Il lungo Labor Day Weekend, che comprende il primo lunedì di settembre (in Europa corrisponde al 1° maggio), è per tradizione in America l’ultimo periodo «vacanziero» che definisce anche la fine dell’estate. In quei quattro giorni avvengono in contemporanea almeno tre grandi festival di jazz: Washington, Chicago e Detroit. Tra questi gli ultimi due sono totalmente gratuiti, ma Detroit spicca ogni anno per la sontuosità del programma, la calda accoglienza cittadina (sulle sponde dell’omonimo fiume fra i laghi St. Clair e Erie, nello stato del Michigan, giusto di fronte al Canada) e soprattutto per la qualità dei concerti, fra i quali emergono progetti del tutto originali. Gli appassionati lo sanno sicuramente, ma val la pena anche ricordare che Detroit è la patria della Motown, l’indimenticabile casa discografica del soul e rhythm’n’blues che fece esplodere gli enormi talenti di Marvin Gaye, Stevie Wonder, Smokey Robinson, Diana Ross, dei Jackson 5, dei Four Tops, tanto per citarne solo alcuni. Della Motown, comunque, ci siamo già occupati più volte, anche visitandone la sede, ora museo perenne, ma Detroit ha anche dato i natali a grandi jazzisti, come Milt Jackson, Geri Allen, Joe Henderson, Tommy Flanagan e tanti altri. Dunque la «Motor City» (cosi denominata quale sede di grandi industrie automobilistiche), è di fatto una delle capitali della musica afro-americana negli Stati Uniti, e la sua popolazione, preminentemente nera, segue con grande passione tutti i grandi e piccoli eventi che ne hanno consacrato nel tempo questo importante blasone culturale.
Un tuffo nel suo jazz festival è come un bagno caldo, un ristoro musicale, un soul food che durante quei quattro giorni di fine agosto ci ricongiunge con l’anima più viva e gioiosa di questa musica. Il fatto, poi, che sia l’evento jazzistico totalmente gratuito più frequentato in America fin dalle sue origini (nel 1980), lo rende speciale e come dice il suo direttore artistico, il bravo Chris Collins, un vero e proprio miracolo annuale. Come si può facilmente immaginare non è affatto facile mantenere solido e valido un evento di questa portata, con quattro palcoscenici spesso in contemporanea, dal costo assolutamente notevole, senza far pagare un biglietto ad alcuno. Eppure il Detroit Jazz Festival rinasce ogni anni può forte di prima, grazie al lavoro di chi l’organizza e il supporto dei numerosi sponsor. Una lezione che forse qualcuno dalle nostre parti dovrebbe tenere presente.
L’edizione di quest’anno è stata caratterizzata da almeno due importanti presenze: Jason Moran, che è stato artista in residenza con tre diversi progetti, e Maria Schneider con la sua favolosa orchestra. Moran ha voluto utilizzare le sue tre occasioni in modi totalmente diversi l’uno dall’altro: un incontro intimo di jazz e poesia con il dj techno Jeff Mills e la poetessa Jessica Care Moore; un omaggio a Duke Ellington con i giovani della locale Collegiate Jazz Orchestra e infine il suo trio Bandwagon con ospiti speciali la bassista/cantante Meshell Ndegeocello e la trombettista Akili Bradley. Il primo progetto è iniziato con una splendida versione in piano solo di After the Rain di John Coltrane: davvero intensa, commovente nella sua languida cadenza. Poi con Mills la musica ha acquisito una dimensione ritmica quasi reiterativa, a tratti molto coinvolgente e senza le solite mescolanze ibride acustiche e elettroniche che spesso sono terreno abusato di chi vuole suonare «contemporaneo» a tutti i costi. Un connubio, dunque, che funziona bene e può portare verso territori davvero interessanti da esplorare. Non è stato così, invece, con Jessica Care Moore: nonostante i sinceri sforzi delle poetessa di creare qualcosa di struggente con la voce recitante e il pianoforte, la musica si è ristretta in un ambito freddo e distante, poco coinvolgente.
Eccezionale invece il progetto su Ellington con l’orchestra di giovani: quella musica, lo sappiamo, è già di per sé sublime, ma l’approccio originale negli arrangiamenti da parte di Moran assieme alla grande professionalità dei ragazzi della Collegiate Orchestra, ne hanno fatto il capolavoro del festival. Il progetto non è nuovo, già realizzato anche in Italia al festival di Torino, ma la scelta dei brani e i conseguenti arrangiamenti erano del tutto differenti, oltre alla diversità totale dell’orchestra. Moran ne era talmente eccitato da chiedere all’orchestra di suonare due volte lo stesso brano: Braggin’ in Brass, un capolavoro degli anni Trenta e dalla non semplice struttura, eseguito magistralmente dall’orchestra di Detroit. Deludente, invece, l’incontro con il suo trio e Meshell Ndegeocello: doveva essere una celebrazione in chiave moderna della musica di Fats Waller, e invece il tutto si è trasformato in una lagna cantata monotonamente dalla Ndegeocello ed eseguita con corrispondente opacità dal trio. Solo gli interventi della brava Akili Bradley con la sua tromba dal suono tagliente, preciso, a suo modo affascinante, hanno potuto a volte salvare quella che è stata una dèbacle. Non è stato bello ascoltare capolavori come Ain’t Misbehavin’, Honeysuckle Rose o persino Jitterbug Waltz ridotti a miseri lamentucci. Dunque la collaborazione fra Moran e Ndegeocello non ci è sembrata fra le più felici: consiglieremmo senz’altro al primo di coltivare il terreno jazzistico come lui magistralmente sa fare e alla seconda di ritornare forse ai suoi inizi con quel bel suono funky che la caratterizzava facendola emergere come una vera e propria star. Per Bradley invece prevediamo un futuro radioso perché la stoffa rara c’è, basta che la ragazza non si perda per strada. Luminosa e trascinante come sempre è stata Maria Schneider con un’orchestra nella quale erano presenti alcuni dei suoi abituali musicisti, come Gary Versace, Dave Pietro e Scott Robinson, ai quali si sono aggiunti dei jazzisti locali di alto profilo. La musica della Schneider è fra le cose più belle che siano capitate al jazz da trent’anni a questa parte: sempre ariosa, priva di cliché, molto avanzata strutturalmente pur rimanendo all’interno dei concetti armonici e melodici. Un prodigio vivente, giustamente riconosciuto e omaggiato. A Detroit, oltre a un paio di brani più recenti (con l’annuncio ufficiale di un nuovo album di prossima registrazione intitolato «American Crow») la Schneider ha voluto rispolverare alcune belle pagine dei suoi primi dischi: in particolare Coming About (dall’album omonimo del 1996) e Green Piece dedicato al suo maestro Gil Evans (uscito nel disco d’esordio «Evanescence» del 1994).
Se già allora era evidente l’originalità della compositrice del Minnesota, nella loro veste più matura quegli stessi brani non hanno perso un centesimo della bellezza, del fresco e ampio respiro che li caratterizzava. Tra i solisti di oggi Dave Pietro al sax alto sembra aver raggiunto un livello eccelso, proprio suonando nell’orchestra della Schneider. È opinione comune, del resto, che ogni musicista dà il suo meglio con Maria, e questa è una qualità tipica dei grandi compositori e arrangiatori. Basti pensare a Duke Ellington, a Charles Mingus e ovviamente a Gil Evans per citare altri giganti del jazz. È davvero il miracolo di una ragazza nata in un paesino del Midwest, Windom, che allora contava appena seicento abitanti e dove il jazz, se c’era, passava a volte per radio. Quest’anno dunque sembra che siano state le donne ad avere lo spazio maggiore al festival: a parte Schneider si sono esibite con notevole successo sia la sassofonista Lakecia Benjamin sia la pianista Connie Han, le quali forse dovrebbero pensare di più alla musica che cercano di proporre invece che a come apparire on stage. L’altra star che viene dal Giappone e che ormai conosciamo bene, Hiromi, è sempre iperbolica al pianoforte: qualcuno dal pubblico l’ha definita una gun machine in azione e senza pietà. Allora ci siamo consolati con due belle sorprese: la cantante francese (di origine svizzera) Tatiana Eva-Marie e il gruppo di cinque performer eterogenee intitolato Zambra. Mademoiselle Tatiana è deliziosa e spesso ammiccante, con un repertorio ben studiato (e ben suonato dalla sua band) che va dal gipsy jazz alla Django Reinhardt alla canzone classica, patrimonio di Charles Trenet e di Edith Piaf. Molto belle e per nulla «laccate» le sue versioni di La Mer e di La Vie en Rose, accanto a una straordinaria Nuages del sublime e geniale chitarrista tzigano del tempo che fu.
Invece le ragazze di Zambra hanno colpito al cuore per varie ragioni: l’originalita dell’ensemble tutto corde (oud, chitarra, contrabbasso, violoncello, violino), la scelta del repertorio che va dalle melodie medio-orientali al folk, fino al rock rivisto e ristrutturato (fenomenale la loro versione di Going to California dei Led Zeppelin!), e la bravura di ogni singola musicista. Questo è un gruppo che ci piacerebbe vedere spesso in concerto, magari in Europa, perché dietro la felice commistione di stili si cela una sensibilità musicale di rara fattura. Infine un’altra ragazza ormai ben cresciuta e solida: Kris Davis, che con il suo trio si sta imponendo come una pianista e una compositrice da considerare ogni volta che ci si trovi a parlare dei musicisti più innovativi del jazz odierno. La sua tecnica ineccepibile, il talento spumeggiante in una dimensione ritmica di rara precisione fanno di Davis un’autrice da ascoltare sempre con attenzione e rispetto. Come lei poche altre (e diremmo anche pochi altri). Con la Schneider fa il paio delle donne che danno lustro al jazz dei nostri giorni: chapeau!