermi unica. Volevo celebrare queste cose. Poi l’album ha preso una direzione leggermente diversa, perché all’improvviso ho perso la mia metà e la mia vita è andata a pezzi, tutto è diventato un inferno.
Ma credo che il lato di accettazione degli inizi del disco emerga comunque, perché per me si trattava di resilienza e sopravvivenza, e di trovare la forza, perché anche se le radici dell’album riguardavano l’accettazione dei miei problemi di salute mentale, poi è diventato un diario del lutto, e anche il trovarmi nell’abisso della disperazione, e avere problemi di salute mentale davvero difficili, non voler più essere qui, in sostanza. Per sei mesi non ho combinato nulla, poi sono tornata a fare musica, che è diventata la mia terapia, è diventata molto curativa, molto catartica, e mi sono chiusa nel mio studio per un anno, da sola, e ho fatto tutto. Così ho suonato tutti gli strumenti, scritto tutto, registrato, mixato, insomma, tutto è stato frutto del mio lavoro. È stato un disco molto importante per la mia salute. Ed è come se, sì, la guarigione attraverso la musica, che tutti noi facciamo in qualche modo, sia che si tratti di ascoltarla o di farla. Realizzare l’album è stato un processo di guarigione molto importante per me.
C’è una dedica per questo disco?
Non direi che sia dedicato a qualcuno. Insomma, parla più di me e del mio viaggio e del tentativo di iniziare a elaborarlo. Non so, credo che sia più dedicato a me stesso, in un certo senso, tipo: «Sì, sono ancora qui, sto ancora facendo questo, sto mettendo tutto nella musica». Penso che sia questo il punto di partenza.
Leggendo il titolo dei brani, delle canzoni, ho pensato a un concept album. Lo è?
In un certo senso, credo che la maggior parte dei brani sia stata scritta dopo quello che è successo con la mia compagna. Alcuni sono stati scritti prima, ma sicuramente c’è un filo conduttore che riguarda la salute mentale difficile e il tentativo di trovare conforto nella musica. E credo che il tono e tutto il disco provengano dallo stesso punto. Trovare l’allegria e la gioia per bilanciare l’oscurità, come fare battute e, sai, c’è molta giocosità nella musica, anche se le parole possono essere piuttosto pesanti e cupe in alcuni punti. Quindi sì, se lo si vuole definire un concept album, mi va benissimo. OK.
Perché hai scelto Wanna Die come singolo. È una scelta legata alla musica o al testo?
Penso che siano entrambe le cose. Sentivo che Wanna Die era la canzone che riassumeva l’intero disco. Ed è quella che volevo far ascoltare a tutti per prima. Perché c’è ovviamente un testo cupo, molto simile a un diario, molto straziante in alcuni punti. Ma questo è contrapposto al ritmo, che è molto vivace. E a tratti è molto divertente. Ci sono questi piccoli assoli di batteria, tipo due battute. E poi la fine è piena di accordi di chitarra distorta, tipo pop punk, che fanno molto headbanging, un po’ catartici. Mi sembrava che l’intero mondo sonoro, tutto quello che c’era nel disco fosse in questa canzone. E ho pensato: «Questo deve essere il primo singolo, perché mostra a tutti cosa succederà». Certo.
Non ho potuto vedere il video che hai realizzato per Wanna Die, ma so che lo hai curato personalmente. Cosa rappresenta e qual è la trama?
Volevo davvero mostrare alla gente il mio senso dell’umorismo. Perché volevo bilanciare il fatto che, se pubblichi una canzone intitolata Wanna Die, è un’affermazione non da poco. Quindi ho voluto mostrare alle persone l’altro lato di me, il lato buffo. E sono stata molto influenzata da uno show che andava in onda negli anni Novanta nel Regno Unito, chiamato Fast Show. Facevano uno sketch chiamato Jazz Club, in cui prendevano per il culo il jazz. Volevo prendere spunto da quello, dal video di Hey Ya, degli Outkast, da quella specie di technicolor in cui una persona è tutti i membri della band. E c’erano tutte queste influenze diverse che erano gioiose e sciocche per bilanciare i testi cupi. Anche per me si tratta di bilanciare le cose. E quindi l’intero concetto del video è mio. E, come dire, lo sto dirigendo io. E ovviamente ho un team fantastico, ma è come se fosse una specie di cosa che sta succedendo nella mia testa, in sostanza. E il fatto di essere io ogni membro della band mi è sembrato abbastanza divertente, perché è quel che sto facendo nel disco: sono io che suono tutto. Quindi volevo mostrare anche questo a chi mi ascolta, perché in precedenza non ho mai parlato di questa cosa, del fatto che suono molti strumenti diversi. Siccome questo disco è così personale e parla così tanto di me, avevo bisogno di entrare nel merito e dire: «Sì, ho fatto tutto io».
C’è un brano che mi ha davvero stupito, Stay, forse perché è molto soul. Sarà il prossimo singolo?
Non lo so.
Ma mi sembra che sia diverso dalla tua produzione precedente, con un finale che ha un’atmosfera rock.
Ci faccio un assolo di chitarra. Penso che sia un’altra traccia che riassume davvero il mondo sonoro del disco. C’era qualcuno che diceva che avremmo dovuto farne un singolo. E io pensavo che sarebbe stato troppo difficile per me cantarlo in continuazione, se fosse stato un singolo. Interpretare questa canzone mi è molto faticoso dal punto di vista emotivo, come si può capire dal testo: è una canzone che amo. L’ho suonata dal vivo un paio di volte ed è andata bene. Ma non era adatta a un singolo, proprio perché è emotivamente faticosa da cantare.
Quindi, hai fatto tutto da sola…
Oh, sì. Davvero! Sì, tutto. Ho suonato tutto io. Ho scritto tutto, registrato, prodotto. Tutto è mio. Ci sono due soli casi in cui ho coinvolto altre persone. In Black Hole c’era Reggie Watts come ospite e anche Kassa Overall ha partecipato a una canzone. Sono gli unici casi in cui qualcun altro ha toccato il disco. Per il resto, è tutto mio.
Quando rappresenterai dal vivo questo album, come ti organizzerai sul palco?
Beh, purtroppo non potrò farmi crescere qualche braccio in più! Devo coinvolgere altre persone e lavorare con la mia band, con cui basta reimmaginare le canzoni in modo leggermente diverso. E aggiungere un po’ di improvvisazione. Aggiungere qualche mente creativa diversa, per dare sapori diversi.
Il comunicato stampa per la promozione del tuo disco in Italia dice che sei una producer inglese visionaria, una compositrice e una polistrumentista. Ti consideri una visionaria?
La gente può chiamarmi come vuole. Per quanto mi riguarda, faccio solo quello che voglio fare. Quindi se la gente pensa che io sia una visionaria, è fantastico. Non mi sono mai messa a fare musica per suonare come qualcun altro. Non cerco mai di copiare un suono diverso o di essere influenzata da qualcosa di ovvio. Credo che quello che faccio sia semplicemente fare la musica che voglio fare. Cerco di essere completamente onesta e di seguire la mia intuizione.
E ci saranno molti altri mondi sonori che passeranno attraverso di me. Quindi, un sacco di grunge, soul e jazz e tutte queste cose diverse passano attraverso di me. Ma non in modo artificioso. Sono solo completamente me stessa, completamente onesta con me stessa. E creare la musica che voglio sentire e che sento nella mia testa, trasformandola in realtà. Forse non ci sono molte persone che lo fanno. Il che è un peccato.
Beh, penso che tu non sia una visionaria, perché direi che conosci esattamente la strada della tua musica.
Sì, forse hai ragione, credo che sia diverso. Perché penso che se sei visionario, è la musica che hai suonato e che suonerai in futuro, è la visione della tua musica. È diverso il concetto di visione della musica rispetto a chi è visionario. In termini italiani, è molto diverso. Perché la visione della musica è la consapevolezza di voler andare in quella certa direzione.
Quando hai deciso che la musica sarebbe stata la tua professione? E quali sono i tuoi primi ricordi musicali?
Sapevo che sarei diventata un’artista da quando avevo circa due anni. Quando gli adulti chiedevano ai bambini: «Cosa vuoi fare da grande?» loro di solito rispondevano insegnante o supereroe. Io ho sempre detto l’artista. L’ho sempre saputo dentro di me. E non c’è mai stato un secondo della mia vita in cui ho pensato che avrei fatto qualcos’altro. Non pensavo necessariamente che sarebbe stata la musica. Avrei potuto fare qualcosa di visivo. Ma sapevo di dover creare. Questo era il mio scopo. E avevo bisogno di fare arte. L’ho capito per tutta la vita. I miei primi ricordi musicali sono legati all’ascolto di canzoni che ascoltavano i miei genitori, e anche i miei nonni. Il loro gusto musicale è stato molto istruttivo per me quando ero piccola. Poi ho iniziato a suonare in prima persona quando ero molto piccola. A otto anni ho iniziato a imparare la cornetta.
Per tutta la vita ho suonato qualche strumento. La mia adolescenza l’ho trascorsa imparando a suonare la chitarra, le tastiere, la batteria e tutto il resto da sola, senza prendere lezioni, ascoltando le canzoni e suonando. Quindi ero sempre nel mio mondo, sempre a fare musica e così concentrata e ossessionata da essa. Per questo l’autismo è una buona cosa, perché ero a tal punto ossessionata che non avrei mai fatto nient’altro. Quindi sì, questo è un lato positivo di qualcosa che spesso è piuttosto doloroso nella mia vita.
Sei prima di tutto una cantante o una trombettista o una produttrice?
Non credo di poter scegliere qualcosa. Penso che abbiano tutte la stessa origine. Forse produttrice, chissà. Posso però dire che il canto è stata la prima cosa. Ero una bambina che correva sempre in giro a cantare. Quindi se avessi dovuto scegliere tra cantare e suonare la tromba, avrei scelto il canto. Se cantassi soltanto e non potessi produrre musica, però, sarei molto triste. E se producessi solo musica e non cantassi, sarei anche triste, ma non altrettanto. Quindi credo che la produttrice sia la cosa principale. La produttrice prima di tutto.
Cosa ne pensi dell’auto-tune?
Lo odio. Non lo uso mai. Nessuna delle mie musiche è quantizzata o autotonizzata. C’è tutto, c’è l’umano dentro. In passato la gente ha pensato che usassi l’auto-tune. Io rispondo sempre: No, ho solo una buona tecnica. E, sfortunatamente, anche per i peggiori l’auto-tune può essere usato per migliorare il suono di cantanti terribili. Ma anche alcuni produttori mettono l’auto-tune su cose che suonano già bene. È un’abitudine della gente. Poiché produco e mixo la mia musica da sola, non mi capiterà mai. Penso che sia una stampella che la gente si ostina a usare, ma che debba essere messo fuorilegge. Lo odio così tanto, non hai idea. È la pesona che deve cantare.
Certo, sono completamente d’accordo. Comunque, i più giovani amano l’auto-tune.
Ma è perfettamente normale che i più giovani, la Generazione Alpha o Z, ascoltino musica fatta con l’auto-tune. Non so perché lo facciano, ma questo è un problema mio. Penso che sia lo stesso per l’intelligenza artificiale.
A proposito di IA, cosa ne pensi?
Non mi piace. Cerco di usare meno tecnologia possibile. So che ovviamente il mio computer è tecnologia. Il mio hardware è tecnologia. So che c’è della tecnologia, ma cerco di usarne il meno possibile. Cerco di avere performance reali e di far sì che sia come se un essere umano suonasse qualcosa. Questo è l’ideale. E poi io la tecnologia la uso con parsimonia. Penso che quando c’è troppa tecnologia si toglie l’umano e si elimina tutto ciò che rende interessante qualcosa. Se qualcosa è così sintetizzato e plastico, credo che faccia ammalare il mondo perché non c’è nulla. È come il fast food. È tutto elaborato e sintetico e non si tratta di vere verdure e di vere cose provenienti dalla terra. E credo che riempire i nostri corpi di sostanze sintetiche, troppe cose sintetiche, ci stia uccidendo. Sta uccidendo i nostri corpi. Sta uccidendo le nostre menti. Sta uccidendo le nostre anime. Usarne un po’ per semplificarsi la vita va bene. Ma deve esserci un limite.
Quali sono state le tue principali sfide creative all’inizio, e come sono cambiate nel corso del tempo?
La sfida principale all’inizio della realizzazione di questo disco era che non sapevo più chi fossi. Avevo perso completamente me stessa. Ero in una situazione così brutta da essere costretta a ritrovare me stessa attraverso la musica. Quindi ho dovuto cercare di tornare alle mie origini, a quello che sapevo di me, ma in modo nuovo. Mi sento una persona diversa sotto molti aspetti. Ma anche una parte di me è ancora la stessa. Il modo in cui faccio musica, alla fine, mi è tornato in mente. Ci è voluto solo un po’ di tempo per tornarci. Quindi la sfida era fare il disco e farlo per me stessa. Mettere al primo posto le mie esigenze, non vivere per nessun altro perché qui non c’è nessun altro. Ora ci sono solo io. Dovevo quindi fare qualcosa per me e non ero abituata a farlo. Quindi le sfide consistevano nel mettere la mia persona al primo posto, nel mettere le mie esigenze al primo posto. E non credo che questo sia cambiato: la musica è il mio unico scopo. È ciò che mi fa alzare la mattina. È il motivo per cui sono qui, per cui stiamo parlando. È il motivo per cui sono viva. E credo di saperlo oggi più che mai. Lo apprezzo più che mai. E spero che continui così. Credo di doverlo tenere a mente e nel mio cuore per il futuro: sapere che ora conta solo la musica. Nient’altro conta.
Quali collaborazioni pensi abbiano influenzato maggiormente il tuo modo di pensare la musica?
Oh, questa è una bella domanda. Non so bene come rispondere. Una recente che mi ha davvero cambiato le cose è stata la collaborazione con Bluey degli Incognito, STR4TA. Abbiamo realizzato insieme una canzone che lui ha pubblicato con il nome di STR4TA insieme a Gilles Peterson. È stata un’esperienza davvero divertente, perché è un autore e un produttore a cui ho guardato per tutta la vita. Ricordo che da adolescente ascoltavo gli Incognito ed ero ossessionata da loro. Quindi, arrivare al punto in cui lui voleva lavorare con me è stato pazzesco, perché lavorare con qualcuno che ti ha influenzato così tanto e che ti dice: «Penso che tu sia abbastanza brava da metterci il mio nome», è stata un’esperienza incredibile. E mi ha davvero cambiato. Mi ha dato molta fiducia in quello che stavo facendo, perché il modo in cui mi piace lavorare e collaborare, cosa che potrebbe sembrare controintuitiva, è stare per conto mio, andare nel mio studio da solo e registrare e trovare idee senza nessun altro intorno a me. Lui si è davvero impegnato a farlo. Mi ha dato l’ incipit di qualcosa e io l’ho raccolto.
Mi fido del mio gusto, mi fido di quello che faccio. E il fatto che altre persone si fidino di me, ti dà una spinta in più e ti fa capire che sono sulla strada giusta. Sto facendo quello che dovrei fare. Questo mi ha cambiato emotivamente, se non musicalmente. Ha cambiato la mia autostima, credo, che è alla base di tutto.
Qual è il tuo rapporto con la tradizione del jazz?
Amo il jazz. Sono un musicista jazz. Le mie radici sono lì. I miei titoli di studio sono nel jazz. Ho un diploma in tromba e canto e, ovviamente in jazz. Ho conseguito anche il master in composizione jazz. Quindi è da lì che viene tutto. Viene tutto dal jazz, viene dal linguaggio jazzistico. Queste sono le mie radici. Ma la musica che faccio va oltre il jazz. Fa anche qualcos’altro: fa confluire in essa tanti altri stili.
Quindi mi definirei una musicista jazz che non fa jazz o fa qualcosa di più del jazz, forse jazz +. E questo può confondere alcune persone, perché magari si aspettano lo swing, una specie di bop jazz. E non è questo il genere di cose che più mi interessa. Posso suonare in quel modo. E mi sono divertita a suonare così, ma non è la musica che mi piace. Quindi mi trovo in questo nuovo mondo in cui non so come descrivere ciò che faccio. Ma credo che questo significhi che sono sulla strada giusta. Se non riesci a descriverlo, credo che tu stia facendo qualcosa di buono.
Che musica stai ascoltando in questo periodo?
Un po’ di tutto. Ultimamente sto ascoltando molta disco e soulful house, perché faccio più spesso la dj di questo tipo di musica. Ascolto molta techno. Poi anche molto grunge, soul, un po’ di pop, un po’ di nu-soul, r&b, hip hop. Ascolto così tanti tipi di cose diverse, che probabilmente è il motivo per cui la mia musica suona come un insieme di materiali diversi. Sono come un imbuto per tutte queste cose.
Quali sono i tuoi progetti futuri?
I progetti futuri sono, prima di tutto, andare in tour per presentare questo nuovo album e poi lavorare al prossimo disco. Sono in pace e sono tranquilla soltanto quando faccio musica. Quindi non vedo l’ora di tornare in studio e di realizzare il prossimo disco. E senza dubbio avrà un mondo sonoro completamente diverso. Non so ancora quale sia. Ho bisogno di vivere un po’ di vita prima di sapere cosa sia. Perché la mia musica risponde alla mia vita.
L’arte è questo: è solo prendere quello che ti passa per la testa e renderlo reale, piuttosto che copiare quello che già esiste in giro. Non è mai stata una cosa che mi ha interessato.