Dolomiti Ski Jazz, marzo 2024

di Giuseppe Segala

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John Scofield Quartet Foto Danilo Codazzi

La ventiseiesima edizione di Dolomiti Ski Jazz ha avuto come di consueto i propri momenti di rilievo nei concerti serali, che tornavano a proporre nomi di caratura internazionale, quali John Scofield, Roberto Gatto, Aaron Goldberg. In tali occasioni, il pubblico ha risposto con trasporto, affollando le sale dei teatri. Ma, come sappiamo, la rassegna ideata ventisei anni fa da Enrico Tommasini, e ancora saldamente diretta dal batterista, si basa su una serie di momenti che la rendono particolare e per certi versi unica, vista la cornice dolomitica e il felice connubio tra musica di qualità, pareti rocciose mozzafiato, piste innevate. Un’ambientazione che, con la complicità delle jam session, è riuscita a creare una sintonia umana e artistica speciale.
Tra gli appuntamenti serali, tre erano basati su lavori molto recenti e strutturati in modo tale da poter essere presi in considerazione quali tasselli per un vaglio dello stato di alcune cose nel campo del jazz. Tributi: il jazz ha sempre guardato indietro, allo scopo di spingersi avanti. Il primo tributo è quello rivolto da Roberto Gatto a Tony Williams, da poco uscito in CD con il titolo Time And Life. Dunque, non una forma di attenzione che sfrutta un nome di successo per ricevere a sua volta l’interesse delle platee. Il batterista che alla tenera età di diciassette anni fu al fianco di Miles è molto apprezzato tra gli addetti ai lavori, ma non si può certo parlare di stella popolare (per altri versi si può parlare di stella polare). Aggiungiamo che Gatto, con questo tributo, ha orientato il proprio interesse su Williams in qualità di compositore, focalizzando su un aspetto non così appariscente, eppure denso di sorprese. Ad esempio, sentendo risuonare come primo pezzo del concerto a Predazzo le note di There Comes a Time, sarà balzata facilmente all’appassionato la memorabile versione che ne fece Gil Evans, portandola tra l’altro in tour europeo negli anni Ottanta.
Questa del quintetto riunito dal batterista romano, è un’interpretazione energica ed evocativa, dove si mette subito in luce il contributo di Alfonso Santimone alle tastiere e all’elettronica, di fondamentale importanza per tutto il lavoro, perché vi porta folate di irrequieta eccentricità. Nella scelta del repertorio, si spazia dal periodo con Davis (Pee Wee e Hand Jive), a brani dei tempi successivi, mettendone in luce la fitta, sofisticata articolazione e le finezze nascoste. Sobrietà, eleganza, energia da parte dei comprimari, Marcello Alulli al sax tenore, Umberto Fiorentino alla chitarra, Francesco Puglisi al basso elettrico. Il leader guida tutto con tanta musicalità, sfoderando felpato contrappunto dialogico in brani veementi come Neptune: Creatures of Conscience e Black Comedy.

Viva De Andrè

Altro tributo in rilievo nel cartellone, quello rivolto a Fabrizio De Andrè, condotto dalla voce narrante di Luigi Viva, che al cantautore ha dedicato due libri. Ne nasceva l’adorabile titolo Viva#De Andrè. Con un gruppo di cinque musicisti guidati dal chitarrista Luigi Masciari, autore degli arrangiamenti, ove spiccavano Francesco Bearzatti al sax tenore e clarinetto, e Alessandro Gwis al pianoforte e tastiere, Viva ha percorso con ricchezza di dettagli momenti della vicenda di De Andrè in vario modo legati al jazz, alla sua passione per Jimmy Giuffre e Jim Hall. Anche in questo caso si tratta di un lavoro recente, presentato lo scorso gennaio a Umbria Jazz Winter. Qui la sfida era rappresentata dagli arrangiamenti, dove famose canzoni del poeta genovese si confrontavano con l’elaborazione nel frasario del jazz. La canzone di Marinella in chiave afrocubana e Il pescatore letto alla maniera dei Weather Report ne hanno rappresentato un esempio. La verve di Bearzatti al tenore ha ritagliato alcuni tra gli episodi più intensi della proposta.

John Scofield
Foto Danilo Codazzi

Anche nel caso di John Scofield si può parlare di tributo, di un omaggio alla musica che ha accompagnato il chitarrista nella sua gioventù degli anni Sessanta e primi Settanta. Un universo fatto di rock, blues, di country e rock and roll, già fusi egregiamente dal chitarrista nelle inflessioni del proprio stile, che qui hanno ricevuto una focalizzazione particolare. Sotto la denominazione “Yankee Go Home”, Scofield ha ripreso quanto già fatto nel recente album Uncle John’s Band, ma cambiando alcune carte in tavola: in scena non c’è più il trio con Bill Stewart alla batteria. Resta lo straordinario contrabbassista Vicente Archer, che pennella i fondali del discorso, in un organico di quartetto con Jon Cowherd al pianoforte e tastiere, e soprattutto con il batterista Josh Dion, di chiara matrice rock nell’impostazione, ma con un tocco variegato e una sensibilità notevole che lo porta a dialogare intensamente con il leader. Il quale riesce a divertirsi, a far divertire con qualcosa che forse serbava dentro da lungo tempo (ci sono anche Gerry Garcia e i suoi Grateful Dead), ma che ora è arrivato a esprimere con il massimo della maturità, della convinzione e della raffinatezza.

Boscagin-Serra
Foto Danilo Codazzi

Tra le cose ascoltate presso i rifugi, spiccava il duo di Irene Serra e Luca Boscagin, vocalist e chitarrista da tanto tempo trapiantati a Londra, che a Pampeago e al Col Rodella hanno portato un repertorio scelto con gusto dal Great British Songbook, dove brani dei Beatles, di Sting, di Peter Gabriel, degli Eurythmics e perfino dei Bee Gees hanno ricevuto un trattamento ricco di verve soul e di soluzioni timbriche pregevoli. Anche dove il divertimento prevale, brillano piccoli gioielli.
Giuseppe Segala