Primo episodio di una progettata serie sui protagonisti meno noti del jazz degli anni Venti e Trenta, l’articolo che state per leggere era rimasto allo stato embrionale, poco più di una serie di appunti che ci aveva inviato anni fa Bruno Schiozzi per discutere il da farsi. La scomparsa di Bruno, storico e importantissimo collaboratore di Musica Jazz, ha poi momentaneamente messo fine al progetto, ma ci è sembrato giusto portarne a compimento almeno la prima puntata. Magari andremo avanti, chissà. [LC]
Nella prima metà degli anni Trenta, la Casa Loma Orchestra fu la più popolare dance band degli Stati Uniti. Addirittura un gigante come Coleman Hawkins si spinse – lo riporta il suo biografo John Chilton – a dichiararla «my favorite band». E, secondo il trombettista e studioso Richard Sudhalter, «in quegli anni nessuna orchestra suscitava più dibattiti, più ammirazione e imitazione (…) Nessuna orchestra, bianca o nera che fosse, era in grado di tenerle testa per popolarità, precisione esecutiva e spirito di corpo, senza contare la sua abilità nel far ballare la gente» (Lost Chords: White Musicians and Their Contribution to Jazz, 1915-1945, Oxford University Press, 1999). Cent’anni dopo, invece, la Casa Loma Orchestra può essere soltanto vista come un caso di biasimevole sottovalutazione.
In effetti la band fu promotrice di godibilissima musica nel corso di un’estesa carriera iniziata in Canada, a Toronto, negli ultimi tre ultimi mesi del 1919 e proseguita subito dopo negli Stati Uniti, ove tra svariate traversie si concluse nel 1963. Sta di fatto che l’apparente disinvoltura con cui l’orchestra affrontava ogni genere di musica e ogni forma di arrangiamento che soddisfacessero la propria filosofia espressiva può aver generato, intonate a questa sottovalutazione, non poche remore. Comunque la band, quale fosse l’organico con cui si presentava, (rinforzato, ridotto, accorciato, standard e via dicendo), sembrava favorire, velata da una sfumata astrattezza, una sensazione di rara, duttile, sobria affidabilità. Il cuore dell’orchestra pulsava in sincronia tra ottoni e ance e sul sostegno di una solida sezione ritmica, nel rispetto di quanto esigevano le partiture del manipolo di arrangiatori che gravitava attorno a Gene Gifford (1908-1970), arrangiatore e compositore in carica. Gifford scriveva con assidua malizia e con sottili venature di humour ed era un irriducibile e abilissimo manipolatore di metriche e di giri imparentati con il blues. Era, inoltre, un accettabile chitarrista e banjoista e aveva saputo imprimere alla formazione, in certe esecuzioni medium tempo, un timing piacevolmente dinoccolato e molto caratteristico. Quel timing segnerà l’archetipo su cui le big band dello stile Swing modelleranno le loro fortune, e fornirà senza dubbio un preciso riferimento ai loro itinerari espressivi.
Raccontava spesso il grande violinista Joe Venuti come, ai tempi, Gifford destasse ammirazione un po’ ovunque. Scriveva in maniera brillante e innovativa ma sempre rispettando certi valori – e questo svela i suoi intendimenti – che hanno poi marchiato a fuoco la tradizione jazzistica. Suo illustre estimatore era certamente il greco-franco-danese Jean Goldkette (1893-1962), il quale fin dalla metà degli anni Venti era a capo di un’orchestra «da ballo» molto elegante e molto ammirata ma fortemente affollata (oltre venticinque elementi, più eventuali archi), e quindi dispendiosa. Goldkette alleviava quindi le spese del sostentamento della sua formazione con i proventi di una seconda attività ben più che redditizia: quella di impresario artistico. Ebbe difatti sotto contratto grossi calibri quali Bix Beiderbecke, Bill Rank, Frankie Trumbauer e altri importanti e celebrati campioni, oltre a svariate territory bands sparse un po’ ovunque. E si deve a un suo pressante suggerimento l’ingaggio di un gruppo «misto» tuttofare che già si esibiva con successo nell’area di Detroit, gli Orange Blossoms (primi protagonisti della nostra storia), e che, da preveggente impresario qual era, si affretterà a piazzare al Casa Loma Hotel di Toronto: le due città, anche se in nazioni diverse, distano in linea d’aria poco più di 300 chilometri.
Abilissimi nell’uniformarsi alle varie urgenze espressive in vigore, gli Orange Blossoms, destinati in breve tempo a sganciarsi dalla gestione di Goldkette per assumere la denominazione di Casa Loma Orchestra, proponevano in organico personaggi di notevole levatura tra i quali il sassofonista Glen Gray, che ne assumerà poi la direzione. La quasi icastica polivalenza espressiva degli «Oranges» era molto gradita in certi ambiti esclusivi di Toronto come, per l’appunto, il Casa Loma Hotel. Secondo Joe Venuti, impareggiabile testimone oculare di quei tempi e sempre disponibile all’aneddotica, gli Orange Blossoms erano un’autentica macchina da guerra in grado di affrontare in maniera spericolata tutti gli stili musicali in voga, pronti a modificare su due piedi qualunque brano per adattarlo alle necessità del momento. Licenze che, una volta stabilitasi a New York, la Casa Loma Orchestra riterrà di confinare senza indugio, attribuendosi connotazioni ben più coerenti fino ad assumere un ruolo di chiaro orientamento per certe correnti innovative che fluttuavano nell’aria, ed evitando nel contempo di dover sottostare a richieste spesso mortificanti. Fatto sta che l’arrivo degli Orange Blossoms al Casa Loma Hotel precedette di poco un periodo di grande splendore. Le grandes soirées si susseguivano e gli incassi tendevano a incrementare, e per il padrone di casa, Sir Henry Mill Pellatt, finanziere di altissimo bordo nonché proprietario della famosa «House on the Hill» (Casa Loma, per l’appunto) era gioia pura.
Singolare personaggio apparentemente fuori dal mondo ma in realtà assai concreto, Sir Henry viveva da autentico monarca nella residenza che aveva fatto erigere per sé e per i suoi danarosi e altolocati ospiti. Era una delle dimore più vaste ed eleganti di tutto il Nord America (novantotto camere arredate con mobili d’epoca, di cui una cinquantina allestite a lussuosissime suite), menu raffinati, personale qualificato. Pareva non vi fossero limiti alla grandeur che vi regnava. La fastosità era sfrenata, in quel maniero, la cui costruzione – progettata da uno dei più rinomati architetti canadesi del tempo, E.J. Lennox, che su richiesta dello stesso committente si era ispirato al celeberrimo castello scozzese di Balmoral, una delle storiche residenze della casa reale britannica – si era protratta dal 1911 al 1913 ed era costata tre milioni e mezzo di dollari (di allora) coinvolgendo oltre 300 persone tra arredatori, antiquari, mobilieri, carpentieri, progettisti di interni e così via. Casa Loma fu così immersa in svariati ettari di verde, tra giardini impreziositi da fontane, gruppi scultorei, statue e laghetti. Sir Henry amava ricordare che secondo Winston Churchill, suo stimato amico nonché assiduo frequentatore della mansion, neppure in Inghilterra il verde era così tanto ben curato. Schiere di giardinieri si dedicavano alla manutenzione di quello che fin da subito era assurto a simbolo della città.
Henry Mill Pellatt era nato a Kingston, nella provincia del Canada West (vecchia denominazione dello Stato che è oggi l’Ontario) il 6 gennaio 1859 da una ricca famiglia scozzese che possedeva una fiorentissima società di intermediazione mobiliare. Dopo una lunga e onorata carriera nel corpo dei Fucilieri della Regina, dove era entrato come soldato semplice per raggiungere infine il grado di Commander General e la nomina a baronetto, aveva preso le redini dell’azienda di famiglia rivelandosi investitore lungimirante e fornendo un decisivo contributo allo sviluppo sia della rete ferroviaria sia delle centrali idroelettriche nell’allora dominion britannico. Parallelamente, Sir Henry si dedicava con implacabile attivismo a innumerevoli progetti di carattere filantropico, finanziando ospedali, collegi, una società di ambulanze, scuole, ricoveri per indigenti: in mille circostanze si rivelò un benefattore entusiasta. Ma fu, a dirla tutta, anche inventore di notevoli stravaganze. La più celebre riguarda il trasferimento di due mesi in Inghilterra, a sue spese, dei 600 uomini del reggimento dei Fucilieri, più relativi cavalli e attrezzature, in occasione del cinquantennale del Corpo.
Per Sir Henry le cose iniziarono a ingarbugliarsi quando la tassazione relativa a Casa Loma e alle numerose proprietà connesse, che prima del 1915 ammontava a 600 dollari l’anno, fu elevata – con l’instaurarsi della Grande Depressione e il sorgere di una comprensibile ondata di populismo – a ben 12.000. Una follia, per quei tempi. Infine, quando la provincia del Canada West, sulla scorta dell’avviata nazionalizzazione dei servizi essenziali, lo espropriò delle sue industrie idroelettriche e del relativo monopolio, Sir Henry accusò il colpo e, ferito nell’orgoglio oltre che nella borsa, nell’inverno del 1923 si ritirò in una fattoria di campagna che già possedeva ma che fu distrutta da un incendio pochi anni dopo. Nel 1929, rimasto vedovo per la seconda volta, fece costruire l’ennesima abitazione nei pressi di Toronto (stavolta con vista lago), in cui si trasferì assieme al suo fedele autista e dove morì, ottantenne, l’8 marzo 1939. Il feretro, gratificato dai massimi onori militari, sfilò tra due imponenti ali di quella folla – decine di migliaia di persone – che, in fin dei conti, molto doveva non solo alla sua intraprendenza imprenditoriale ma anche alla sua filantropia. Fu così che si conclusero i fasti della Casa Loma dopo un decennio irripetibile, che era costato a Sir Henry Pellett cifre inenarrabili.
Ma facciamo qualche passo indietro. Ancora si stavano ultimando i lavori del maniero che una tranche degli Orange Blossoms, sbandierando la nuova denominazione «Casa Loma Orchestra», partiva per un’astuta, breve, tournée promozionale. Nel frattempo una seconda Casa Loma Orchestra, costituita dai superstiti, decideva di lanciarsi in un coraggioso vis à vis con il fervore musicale di Broadway. Risulterà una decisione azzeccatissima. La nascita della definitiva Casa Loma Orchestra, che riassorbì poi anche i transfughi, si deve proprio a questa scelta. Glen Gray, futuro uomo di punta e direttore della band, faceva parte dell’ala «decisionista». Prima del trasferimento a New York vennero fissati alcuni punti fermi (che poi tanto fermi non risulteranno). Fu convenuto che il podio di direttore d’orchestra sarebbe spettato, per i primi anni, a un uomo di provata esperienza quale il violinista Henry Biagini. Fu deciso, anche se a malincuore, di sdoganarsi dalla gestione di Jean Goldkette. Fu sancito che la novella Casa Loma avrebbe avuto lo status di cooperativa, con dieci soci fondatori: gli stessi destinati a formare anche il consiglio di amministrazione. Il tenorista Pat Davis avrebbe ricoperto contemporaneamente i ruoli di segretario e di tesoriere. Fu stabilito che la band dovesse risultare iscritta ufficialmente alla Camera di Commercio di New York come Casa Loma Orchestra, Inc. ad attestare il nuovo, importantissimo assetto societario. Fu definito uno statuto molto severo che, tra le altre cose, vietava ai soci l’abuso di bevande alcoliche: sanzione prevista per i trasgressori, l’immediata radiazione dalla società (e nell’autunno del 1935, come vedremo, vi incapperà il personaggio più determinante nell’indirizzo stilistico della band, ovvero Gene Gifford); infine fu concordato che gli eventuali utili di gestione sarebbero stati equamente ripartiti tra i dieci membri fondatori.
Negli USA la nuova Casa Loma Orchestra incontrò subito simpatie. Ai newyorkesi piaceva quel suo timing dinoccolato con cui smascherava certi influssi easy going di vago sapore country. Vi era poi l’assiduo ricorso a riff nient’affatto insignificanti e, grazie alle partiture di autori di indubbia qualità – il boss Gene Gifford, il suo vice Bill Challis, Lyle «Spud» Murphy (ovvero il tedesco Miko Stefanovič, esperto di riecheggiamenti «classici»), Larry Wagner (noto per i vivaci colori orchestrali) e «Tutti» Camarata (alias l’italo-americano Salvatore Cammarata) – il repertorio si rivelava più che soddisfacente. Tutti costoro vollero anche approfondire l’ascolto delle trascrizioni radiofoniche delle band afro-americane che dettavano legge a Kansas City. Del resto anche la prima formazione, quella rimasta in Canada, aveva nutrito ambizioni più che giustificate di primeggiare con perentorietà, riuscendovi soprattutto grazie ai due solisti di maggiore caratura, Bobby Jones e Billy Rauch. Ma la Casa Loma in versione USA perseguiva un’idea di musica assai meno disposta a compromessi, come rivela l’ascolto dei brani incisi nel corso degli anni da una band che includeva trombettisti della qualità e personalità di Sonny Dunham, Grady Watts, Joe Hostetter, trombonisti come Pee Wee Hunt e Fritz Hummel, sassofonisti e clarinettisti quali Clarence Hutchenrider, Kenny Sargent, Pat Davis e Glen Gray. Semmai si potrebbe stimare in positivo l’autocontrollo del singolo solista, attento a smorzare eventuali eccessi di ambizione. Tuttavia poteva accadere che la band accusasse lievi cali di vivacità o di spigliatezza o incontrasse lievi problemi di allineamento. Problemi dovuti alla vastità e alla varietà del repertorio da gestire, che per sbarcare il lunario doveva giocoforza comprendere anche esecuzioni di non stretta impronta jazzistica.
È comunque indubbio che gran parte dell’affermazione della Casa Loma Orchestra dal 1929 in poi si deve al vigore, alla determinazione, alla sincerità e all’assoluta mancanza di prosopopea con cui Glen Gray si è sempre mosso. La prima volta che mise piede sul marmo a riquadri della splendida hall del Casa Loma Hotel, i danarosi astanti scambiarono quello spilungone alto due metri e rotti per il capitano di una squadra di basket. Ed era anche un elegantone: baffetti ben modellati, camminata elastica, blazer blu e pantaloni bianchi, scarpe di vernice nera eccetera. L’ingresso del corteo che lo seguiva, invece, suscitò sconcerto. Identica divisa ma niente stazze atletiche, anzi. Si trattava in effetti di una equipe tutt’altro che sportiva: erano gli Orange Blossoms, di cui in quei giorni Gray era soltanto uno dei sidemen. Un sideman di grande e altissima (207 centimetri!) rappresentanza, ma soprattutto di forte carisma e già destinato a prendere in mano la situazione.
Era nato come Glen Gray Knoblaugh il 7 giugno 1900 a Metamora, Illinois. Orfano di padre dall’età di due anni, studia presso la Roanoke High School e già soffia in un sax mezzo scassato. A diciassette si arruola nell’esercito, ma ben presto si congeda e trova un impiego alle ferrovie. Nel 1921 frequenta per qualche mese l’American Conservatory of Music di Chicago, ma il richiamo delle rotaie e della musica dal vivo è fortissimo e il ragazzo riesce a farsi assumere dalla gloriosa Santa Fe Railroad. Ha un debole per gli strumenti ad ancia e, con il nome di «Spike» Knoblaugh (gli spikes sono, per l’appunto, i chiodi da rotaia), nell’inverno 1925-1926 risulta sassofonista in una band guidata per breve tempo da Henry Biagini (al quale succederà Mel Jensen), quegli Orange Blossoms che già ben conosciamo e che, in formazione ridotta, avrebbero dovuto prodursi in un piccolo club direttamente connesso al Casa Loma Hotel al fine di creare un’appropriata atmosfera per gli eventuali after hours della ricca clientela. Ma il piccolo club non aprirà mai i battenti, e gli Orange Blossoms, in una storia di naturale fusione, entreranno poco dopo nella Casa Loma Orchestra, aiutando la band a propiziare un repertorio spigliato, disinibitamente vario, in prevalenza swingante (il così classificato «hot jazz») ma non interdetto a noti standard e morbide ballad. Una formula alla quale un Benny Goodman finalmente maturato si atterrà con successo nei tardi anni Trenta e primi Quaranta.
Come suonava Gray? Si può dire che tendesse a sviluppare, a perfezionare e a inventare assolo su un fondo già solido, ben articolato, connaturale alla sua ispirazione, evitando di perdersi nei labirinti del gratuito virtuosismo strumentale. Dal suo sax preferito, il contralto, otteneva un tono cavo, pacatamente marcato, con scarso vibrato, ma solido e sempre ben controllato, alleggerito di ogni enfasi. Secondo una valutazione stringatissima, Gray si può semplicemente definire un autentico professionista e un buon solista. Manifestava le fonti del suo universo musicale con le proprietà evidenziate nei suoi poco frequenti assoli (non amava mettersi in mostra), secondo una comunicativa schietta e immediata: era tutto fuorché prolisso. Fornì anche ottime prove sul versante compositivo e firmò arrangiamenti di notevole interesse, soprattutto quando parve sapersi affrancare da specifiche urgenze creative. Ben di rado accuserà stasi inventive. Si ritirerà nel 1950 per motivi di salute, quando i grandi contraltisti del jazz americano avevano ormai centrato la piena affermazione, ed era stata proprio la personalità di un maestro come Benny Carter a rappresentare il suo orientamento primario. Un volta ristabilito, riapparirà nel 1956 sulla West Coast, registrando quasi sempre per la Capitol, con formazioni composte dai grandi turnisti dell’epoca, la musica che gli veniva via via commissionata: sempre rivelando buon gusto e proprietà. Morirà il 23 agosto 1963 di tumore, ma per qualche tempo la Capitol continuerà a pubblicare dischi a suo nome.
La Casa Loma Orchestra raggiunse la maggiore popolarità dal 1930 al 1935, proprio nel periodo in cui il nostro «Spike» era particolarmente attivo in prima persona, tanto che spesso i dischi della band venivano pubblicati sotto la dicitura «Glen Gray and the Casa Loma Orchestra». Il che, tutto sommato, rispondeva al vero. Curiosamente Gray, sebbene da anni risultasse il più importante uomo della band, solo nel 1937, su pressione dell’intera orchestra, assunse l’incarico di front man scalzando Mel Jensen che, con tanto di bacchetta, si atteggiava in maniera patetica a direttore.
Si è accennato alla penalizzazione in cui malauguratamente incorse Gene Gifford, che per vari anni fu arrangiatore capo della formazione di Toronto, distinguendosi anche come compositore di grande talento. Era un musicista di grande originalità, e le sue partiture, senza dubbio, seppero definire uno stile. Non si è mai ben saputo cosa ne avesse scatenato l’alcolismo, anche se per un certo tempo Gifford fu abile a tenere celato il suo problema. Il Nostro è comunque mentalmente più che presente quando, nel 1933 e nel 1934, la Casa Loma Orchestra partecipa negli USA a una trasmissione radiofonica settimanale di grande ascolto, il Camel Caravan. Mai prima d’allora una formazione jazz vi aveva figurato. La popolarità della band schizza alle stelle. L’orchestra è subissata di richieste. I college se la contendono accanitamente. Quel timing lievemente dinoccolato che Gene Gifford era riuscito a infondere nella band con le sue charts piace a tutti, soprattutto ai giovani.
Nel 1935, ormai alcolista incontrollabile, Gifford viene sostituito. Gli succede Larry Clinton (1909-1985) che arriva, con credenziali di tutto rispetto, dall’orchestra dei fratelli Dorsey. Clinton si trova ad affrontare il compito ingrato di rimpiazzare un colosso come Gifford, ma se la caverà egregiamente. Non si avvertiranno, in effetti, scosse di assestamento. Ormai inserita al meglio nella Broadway che conta, la Casa Loma Orchestra suscita consensi inaugurando tra gli applausi il palcoscenico del Paramount Theater e guadagnandosi successivamente due scritture estive molto ambite al Glen Island Casino, noto soprattutto per le sue dirette radiofoniche delle più famose big band. Tali collegamenti via radio erano frequenti e molto seguiti, a tutto beneficio della popolarità dell’orchestra, che viene poi accolta con inatteso favore al Roseland Ballroom di New York, celeberrima sede degli avvenimenti più prestigiosi dello show business. La band è pertanto adocchiata da un accorto talent scout della OKeh Records, che si affretta a promuovere, il 29 ottobre 1929 e il 6 febbraio 1930, due sedute di registrazione. Ne nascono sei brani: Love Is a Dreamer, Lucky Me Loveable You, Happy Days Are Here Again, Romance, Sweeping the Clouds Away, Anytime’s the Time to Fall in Love, affidati purtroppo al vaporoso canto di Jack Richmond e, quindi, inadeguatamente dimostrativi del contributo orchestrale. Ma dal background sonoro qualcosa trapela. Sono preziosità di indubitabile firma (quella di Gifford) che la Casa Loma Orchestra promuove a sostegno del cantante. Più probanti si riveleranno le registrazioni che l’orchestra effettuerà, contemporaneamente a quelle per OKeh, Brunswick e Victor e, negli anni a venire (1930-1934), per Decca e altre etichette, rinforzata saltuariamente da ottimi jazzmen come il chitarrista Herb Ellis il trombettista Bobby Hackett, il pianista Nick Denucci e il cornettista Red Nichols, ai quali faranno poi seguito come ospiti anche Louis Armstrong, Hoagy Carmichael, Conte Candoli, Mildred Bailey e Connee Boswell. Ma l’ascesa travolgente di Benny Goodman cambierà le carte in tavola per tutte le big band, e la Casa Loma non avrebbe fatto eccezione.
A conclusione di questa piccola retrospettiva, cosa rimane oggi della musica di Glen Gray e dei suoi soci? Sulle piattaforme di streaming si trovano moltissime cose, spesso però all’interno di compilations raffazzonate e dal pessimo suono. La panoramica più ampia disponibile al momento è un triplo cd della Jasmine («All the Hits & More») che copre gli anni dal 1931 al 1945 presentando una selezione di incisioni realizzate in origine, come già detto, per OKeh, Decca, Brunswick e Victor. Per quanto riguarda i video, esistono tre cortometraggi girati nei primi anni Quaranta, ovvero Glen Gray and the Casa Loma Orchestra (Warner Bros., 1942), che propone Get Happy, Purple Moonlight, Broom Street e uno stuzzicante Darktown Strutters’ Ball; Smoke Rings, (Universal, 1943) con la band più Eugenie Baird, Pee Wee Hunt e i Pied Pipers, che affrontano Can’t Get Stuff in Your Cuff, That’s My Affair, Little Man With the Hammer; e infine Jam Session (1944) per la sola orchestra. Il primo, Glen Gray and the Casa Loma Orchestra, è disponibile su YouTube ed è diretto nientemeno che da un celebre regista come Jean Negulesco: ulteriore conferma di quanto, all’epoca, la band fosse ancora fortemente radicata nell’immaginario collettivo degli appassionati.