Caetano Veloso. Meu Coco

È un grande onore poter ospitare una conversazione con una delle voci più significative della musica contemporanea. Dopo oltre cinquant’anni di carriera, il genio di Santo Amaro ha ancora molte cose da dire, non soltanto sui dischi

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Il tuo nuovo disco «Meu Coco» arriva a nove anni di distanza dal precedente «Abraçaço». In che maniera il tuo modo di fare musica si è trasformato in questo periodo?

Non ho sentito il trascorrere del tempo. Ho fatto molte cose nel corso di questi anni. I concerti con Gil, con Teresa Cristina e, principalmente, quelli con i miei figli. Sono state tournée molto lunghe. Qualcosa, però, dev’essere cambiato in questi anni, è impossibile non cambiare. Eppure non saprei dire cosa. Quello che so è che il disco è fatto di canzoni molto diverse tra loro.

In un certo senso «Meu Coco» può essere considerato un disco-esaltazione del Brasile nonostante sia venuto alla luce in un momento storico tristemente complicato. In che modo vivi questa dicotomia?

Il brano Meu Coco, da cui il disco prende in prestito il titolo, è nitidamente una canzone-esaltazione. Il resto del disco va nello stesso senso. Soltanto la canzone Anjos Tronchos si discosta da questa linea andando, in un certo senso, nel verso opposto. In Enzo Gabriel c’è una vena di grande malinconia e Não vou deixar è una canzone di confronto. Quello che faccio in questo disco è sostanzialmente esaltare il Brasile da un punto di vista lontano dalle fatiche frivole della nostra vita attuale. La stessa cosa accade nei confronti delle questioni politiche da cui il disco prende una distanza immensa. Accade anche quando (o forse proprio per questo) parla così da vicino delle mostruosità di oggi.

foto di Fernando Young
Tra i tanti nomi che citi nel disco c’è quello di Marília Mendonça, giovane artista vittima di un incidente aereo. Cosa rappresentava Marília per la musica brasiliana e per quale ragione hai deciso di citarla?

Seguo con grande attenzione quel che accade nella galassia della musica popolare brasiliana. Esattamente come facevo quando ero bambino. Marília Mendonça mi aveva impressionato molto durante alcune sue partecipazioni in un programma televisivo che oggi fa le veci di MTV. La sua voce, la sua intonazione, l’atteggiamento determinato ma disarmato, i testi che parlano direttamente di una donna più libera di quelle che, durante la mia giovinezza, cantavano le classiche canzoni sentimentali.

Anjos Tronchos è un brano sulle conseguenze dell’avanzo incontrollato delle nuove tecnologie. Che rapporto hai con questo universo?

In realtà credo di non avere quasi alcun rapporto con le nuove tecnologie. Resto in contatto via mail con poche persone. A volte utilizzo Google e Wikipedia per fare qualche ricerca. Non seguo i canali social. E sto ancora imparando ad ascoltare musica in streaming. Quando Internet si impose, alcuni amici miei si mostrarono fortemente ottimisti: era una sorta di ampliamento della democrazia. Fui l’unico a mostrarsi scettico. Più tardi ho visto risultati inquietanti, a cui tutto questo ha contribuito nella stessa misura in cui alcuni progressi tecnologici si mostravano capaci di arricchirci. Per quel che riguarda il brano che citi, quando ho iniziato a comporlo non ero convinto che sarei riuscito a terminarlo. L’immagine degli angeli mutilati nella Silicon Valley si è imposta nella mia immaginazione ma ho subito pensato di metterla da parte per un altro momento se non proprio di scartarla. Poi, però, mi sono ricordato della famosa poesia di Carlos Drummond de Andrade che inizia così «Quando eu nasci, um anjo torto / Desses que vivem nas sombras, me disse: / Vai, Carlos, ser gauche na vida» (Quando sono nato, un angelo storto / Di quelli che vivono nell’ombra, mi ha detto: / Vai, Carlos, sii goffo nella vita). Per un po’ ho messo da parte quest’idea eppure, quasi naturalmente, nella mia mente molte immagini hanno continuato a sovrapporsi, tant’è che dopo poche settimane mi sono ritrovato con una canzone così lunga da non avere parti che si ripetono.

Nel brano Enzo Gabriel l’io narrante pone una domanda molto chiara all’ascoltatore: Quale sarà il tuo ruolo nella salvezza del mondo? Credi che Enzo Gabriel riuscirà a fare meglio di noi?

Lo spero, anche se per molti di loro è ancora molto presto. Per saperlo dobbiamo aspettare che i bambini nati adesso e che hanno ricevuto questo nome arrivino a 18 o 22 anni.

Nel disco è presente una imponente base ritmica. In che modo hai intrecciato la ritmica alle composizioni?

Per quasi tutti i brani del disco ho pensato alle percussioni prima ancora di comporre le melodie e i testi. Credo che questo sia ben evidente nell’intero lavoro.

Nel brano Não vou deixar assumi una chiara posizione di difesa della storia del Brasile. Qual è il ruolo a cui l’arte assurge in questo processo?

Quando affermo che non permetterò a nessuno di umiliare la nostra storia, lo dico in quanto artista. Credo che la meschinità in cui viviamo oggi non sia all’altezza dell’energia artistica che conserviamo.

A cosa si deve, secondo te, la crescita spaventosa dell’estrema destra in Brasile e in che modo è possibile contrastarla?

L’estrema destra, purtroppo, è un problema mondiale. Penso che questo avanzamento sia dovuto a una riscoperta di forze conservatrici e reazionarie che si ribellano a una presunta superiorità dei progressisti. È un’esplosione di rancore. Allo stesso tempo credo che esista una sensazione di reale fragilità del conservatorismo, che non si manifesta più come semplice «maggioranza silenziosa». Adesso fa rumore, crea confusione. Viviamo, probabilmente, l’inizio di un cambiamento che va oltre tutto questo. Magari i cambiamenti climatici preannunciano la fine del mondo. Oppure stiamo soltanto vivendo l’inizio di un cambiamento di era, di impero, di paradigma.

Foto di Fernando Young
Ho sempre guardato ai tropicalisti come a una voce di libertà durante la dittatura militare. Credi che il Brasile di oggi stia attraversando un momento simile a quello che avete vissuto negli anni Sessanta?

No. Non è simile ma ha nostalgia di quel periodo. Elogia apertamente la tortura e i torturatori, umilia la produzione culturale, disprezza l’educazione.

Il Brasile si prepara a nuove elezioni e mi sembra che il Paese sia ben diviso tra sostenitori di Bolsonaro e sostenitori di Lula. Credi che sia davvero necessaria una terza via?

Non mi piace l’espressione «terza via» Mi ricorda i partiti progressisti dell’emisfero ricco che adottavano il neo-liberalismo. Come figure politiche, mi piace Lula e detesto Bolsonaro. Voterò chiunque possa sconfiggere il secondo. Con questo non voglio dire che non possa crescere qualcosa di nuovo, di diverso. Mi è sempre piaciuto Ciro Gomes.

Di recente, il quotidiano portoghese Diário de Notícias ha pubblicato un articolo sulla preoccupazione dei genitori e degli educatori portoghesi in relazione all’influenza del portoghese brasiliano sui bambini portoghesi; i quali, consumando molti contenuti brasiliani su Youtube, finiscono per acquisire parole ed espressioni che non sono usate in Portogallo. Nel giornale, i bambini scambiavano «autocarro» con «ônibus» e «relva» (erba) con «grama». A mio parere, il brano Você-Você, registrato con Carminho, cantante portoghese di fado, guarda a questa mistura linguistica come a una ricchezza. Tu cosa ne pensi?

Anch’io ho letto l’articolo del Diário de Notícias che citi. Solo un linguista vedeva la questione con occhi capaci almeno di relativizzarla. Tutti gli altri presagivano soltanto una catastrofe. La mia discussione con Carminho, che mi ha portato a comporre Você-Você, è nata proprio perché disapprovavo l’elisione della parola «você» nei testi delle canzoni brasiliane che ha registrato. I Beatles hanno ottenuto onorificenze britanniche quando hanno imitato il rock americano. Da brasiliano, non sono contento di vedere il Portogallo reagire in maniera così becera dinanzi a un fenomeno a dir poco affascinante. Come lusofoni, possiamo tutti avere un clima mentale più sano.

Pietro Scaramuzzo

(Musica Jazz n. 853, dicembre 2021)